Volete pazziare
Per un punto Martin vinse la cappa!
Non è possibile! Anzi è possibilissimo!!
Introduzione
Alla voce aneddoto il dizionario recita: Particolare curioso, inedito, raccolto a fine moralistico o ricreativo più che storiografico, in margine a un personaggio o ad un evento famoso.
Come tasso di curiosità spero di essere a posto; inedito, se qualcuno non mi ha rubato già l’idea, idem come sopra; fine moralistico assolutamente no, ma ricreativo lo spero proprio; storiografico invero lo è un po’ in quanto riguarda la storia di noi schermitori; rinuncio volentieri, con buona dose di falsa modestia, ad essere il personaggio famoso della definizione e interpreterei l’evento famoso in titolo quale la vita che ognuno di noi, chi più chi meno, ha dedicato alla più fantastica di tutte le discipline, naturalmente anche di tutte le epoche. Scherzi a parte, l’aneddoto, pur con la sua modesta dimensione strutturale che spesso lo relega non certo nelle prime file della nostra memoria, ha comunque un qualcosa di speciale, direi di indelebile, un qualcosa che spesso ci fa increspare le labbra in un accenno di sorriso; un file nascosto, lo definirebbe la cultura informatica odierna.
Ebbene, allora avanti con questi benedetti aneddoti: chi più ne ha più ne metta!
a Firenze nel febbraio del 2021 Stefano Gardenti
Perché tiro di scherma
Unusquisque faber est fortunae suae, recita il condivisibile saggio detto latino; ma io vorrei avanzare qualche dubbio, almeno quello riguardante il perché ho tirato di scherma.
Prologo: mia madre assiste alla televisione ad alcuni assalti di scherma in occasione delle Olimpiadi romane e resta affascinata da ciò che vede.
Un paio di anni dopo, tornando da scuola, le dico che avrei potuto fare un corso di scherma; avrei potuto, perché, dimenticandomi il messaggio, il giorno delle iscrizioni era ormai passato.
Stefano devi assolutamente fare questo corso, sosteneva mia madre, è uno sport veramente elegante e affascinante; il professore è troppo severo e preciso per fare un’eccezione per me, rispondevo io. Tra l’altro, ad onor del vero, all’epoca pensavo che la scherma la facessero ormai solo al cinema i tre moschettieri e Zorro!
Se mi state leggendo, allora avete già capito come andò a finire: se ne può desumere che non è vero che la propria sorte dipende da noi stessi, ma altre volte dalla propria madre; il libero arbitrio è un’altra cosa. Comunque a fidarsi della mamma non si sbaglia mai: grazie, è stata una splendida avventura!
Soldi alla mano, ragazzi
Lo schermitore è lo sportivo che probabilmente suda di più: tutto necessariamente bardato, salvo la coraggiosa mano non armata ed il retro della maschera che svolge la preziosa funzione di presa d’aria; sempre in avanti e indietro, infarcito il tutto con affondi sparati al massimo della potenza o in alternativa con frecciate terra – aria.
Così era ed è in tutte le sale di scherma; ma a noi in particolare interessa quella di via Cerva a Milano verso la metà degli anni ’60: avevamo al massimo quindici anni perché era un C.A.S. cioè un centro addestramento del CONI; di conseguenza eravamo dotati di energie da profondere pressappoco infinite, senza in pratica pause o necessità di recupero (beata gioventù!).
C’era un unico handicap: sudavamo come uno svedese nella sua amata sauna; quindi ci buttavamo sulle Coca – Cola che vendeva il custode; conoscendo bene le nostre risorse finanziarie, premetteva sempre: Soldi alla mano, ragazzi, soldi alla mano.
Poi le dava comunque a tutti; probabilmente da cattolico era stato colpito dal celebre detto misericordioso Dar da bere agli assetati; oppure era semplicemente come ora ce lo ricordiamo: Nino, il generoso.
Il guardone
Oggi siamo bombardati da migliaia di immagini ogni giorno, sia singole che messe in serie a formare un video.
Prima non era così; soprattutto quelle più interessanti, almeno per un quindicenne ai primi pruriti, dovevi procurartele personalmente.
Fu così che un nostro compagno di sala, novello Conte di Montecristo, si accorse che tramite uno strettissimo cunicolo si poteva andare a sbirciare nello spogliatoio delle nostre compagne di sala.
Detto, fatto: da sopra una sedia uno di noi gli fece scaletta e lui cominciò a strisciare dentro, mentre noi cominciammo a fantasticare in gruppo chissà cosa!
Ma come le celebri ciambelle, anche non tutti i cunicoli vengono con il buco: il potenziale guardone si incastrò dopo qualche metro e, cominciando a frignare perché non riusciva a tornare indietro, ci costrinse ad andare a chiamare il maestro, novello vigile del fuoco.
Non ci potemmo appellare né alle Convenzioni di Ginevra, né al Tribunale dell’Aia; a noi maschietti venne inflitto il massimo della pena: 15 giorni di sole lezioni e preschermistica, senza liberi assalti.
In seguito, fortunosamente, scoprimmo Playboy!
Occhiali scuri
Prima alle gare, anche quelle più grosse, eravamo i soliti quattro gatti, per cui ci conoscevamo tutti, arbitri compresi. Eravamo giovani e tutti ci parevano vecchi, forse anche più di quello che fossero in realtà: vestiti, linguaggio e atteggiamenti sembravano testimoniarci che l’800 non era poi così lontano nel tempo.
Nell’ambiente della scherma il rispetto era assoluto, forse anche eccessivo, ma, detto fra di noi, ciò non ci turbava più di tanto; o almeno questo era il mio pensiero.
Siamo a disputare una gara a Genova, probabilmente una Cesare Pompilio; è una giornata piovosa e buia e l’illuminazione dello stand della Fiera del mare forse non è la location migliore: molti di noi si lamentano della scarsa visibilità, ma ovviamente non ci possono né mettere delle candele a bordo pedana, né deviare la luce del faro del vicino porto!
Tale anziano giudice piemontese tra l’altro inforca due occhiali scurissimi, apparentemente da cieco, e più di una volta non si accorge della segnalazione luminosa della stoccata anche perché il suono del cicalino si riduce ad un impercettibile ding. Gli vado vicino per segnalare la stoccata, lui seraficamente si gira verso di me e mi dice: Quale stoccata?
I kruker
E dire che tra gli errori della mia gioventù sono stato anche pescatore! Ma procediamo per ordine: non siamo né su un Freccia Rossa, né d’argento, siamo su un normalissimo treno che ci sta portando da Milano a Trieste per partecipare ai Campionati Nazionali giovanetti di sciabola datati 1967.
Il viaggio è abbastanza lungo e noioso, ma per fortuna c’è il maestro Marcello Lodetti, simpatico e soprattutto molto di compagnia con noi ragazzi.
Parla e ci racconta come la sua nonna era bravissima a fare i kruker: buoni da morire e uno tira l’altro, ci diceva; qualche volta li inzuppava anche nel caffellatte. Insomma kruker di qua, kruker di là; da circa cinque minuti il maestro non parla d’altro. Nessuno si accorge, ma sta montando la canna da pesca: pelo, sugherino, piombini e naturalmente un acuminato amo.
Se ricordo bene noi allievi eravamo in quattro, tutti lombardi tranne il sottoscritto, nato in riva d’Arno dove il Manzoni era venuto a sciacquare i suoi panni linguistici; tutti furbescamente tacevano, per cui mi sentii quasi in obbligo di chiedere cosa fossero questi benedetti kruker.
Sento la lenza che tira: Sono i strunz col suker, disse il maestro pescatore.
Fuori dall’emiciclo
Le gare di scherma dei tempi addietro erano quasi sempre qualcosa di molto prossimo al caos primordiale ricordato dalla maggior parte delle varie religioni.
In verità noi partecipanti non eravamo in gran numero, però, ovviamente, si deve tener conto dello spazio in cui ci si trovava; poi le competizioni si svolgevano un po’ alla buona: non c’erano i recinti gara del giorno d’oggi, ma tutto un inconfuso composto da atleti, accompagnatori, arbitri, genitori, fratelli e sorelle, oltre qualche raro curioso.
Quel giorno eravamo a Roma per il Gran Premio Giovanissimi e noi, al secondo anno allievi, eravamo gli anziani del gruppo. Di solito le attese erano lunghissime perché veniva fatto tutto a mano senza i computer di oggi. Eravamo nel palazzetto dello sport dell’EUR: gradinate completamente vuote e tutti, dico tutti, nella cosiddetta zona gara; visto da fuori sembrava proprio ci fosse un party organizzato da qualcuno per un qualcosa.
Il brusio era altissimo, forse pari a un milione di api; ogni tanto qualche fragorosa risata. Poi all’improvviso un rumore di accensione di microfono: Tutti fuori dall’emiciclo, tuonò Edoardo Mangiarotti, che era il direttore di torneo. Si mosse solo una decina di persone: solo quelle che conoscevano il significato architettonico di emiciclo!
Li abbiamo ciulati
Da Genova arrivare a Montecarlo è quasi una passeggiata.
Partimmo in quattro con il maggiolone della Volkswagen, per fortuna non quello matto del film di Walt Disney: con le sacche da scherma fu una vera sfida alla legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi! La gara era di fioretto è andò abbastanza maluccio: l’unico dubbio fu se gli arbitri fossero stati in malissima fede oppure proprio completamente stupidi di natura.
Eravamo comunque all’estero e il solito fumatore di turno comprò una paio di stecche di sigarette, Marlboro credo; noi ci preoccupammo dei controlli alla frontiera, ma lui ci disse: Tranquilli, ragazzi.
Passiamo la sbarra francese e ci mettiamo in fila nel lungo piazzale per rientrare in Italia; c’è parecchia gente, quindi scendiamo e l’amico fumatore, neanche a dirlo, si accende una sigaretta; ma poi tira fuori le stecche da contrabbandiere scafato e, ostentandole verso i francesi, ci guarda, ride, si compiace e dice: Li abbiamo ciulati, li abbiamo ciulati!
La fortuna fu che i nostri Finanzieri erano abbastanza lontani e indaffarati con altri; quando fu il nostro turno passammo indenni, mentre uno di noi teneva la sua mano sulla bocca dell’imbecille.
La spada smarrita
Ho cominciato a tirare di spada al CAS Milano perché i miei amici sciabolatori erano così pochi che spesso ero l’unico bitagliente in sala.
Fatta la mia buona lezione di sciabola con il grande maestro Kewey, andavo dal custode e mi facevo prestare una spada e il relativo passante: il manico era francese, cioè liscio, e questo mi procurava non pochi problemi per l’impugnatura. In effetti la scuola milanese dei Mangiarotti era basata su questo manico in quanto il padre Giuseppe aveva importato la spada agonistica in Italia proprio dalla vicina Francia agli inizi del ‘900.
Comunque a me questo tipo di manico non andava proprio: mi sembrava di avere in mano una specie di scopa ingovernabile. Mi lamentavo proprio di questo con i miei compagni spadisti, che, giustamente insensibili a questo mio handicap, continuavano a bastonarmi solennemente. Poi un giorno, tornando da una gara, Guerini (ricordo purtroppo solo il cognome) mi disse: Guarda cosa ho trovato nella sacca; e mi regalò la prima spada con comodo manico anatomico che avessi visto.
Un altro amico che era stato alla stessa gara mi raccontò poi di aver sentito lo speaker della gara dire più volte: Chi avesse per errore messo una spada non sua nella sacca, per favore, la restituisca.
A 180 all’ora
Da Milano a Catania ci sono all’incirca 1.340 chilometri; e, se consideriamo oltre l’andata anche il ritorno, arriviamo a 2.680. Non male per una trasferta in macchina per andare al Mannino di spada alla fine degli anni ‘60; l’ing. Cerri, babbo di Alberico, invita anche me, Gianluigi Colombo ed Emilio Boffi e partiamo per la nostra Parigi – Dakar.
Il veicolo è ampio, confortevole e soprattutto, essendo una Lancia Flavia, superveloce: in effetti una chiacchiera di scherma tira l’altra, tre o quattro fermate tecniche per prendere e dare, un paio di cori goliardici e siamo già sullo Stretto di Messina. Arriviamo ai piedi dell’Etna, pernottiamo e disputiamo la gara con alterne vicende; c’è una settantina di partecipanti, per cui, complice la costante formula dei gironi all’italiana e finale ad otto, tiriamo sino quasi all’ora di cena.
Ingurgitiamo qualcosa e novelli Argonauti saliamo sulla nostra Argo e ripartiamo per il nord. Approdati a Reggio Calabria, Morfeo ci batte cinque a zero e sprofondiamo nel più tranquillo dei sonni; dura poco, siamo svegliati di colpo da una sterzata impressionante che quasi ci mette uno sopra l’altro: Alberico ci dice: Non volevo certo ammazzare una nutria a 180 all’ora! A parte i complimenti al nostro amico per le sue conoscenze zoofile, istituimmo rigorosi turni di guardia.
Brodo di manzo
Milan l’ è un gran Milan, mi avevano detto accogliendomi nella città di Meneghino. In effetti in questa città è tutto grandioso: viali, piazze e similari; ma non solo per questo, state a sentire.
Quando ho iniziato a far scherma non c’era nemmeno non dico la doccia, ma neanche lo spogliatoio; tutto era alla buona, come si addiceva agli anni del vicino dopoguerra. Pensiamo poi alla ristorazione, così importante per noi schermitori che notoriamente sudiamo abbondantemente: era un miracolo se c’era un bagno in cui andare a bere l’acqua della cannella, calda e con sapore sgradevole, ma pur sempre un liquido.
Non dico cosa pensai quando nella nuova sala dove mi ero iscritto si poteva bere la Coca – Cola, chiedendola al custode; roba quasi da tavolino al bar.
Ebbene, come schermitore errante, cambio ancora club e appena entrato in sala noto un distributore automatico di bibite; poi l’inconcepibile: c’era un pulsante per far sgorgare brodo di manzo, ripeto brodo di manzo! Io e un mio amico non resistemmo e dopo qualche giorno pressammo il curioso pulsante: furono le 100 lire dell’epoca peggio spese, perché, di nascosto, andammo a buttare nel gabinetto dello spogliatoio quello schifosissimo brodo di manzo.
Le cefole ringraziano
Gli schermitori in genere non sono rancorosi ed è una fortuna, perché, pur edulcorate, hanno per le mani sempre armi. Ma, come ben sappiamo, non siamo tutti uguali e soprattutto è da tener conto che negli anni sessanta i nostri maestri erano anagraficamente molto prossimi ad inizio secolo, quando il concetto di onore era ancora molto in voga e, pur essendo vietato dalla legge, c’era ancora gente che si sfidava a duello, fortunatamente, si fa così per dire, al primo sangue.
Il fatto è breve: andiamo a Genova a fare una gara a squadre; passiamo il primo turno con girone all’italiana e al secondo turno siamo accoppiati per l’eliminazione diretta; fermi tutti, c’è stato un errore; ci riaccoppiano, ma la nuova squadra che ci vede avversari contesta vivacemente; un addetto ai lavori dice a questa squadra: Tutte queste scene per quelle cefole là! (preciso che le cefole siamo noi); poi in gara vinciamo e li eliminiamo.
Tornati in sala, raccontiamo l’episodio al nostro un po’ antiquato maestro, che, essendo il più vicino, mi acchiappa per il bavero della divisa quasi sollevandomi da terra e prorompe: Siete andati a dire che le cefole ringraziano? Da sagace fiorentino rispondo prontamente: Maestro, abbiamo fatto di meglio, li abbiamo convocati per la mattina dopo dietro i Giardini del Lussemburgo a Parigi! Bella città, rispose il maestro.
L’attacco parte da destra
Il movimento schermistico in questi circa 60 anni che lo frequento si è evoluto non poco: è cambiato completamente il mondo ed è cambiata ovviamente anche la scherma.
In specie si è sviluppato non poco il G.S.A. ovvero il Gruppo Schermistico Arbitrale: pochi erano gli schermitori e quindi di concerto pochi in proporzione erano i presidenti di giuria, definiti così pomposamente in quanto erano a capo di una vera pletora di aiutanti, come i cartellonisti, i cronometristi e all’arma bianca i giurati; poche in effetti erano le gare. Negli anni ’60 il livello tecnico poi non era eccelso e in effetti molto pochi erano gli italiani che prendevano l’abilitazione per arbitrare le gare internazionali all’estero. Uno dei motivi di questa situazione era la non più verde età media degli arbitri, ciò anche in ossequio al fatto che tutti gli organismi della Schema erano fortemente conservatori.
Accadde così un giorno che tal presidente di giuria, arbitrando un incontro di spada, in occasione di un colpo doppio abbia assegnato la stoccata allo schermitore alla sua destra in quanto gli riconosceva la priorità d’attacco. Fu convinto per le vie brevi…; già sbagliavano in condizioni normali, ma questo fu veramente eccessivo!
Dove mi hai preso
Ci sono avversari e avversari: quello che incontri alla gara ed è un tuo compagno di sala, quello che è di un altro club, ma ti è simpaticissimo; c’è, purtroppo, anche quello molto antipatico.
E di antipatie, come sappiamo tutti, ce ne sono di molte specie: quella a pelle, che è poi la più stupida e magari poi si trasforma in sincera amicizia; c’è quella dovuta alla sbruffoneria dell’avversario o, per contro, alla sua eccessiva introversione; c’è quella dell’invidioso, quella del dispettoso o del volgare. Insomma una variegata congerie di tratti umani.
Ma c’è anche quella legata alla presunzione, forse la più difficile da digerire o almeno così a me pare: sale in pedana lui ed è il più bravo, tira le stoccate più belle o almeno così fa capire, esige la claque personale e si circonda di adulatori. Una figura agli antipodi rispetto a ciò che mi hanno sempre insegnato i miei tanti maestri.
Ebbene, in una gara salgo con lui in pedana: tocca lui, tocco io …siamo sul quattro pari; corpo a corpo molto confuso, l’arbitro tarda a dare il prescritto alt ed io riesco a mettere la stoccata. Si sfila velocissimamente la maschera, mi si avvicina minaccioso e chiede a me e non all’arbitro (!): Dove mi hai preso?! Io, da buon fiorentino, rispondo con il monosillabo lì e indico con l’indice della mano non armata il suo deretano.
Volete pazziare?
Alla fine degli anni ’60 dove pensate che dei giovani schermitori di vent’anni vadano a Parigi dopo aver effettuato la gara? Forse alla Tour Eiffel, a Montparnasse, sull’Avenue des Champs Elysées?!
Ma per favore! Tutti a Pigalle, la mitica e lussuriosa Pigalle. E’ il primo pomeriggio, ma qui tutte le ore sono uguali, luce o buio, qui si pensa solo al sesso! Benissimo e finalmente, pensiamo noi cinque italiani tutti ancora obbrobriosamente compressi dal cattolicesimo casalingo.
Night di qua, night di là; andiamo lì, no forse è meglio laggiù. Finalmente entriamo: buio da inciampare, locale angusto, stoffa da tutte le parti, promettente luce di un cupo rosso. Ci mettiamo a un tavolino e subito vengono a prendere l’ordine: per cinque Coca – Cola abbiamo dato fondo all’argent de poche di cui ci ha munificato la Federazione! Però ora ce lo spogliarello! Una vera delusione; meglio la Edwige Fenech dei nostri film caserecci. Usciamo delusi non poco.
Ma il bello (!) sta per arrivare: camminiamo tutti e cinque di fianco, quando ci si para di fronte un tipo strano e ci dice in perfetto napoletano: Ragazzi, volete pazziare?
No, Grazie, abbiamo già fatto!
Buona la pasta al forno
Oggi per lo più i treni sono come i teatri: posti numerati e nessun’altro.
Prima non era esattamente così: non solo i posti a sedere erano spesso una conquista sociale, ma addirittura si faceva concorrenza alle povere sardine in scatola! Arrivava il treno ed era un vero e proprio assalto alla diligenza, senza dignità e nemmeno pudore; d’altra parte è solo sulle navi che si deve dar la precedenza ai bambini e ai vecchi; non più alle donne, perché altrimenti le femministe si arrabbiano.
Lo schermitore ha anche il suo pesante e scomodo fardello da portare, la sacca delle armi che all’epoca non aveva nemmeno le rotelle. Riusciamo a salire sul treno, appunto a salire e basta: c’è talmente tanta gente che un paio di noi deve addirittura stare nel gabinetto, che, notoriamente, su questi mezzi è meglio definito come vero cesso. D’altra parte non potevamo perdere l’ultimo treno per la gara.
Arriviamo affamati a Bologna, dove ci procuriamo i famosi cestini da viaggio: niente male visto che c’è una bella porzione di pasta al forno; ne passiamo due anche ai nostri amici sistemati in bagno; a vent’anni si mangia di tutto e dovunque!
Lo spiritoso di turno dice: digestione rapida, prego
Ovomaltina
Esser goloso di dolci è il minore dei mali: il peggio è quando sei accusato periodicamente di esserlo.
Fatti i dolci tuoi, viene da rispondere; ma intanto resti goloso.
Solitamente doppia razione di torta, tranquillità raggiunta solo quando la scatola di cioccolatini è vuota e quando sei diventato grande due cucchiaini pieni di zucchero nel caffè. Questa è ed è sempre stata la mia ricetta della felicità papillativa.
Non mi risparmiavo nemmeno durante lo svolgimento delle gare: portavo sempre meco una confezione di zollette di zucchero, della marca Eridania se ricordo bene. E zolletta di qua e zolletta di là, data la mia ben nota generosità, tornavo a casa con la scatoletta vuota.
Ora siamo sulle sponde del lago di Lugano, dove si disputava ogni anno un torneo di un certo livello. Arrivo, entro sul luogo gara e resto paralizzato; i miei amici mi chiedono: Cosa c’è, Stefano. Guardate laggiù, rispondo, c’è lo stand della Ovomaltina.
La gara mi sembra che quella volta non sia andata benissimo, ma della trasferta conservai per parecchio tempo un ricordo dolcissimo.
Ti masturbi?
Il Centro Addestramento scherma di Milano, già alla metà degli anni ’60, era all’avanguardia per quanto riguarda la prevenzione medica per gli sportivi.
Prima tutti sotto i gradoni dell’Arena di Milano a fare l’elettrocardiogramma sotto sforzo (il celebre cubo con deambulazione su e giù); poi visita medica individuale presso la nostra stessa sala di scherma con un dottore, specialista non nel senso comune del termine, ma specialista in quanto era anche lui uno schermitore; era Giovanni Battista Breda, azzurro di spada.
E’ il mio turno ed entro un po’ imbarazzato; preciso che a quei tempi tutti i miei coetanei erano spesso imbarazzati e, come ben presto saprete, ne avevano ben donde. Ciao, spogliati, mi dice il dottore. Tattica quasi schermistica: Anche le mutande? Si, tutto!
Rosso paonazzo, mi sfilo gli slip e resto sull’attenti, fissando con lo sguardo un punto indefinito della stanza; mi sia avvicina, mi fa girare e poi rigirare; poi con la velocità di una frecciata mi chiede: Ti masturbi? Faccio anch’io scherma e, come una risposta dopo una parata di quarta, appunto rispondo: Un po’.
Lui contropara. risponde e mi dice: Stai pure tranquillo tanto non diventi cieco.
Telefono gratuito
E chi si ricorda di quando c’erano solo due telefoni al mondo: uno quello di casa tua, l’altro quello della cabina telefonica?! Tra l’altro erano telefoni e basta e non come oggi un guazzabuglio di utilità, di cui la maggior parte se ne potrebbe sicuramente fare a meno. Ma come facevamo senza essere connessi col mondo? Eppure non ricorrevamo ai famosi segnali di fumo dei pellerossa o al tam tam della giungla. Eravamo semplicemente irraggiungibili, come del resto ancor’oggi spesso sentenzia sarcasticamente il nostro cellulare.
Comunque quando uscivamo avevamo sempre in tasca un gettone del telefono, quello bronzeo che in alcuni anni veniva anche usato come moneta corrente del valore di 50 lire (vecchie e care!).
Ma per noi schermitori genovesi c’era una golosa eccezione: in effetti in sala, cosa mai vista in altre città, c’era un telefono pubblico; si ma un telefono tutto particolare, che invece di andare a gettoni andava a pugni; sì, componevi il numero, poi tiravi uno o più cazzottoni e parlavi gratuitamente.
Un giorno l’amato maestro Broccini, mise la testa fuori della sala e ci disse: Ragazzi, così buttate giù il muro! Da fiorentino verace con la battuta pronta, risposi: Maestro, sia gentile, pensi di essere un maestro di pugilato.
La sciabola dei sogni
Era solo da un anno che ero passato dal fioretto alla sciabola: il maestro Dario Mangiarotti aveva parlato con mia madre, dicendole che non mi avrebbe fatto male provare una nuova arma; probabilmente la verità vera era che i CAS, Genova – Milano – Napoli e Roma, dovevano disputare i loro campionati nazionali e di triangolari sotto la Madunina ce n’erano veramente pochini. A me piaceva la scherma e se mi avessero messo in mano anche un’alabarda avrei tirato con essa.
Salto i campionati regionali per un motivo che non ricordo più; ma, sempre Mangiarotti, si raccomanda di partecipare ai Nazionali di Roma. E chi la rifiuta una gita con tutti i miei compagni di scherma!
Io all’epoca non possedevo neanche una sciabola, per cui mi rassicurarono che alla gara qualcuno ci avrebbe pensato. Sì, pensato ed anche arrabbiato: Edoardo Mangiarotti in persona mi porta da un custode che apre uno stanzino, fruga un po’ e poi mi consegna una sciabola, una.
Mai dire mai: vinco la gara e mi consegnano medaglia e coppa; già prefiguro di attaccare la sciabola gloriosa in camera mia, ma il custode, attentissimo e completamente indifferente, se la fa riconsegnare.
Della sciabola mi resta solo il sogno.
Onora il maestro
Sin da piccoli ci dicevano: Onora il padre e la madre, ma avrebbero fatto meglio a mettere nell’elenco anche il maestro.
State a sentire.
La GIAS Genova, per cui ho tirato per un’annata schermistica, era una sala favolosa; ma non tanto per il numero di pedane, per la bravura dei maestri o cose affini. Era favolosa perché c’erano un flipper e soprattutto un tavolo da ping pong.
Per sfortuna il concetto di allenamento multilaterale doveva ancora essere teorizzato, anche se noi allievi lo avevamo già istintivamente scoperto: stavamo più a giocare e a gozzovigliare che ad allenarci seriamente tirando di scherma.
Ragazzi, venite; ve lo dico per l’ultima volta, tuonò il maestro; dopo qualche istante ce lo vedemmo arrivare con una sciabola in mano; bruttissimo segno perché lui insegnava solo spada.
Fu una gara ad acchiappino attorno al tavolo, sino a quando, arrivato a portata di molinello da uno di noi, colpì senza pietà alcuna. Maestro, ma è scemo?! Fu il commento irrispettoso del malcapitato.
Da vigliacchi chiudemmo gli occhi per non vedere il seguito; e da quel giorno onorammo di più il maestro.
Doccia, prego
Se frequenti uno spogliatoio sportivo prima o poi perdi il senso del pudore di cui tutti siamo normalmente dotati, esibizionisti a parte.
Lo sportivo in genere suda, lo schermitore di più; le docce le installano non gli sponsor dei bagnoschiuma o degli shampoo, ma coloro che hanno un senso dell’olfatto più sviluppato degli altri.
La relazione matematica tra questi due entità è: ho pudore + mi vergogno a mettermi nudo = faccio la doccia a casa.
I maestri di scherma, solitamente non sono laureati in Matematica, e quindi non sono in grado di risolvere questa equazione.
Ne ebbi prova quando, dopo reiterati inviti più o meno cortesi, il maestro entrò nello spogliatoio con la sciabola in mano e chiese: Dov’è il timido più puzzolente del mondo?
Fu uno spogliarello rapidissimo e, privato del libero arbitrio, il malcapitato, anche senza avere poi un accappatoio, fu fatto arretrare a molinelli sin sotto la doccia. Il maestro, soddisfatto, disse: Esci di lì solo quando profumerai di mughetto.
Fu così che quel pomeriggio il nostro compagno perse per sempre il suo pudore.
Permaflex
Probabilmente vi ho già raccontato di che disastro fossero le trasferte in treno: eravamo sempre in gruppi alquanto numerosi e sacca di scherma dotati.
Non arrivavano mai i 18 anni per la patente di guida e di conseguenza non arrivava mai la 500 Fiat che era il minimo sindacale; per ora c’era l’irrinunciabile duro treno. Alla partenza dalla stazione le famose malebolge dantesche al confronto erano dei tranquilli paradisi tropicali; la salita tramite il predellino con la sacca a tracolla era da conquista del K2 e lo stretto corridoio era un problema anche per i non claustrofobici. La questione non era il posto a sedere, il problema era riuscire a salire quantomeno sul treno, poi c’era tutto il tempo del viaggio per comporre piano piano il puzzle di persone e bagagli.
Quella volta però la trasferta fu particolare in quanto dovevamo viaggiare quasi tutta la notte; eravamo distribuiti con le nostre sacche per tutto il corridoio e non ci restò che imitare i cavalli, dormendo in piedi pur appoggiati di qua e di là.
Qualcuno disse: Ehi, guardate! Il nostro compagno più grosso, un vero Golia, era riuscito quasi a sdraiarsi per terra e un altro nostro compagno alquanto esile, il corrispettivo Davide, gli si era disteso sopra, utilizzandolo a mo’ di materasso; un vero Permaflex!
Non vietato fumare
La prima sigaretta in bocca l’ho messa abbondantemente dopo i vent’anni: non avvertivo evidentemente l’esigenza di sentirmi scafato attraverso un gesto che poteva fare chiunque. In seguito ho scoperto il fumo a pipa e quello meno impegnativo di un buon sigaro pur di piccole dimensioni: oggi il tutto si confà al signore attempato che sono diventato. Comunque il fumo nella mia gioventù l’ho sempre percepito come un tabù, un qualcosa di non necessario e comunque di non pertinente alla figura dello sportivo.
Tutto ciò premesso, state un po’ a sentire cosa mi capita nella sala genovese della GIAS, dove sono approdato per un paio di anni scarsi. Entro, mi presento, mi accolgono con entusiasmo anche perché l’anno precedente ho vinto la Coppa internazionale città di Genova.
Sento la voce un po’ cavernosa del simpaticissimo maestro Broccini che mi dice: Vieni subito in pedana che ti sistemo io. Vado nello spogliatoio e comincio la vestizione; percepisco uno strano odore, vagamente di fumo e penso: Ma guarda come sono coraggiosi i miei nuovi compagni fumano anche qui. Entro in sala e vedo il maestro con la sigaretta in bocca! Un paio di boccate, si mette la maschera e comincia la lezione! Il fumo esce dalla maschera …fantascherma!
L’angolo del maiale
Lo spogliatoio è ed è sempre per gli schermitori uno stato indipendente: niente formalismo obbligatorio in sala per l’attenta supervisione del maestro, linguaggio sicuramente non forbito (almeno nello spogliatoio maschile), ripetuti scherzi goliardici pur non cattivi come quelli della naja; insomma un mondo libero e soprattutto disinibito.
I maestri entravano ogni morte di papa, quindi alquanto raramente e soprattutto per comprovati motivi, tipo una eccessiva rumorosa confusione o per dire a qualche allievo qualcosa di importante che si erano dimenticati di dire in sala. Lo spogliatoio era comunque per i non allievi off limits; non c’era scritto come nelle zone militari “limite invalicabile”, ma in pratica era così: una legge non scritta, ma una consueto longi temporis praescripta (precisazione legale).
Ebbene un giorno ecco l’inaspettata violazione: entra come una furia il maestro e con voce tuonante chiede: Dov’è l’angolo del maiale? Tale era stata la sorpresa che il compagno più a lui vicino, senza nemmeno aprir bocca, stese il suo indice verso un armadietto.
Infilando la divisa in un sacchetto, disse: Gliela mando a sua madre, perché non sopporto più il suo olezzo.
Cena dall’ambasciatore
Accadde che, vincendo a Città di Lussemburgo la gara a squadre delle Forze NATO, la sera stessa fummo invitati a cena nientepopodimenoché dal nostro ambasciatore. Noi atleti ed il capo delegazione in rigorosa giacca blu pur con sotto i jeans, mentre il maestro indossava una semplice magliettina e delle colpevoli zoccole bianche ai piedi.
Per farvi capire in che ambiente fossimo capitati credo sia sufficiente riferirvi che fummo accolti da un cameriere di lingua spagnola in giacca verde e guanti bianchi. I primi dolori si evidenziarono a tavola, dove il cameriere, con molta probabilità malignamente, si mise con il vassoio accanto per primo al nostro colorato maestro, il quale, aspettando di essere servito, sembrava una statuetta di sale; un calcio da sotto il tavolo gli fece capire che invece doveva servirsi da solo.
Dopo cena, trasferitici nel comodissimo salotto, le cose precipitarono: l’ambasciatore parlava con citazioni in greco, latino e in chissà quale altra lingua. Noi atleti, pur freschi di studi, tutti strategicamente zitti; poi l’ambasciatore tirò due tremende sciabolate: la prima dicendo al nostro accompagnatore che aveva travisato San Tommaso con Tommaso d’Aquino; la seconda, ben peggiore, raccomandando al nostro maestro di Rileggere Bacone!
Deserto del Sahara
Acqua, acqua! Questo sommesso lamento saliva in ogni sala di scherma, compresi i palazzetti dove si stavano disputando gare, grandi o piccole che fossero.
Ma come?! Sei scafandrato nella divisa dal valore equipollente o fors’anche superiore ad una delle migliori saune finlandesi e non puoi assumere liquidi? Almeno sino alla metà degli anni ’70 certissimamente sì; e per due specifici motivi.
Il primo che non esistevano ancora le bottiglie di plastica (meno male per allora!) e nessuno voleva presentarsi ai bordi della pedana con vistose bottiglie di vetro, magari quelle dotate di chiusura a molle a prova di acqua Idrolitina, né usare le borracce che all’epoca erano quelle di alluminio dismesse dalle Forze Armate.
Il secondo è che per diventare forti schermitori si pensava a quei tempi che occorresse solo la lezione di scherma, infarcita magari da qualche sporadico esercizio di preschermistica; nelle sale infatti c’era ancora la monarchia assoluta del maestro, senza pletora alcuna di preparatori atletici, istruttori, psicologi, nutrizionisti e similari. Poi una rivoluzione, forse superiore a quella americana e russa sommate insieme: oggi, oltre alla squisita e semplice acqua, anche bevande energetiche a go-go …forse bastava dire: Per favore, ho sete!
Per un punto Martin vinse la cappa!
Eh sì! Proprio al contrario del celebre detto latino; se non ci credete state a sentire.
All’epoca nella scherma non c’era il ranking, ovvero la classifica individuale di tutti gli schermitori maggiori dei quindici anni: sulle pedane eravamo i famosi quattro gatti, le gare le andavamo cercando con il lanternino e soprattutto non c’era il computer; quindi c’erano le categorie: Non Classificati = sconosciuti paria, Terza categoria = almeno hai un nome, Seconda categoria = semi-dei, Prima categoria = parenti stretti di Zeus.
Ma come ci si spostava da categoria a categoria? C’erano i rispettivi campionati nazionali e, se per due anni non confermavi il tuo valore, venivi retrocesso e degradato. Ebbene, da diciassettenne armato di fiducia e ancor più di incoscienza in quanto andavo ad affrontare schermitori più esperti e forti, vado a Torino gli N.C. (leggasi Non Classificati). Passo un turno, ne passo un altro e un altro ancora: eccomi all’ultimo assalto sul quattro pari, se vinco non sono più un paria …ritorno in sala ancora da signor nessuno (e non vi ho detto che “di spada” conducevo 4 a 2!). Bastava un nonnulla e …l’anno dopo non avrei vinto il Campionato degli N.C.
Capite:per un punto (dopo) Stefano vinse la coppa
Non è possibile! Anzi è possibilissimo!!
C’è chi non si mette nemmeno a cercare il famoso ago nell’altrettanto famoso pagliaio e c’è chi giura di non aver trovato mai un trifoglio in tutta la sua vita.
A me invece è successo proprio il contrario in una gara di scherma: eppoi parlano di calcolo delle probabilità!
Vado a Rimini per disputare i Campionati Italiani dei Non Classificati di spada: passo un turno, ne passo un altro e così via: l’entusiasmo, ben mescolato all’incoscienza dei diciotto anni, mi fa volare sulla pedana. Non me ne rendo nemmeno conto si può vincere, ma anche perdere: io intanto li batto tutti, uno dietro l’altro; anche il maestro mi dice di guardare sempre avanti e mai all’indietro.
Ma ecco finalmente un ovvio e statistico incidente di percorso: un certo Michele, tra l’altro mio amico di Catania dove ho iniziato a far scherma, mi batte e …non sono più vergine; finalmente! Poi riprendo la mia invulnerabilità, quasi da far invidia ad Achille in persona, ovviamente tallone escluso. Avanti tutta ed entro in finale; ultimo assalto valido per il titolo con chi? Proprio con Michele; non lo poteva prevedere nemmeno la cabala babilonese, quella dei famosi versi di Orazio.
Com’è andata a finire? Un solo neo, grazie.
Le calze dimenticate
Lasciate le coste della Trinacria e le nervose vicinanze del Mongibello ad opera degli amministratori delegati della banca dove lavorava mio padre, arrivai nella caotica Milano. Tutto nuovo: prima di tutto il clima, poi il linguaggio, i compagni di scuola e …ovviamente anche quelli della sala di scherma.
Giornata emozionante quando mia madre mi accompagna al Centro CONI di Milano nelle vicinanze di San Babila; emozionante ancor di più quando chiedo a mia madre se avesse messo le calze da scherma nella mia borsa. Dalla risposta capii che era finito da un pezzo l’epoca degli armigeri e dei servitori: le bianche calze erano rimaste tristemente a casa. Niente di male disse la mamma: vedrai che il primo giorno non ti faranno fare nulla. Erano, pur amorevoli, le ultime parole famose: dopo le presentazioni mi fu detto di andare a cambiarmi per fare alcune stoccate con i nuovi compagni. Uscii dallo spogliatoio già rosso in viso a causa delle vistose calze color violaceo, che oltre all’oltraggio cromatico mi procurarono dei pizzicori da varicella in quanto erano di pura lana. Sembrava andasse tutto liscio, finché la segretaria mi fece un cenno con un dito e mi disse: quelle mai più!
E fu così che non le dimenticai davvero più: da allora controllavo le calze prima ancora delle mutande.
Il calcio di inizio
Ci sono delle gare che non si possono dimenticare: era il 1966 e sono convocato per una gara a staffetta a Jesi: Carola Mangiarotti e Pier Alberto Testoni di fioretto, Guido Bezzola di spada e il sottoscritto di sciabola. Eravamo tutti allievi e quindi avremmo affrontato tutti schermitori molto più anziani; ma l’incoscienza giovanile e soprattutto la guida del campionissimo Mangiarotti non aggiunse nemmeno un battito in più ai nostri giovani cuori.
Trasferta in una comodissima macchina, ottimo viaggio e pernottamento nella cittadina dove Costanza di Altavilla partorì Federico II di Svevia sotto una tenda della piazza del mercato (ma queste cose ancora le ignoravamo all’epoca dei fatti!). Sveglia, frugale colazione da agonista e poi tutti alla gara: la formula, lo sapevamo già, era a staffetta; poi ci comunicano l’ordine degli incontri: prima la sciabola, poi il fioretto femminile seguito da quello maschile e a chiudere la spada.
Sto per salire sulla pedana per il primo incontro e sento la Signora Mimì, moglie di Edoardo, che mi chiama; mi accosto, pensando a un in bocca al lupo, invece mi fa girare e mi assesta, ovviamente appena accennato, un calcetto là dove non splende il sole.
Il gesto scaramantico, ripetuto ad ogni incontro, ci permise un’ottima prestazione di squadra.