Edoardo (Edi) Bernkopf
edber@studiober.com
Prologo.
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto….. |
Cari amici, accolgo con grande piacere, solleticato anche nel mio EGO, l’invito di Stefano a scrivere alcuni ricordi della mia avventura schermistica, che è stata bellissima, intensa e ricca di emozioni. Ha segnato la mia giovinezza, ma mi resta incollata alla pelle ancora oggi: ho appeso il fioretto al chiodo da oltre mezzo secolo, ma in tanti momenti me lo sento ancora stretto fra le dita.
Desidero aprire il mio album dei ricordi con questa canzone, che di certo toccherà il cuore a tutti gli amici schermitori, come ha toccato il mio. Non la conoscevo, ma gli “esperti” mi dicevano che era ed è famosa. Mi ha colpito come una stoccata dritta al petto: ha superato qualunque parata, eluso qualunque tentativo di difesa. La mia controdiquarta qui non è servita. Mi fa tornare in mente la gioia delle esperienze e delle forti emozioni che la scherma mi ha dato, e il confronto che in quegli anni facevo con le abitudini insulse di molti miei coetanei, o con l’odio e la violenza che l’impegno politico spesso generava: erano gli anni di piombo dopo il ’68.
Cirano é un personaggio che mi ha sempre affascinato e commosso, fin da quando ho letto al Liceo la commedia di Rostand. Il testo (leggetelo) e la musica di Guccini sono struggenti.
Credo non possa che fare lo stesso effetto a quanti amano la vita, l’amore, l’amicizia e la scherma.
A voi! Edi
https://www.youtube.com/watch?v=0yYm2c4cPHk
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1960- Incontro accademico nella splendida cornice del Teatro Olimpico di Vicenza in onore degli olimpionici di Roma.
Il Panathlon di Vicenza aveva invitato la vittoriosa squadra azzurra che aveva vinto l’oro nelle Olimpiadi di Roma ’60. Ricordo Saccaro, Delfino, Pavesi, Pellegnino, Edoardo Mangiarotti, Calarese. Si sono accademicamente affrontati divisi in due squadre, nella platea nello splendido Teatro Olimpico, capolavoro del Palladio. Li affiancavano alcuni schermitori del nostro Circolo della Spada, e fra questi c’ero anch’io (terzo da sinistra): avevo otto anni, e ho tirato il primo assalto con un mio coetaneo. Fra i nostri seniores c’era anche mio papà (secondo da sinistra). Com’era giovane!
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1963 – il primo titolo italiano
Nel ‘62 la categoria Giovanissimi andava fino ai 15 anni: l’anno dopo sarebbe stata frazionata in Maschietti Giovanissimi e Allievi. Era la mia prima trasferta importante: la sede era Napoli, che da Vicenza si raggiungeva con 9 ore di treno. Avevo 9 anni e dovevo tirare con ragazzotti di 15, che erano ormai degli uomini. Al campionato era abbinato il Trofeo Nicolò di Castelbarco, che avrei vinto due volte negli anni successivi. Quell’anno però un buon risultato nella categoria unica era improponibile. Sono stato eliminato ai quarti: non male comunque, a 9 anni.
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, Italiam, fato profugus, Laviniaque venit litora
L’anno dopo, a Roma, la prospettiva era ben diversa: era stata istituita la categoria “Maschietti”: avevo 10 anni e avrei tirato solo con coetanei. Era la prima volta che arrivavo nella Capitale. Ricordo lo stupore alla vista del Colosseo, dei fori, ma anche la prima carbonara: è incredibile come allora al nord non la si conoscesse. All’ingresso nel palazzetto Flaminio, fin dalle prime chiacchiere con altri ragazzini, avevo individuato chi quel giorno, ma poi per anni, sarebbe stato il mio principale, quasi “tradizionale” avversario: Carlo “Carlino” Montano. Eravamo “figli d’arte”, entrambi molto ben impostati, con una scherma più matura della nostra età. Ricordo che nelle eliminatorie avevo incontrato un avversario impostato sulla controdiquarta, schema che conoscevo bene perché era anche il mio, e in attacco avevo tirato più volte la giusta contraria. Dirigeva Paolo Pignotti, e al saluto finale , un po’ scettico, mi chiese: “ ma tu, sai cosa hai fatto?” “Certo”, risposi: “battuta di quarta e controcavazione al petto”. Paolo segnò la stoccata vincente sul tabellone, con un misto di stupore e apprezzamento: a 10 anni non era usuale tirare così. Carlino procedeva nelle eliminatorie imbattuto come me. Aveva una bella scherma, completa in attacco e in difesa, ma sopratutto un tempo vincente, probabilmente derivato dalla sciabola imperante nel Circolo Fides di Livorno, dove si diceva che si tirasse di “scherma, fioretto e spada”: a Livorno la “vera” scherma era la sciabola. Sulla preparazione dell’avversario tirava con grande decisione un colpo di arresto : la velocità e la perfetta scelta di tempo facevano sì che l’avversario inesperto (eravamo ragazzini) non osasse continuare l’attacco, che la convenzione avrebbe privilegiato, e si beccasse così la stoccata. Anche i capitani di squadra, durante le eliminatorie, partecipavano al nostro assalto “virtuale”. Mi fu riferito che Tullio Montano disse a Carlino “devi solo battere Bernkopf, e hai vinto”. Mio papà mi portò in una pedana un po’ defilata , e mi fece ripetere molte volte l’azione di cotrotempo, in quarta e in seconda. In finale, nell’assalto diretto, fu la stoccata decisiva.
La foto mostra il perfetto affondo di Carlino e la mia guardia anomala, perché derivata da una finta di attacco per provocare il colpo in tempo, con recupero in parata di seconda.
Finì 4 a 1. Nella foto premia lo “storico” Presidente Renzo Nostini.
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1963 Zocca: il bacio
Vincendo il campionato italiano Maschietti, tra i premi c’era la partecipazione gratuita ad un turno al Centro estivo che la Federazione Italiana Scherma aveva istituito a Zocca, sull’ appennino emiliano. Ero un “veterano” perché avevo partecipato a 9 anni alla prima edizione del Centro Federale, quando ancora era a Pievepelago, collegato con quello della Federazione Tennis.
Il vecchio distintivo della Federazione Italiana scherma
Ci sono andato con grande piacere, e anche lì mi sono fatto degli amici, ma la grande novità era la presenza delle ragazze. Era una dimensione per me sconosciuta, ma che stava affiorando. Mi piaceva sapere che mi consideravano carino: anche il fatto di essere un forte schermitore, nell’ambiente qualcosa contava, ma ero troppo imbranato per approfittarne.
A Zocca fece però irruzione, come un uragano, una sorella maggiore che accompagnava dall’esterno una piccola schermitrice: era bellissima, come possono essere bellissime le donne nelle cui vene scorre mezzo sangue straniero, arabo nel caso. Era molto più grande, e le ronzavano attorno tutti gli istruttori: le facevano una corte assidua, ma disperata e senza fortuna, mentre per me dimostrava un affetto di tipo materno: Edi qua, Edi là, grandi abbracci, smak, smak, il che suscitava comunque l’invidia nera dei più grandi. Io non ci capivo gran che, anche se la cosa in fondo probabilmente mi piaceva.
Si arrivò all’ultimo giorno: ripartivo per Vicenza. Ebbene, senza che potessi aspettarmelo, mi stampò un bacio sulla bocca: un lungo bacio.
La bocca mi baciò tutto tremante.
Io non capivo bene cosa stesse succedendo: avevo percepito una vibrazione dai capelli (all’epoca ne avevo molti) alle unghie dei piedi. Ero indeciso se quella strana cosa era bella o brutta, buona o cattiva. Quando allontanò le labbra, illuminandosi di uno splendido sorriso, ero completamente scioccato, imbambolato e con gli occhi sbarrati. Per tutto il viaggio di ritorno non feci che pensare all’emozione provata.
Di certo con quel gesto affettuoso mi aveva aperto un mondo, e i successivi assalti mi avrebbero trovato più pronto in difesa e in attacco, a volte in gran forma.
Tempo dopo una ragazzina sfacciata, con cui ero appena passato dal saluto ai primi traccheggi di studio, mi tirò all’improvviso una stoccata micidiale. Mi chiese: “sai baciare alla francese?” Alcune donne, fin da piccole, sanno cogliere il punto debole dell’orgoglio maschile, e anche senza far sangue ci piantano una spada. Imbarazzato risposi di no, ma che mi poteva insegnare. Lo fece, e l’equivoco si chiarì subito. “perché lo chiami alla francese? ”. “Perché lo hanno inventato i francesi”, rispose. Fu per me una grande delusione: quel modo di baciare ero convinto di averlo inventato io!
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1964-65 Gran Premio Giovanissimi
Nel ’64 entravo nel primo anno della categoria “Giovanissimi”, in cui si restava due anni: tiravo quindi anche con ragazzi di un anno più grandi, il che, a quell’età fa la differenza. Il campionato si svolse nella sede storica e gloriosa del Club Scherma Roma: chi c’è stato, chi ha tirato in quelle sale e su quelle pedane , romano e non, le ricorda con nostalgia. Finii quinto, Carlino sesto: vinse Massimo Guercia “D’Artagnan”.
Secondo fu Sebastiano Manzoni “Bastianazzo”: ricordo l’eleganza della sua famiglia siciliana e la signorilità di suo padre, Maestro del Circolo di Acireale, sempre gentilissimo con me , come del resto accadeva con molti maestri di quella generazione, che forse a tratti riconoscevano nella mia impostazione classica-italiana la propria bella scherma, quella che amavamo entrambi: dai paesi dell’Est stava facendo irruzione nel mondo schermistico una scherma nuova , estrosa, fluettante, a tratti funambolica: efficace, ma non bella.
L’anno successivo la musica cambiava, perché i più forti dei finalisti erano tutti passati alla categoria superiore. Mi aspettavo la rivincita con Carlino Montano, che invece non era in gran forma: forse sentiva anche la pressione dei troppi campioni vecchi e nuovi del Fides Livorno, che si aspettavano da lui i risultati che di certo meritava di conseguire: purtroppo non era il suo momento.
Nella foto dell’articolo sulla rivista “Scherma” Donatella Guercia, scomparsa tragicamente.
Vinsi così il mio secondo titolo nazionale. Fra i finalisti spuntarono due nomi nuovi, destinati ad un futuro significativo: Marcello “Cito” Bertinetti, terzo, e John (Edward Henry) Pezza, quinto dopo Carlino. Dev’essere andato tutto molto liscio, perché non ho ricordi particolari. Nella foto la premiazione: mi fa sorridere vedermi alto come Cito, ma solo grazie al gradino del podio. Come per il naso di Cleopatra, se avessi avuto le gambe più lunghe…..
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1966: Campionato Nazionale Allievi.
Era il primo anno nella categoria Allievi, abbinata al Trofeo Nicolò di Castelbarco Pindemonte
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge …..
Pur venendo dalla vittoria nei Giovanissimi dell’anno prima, che mi valeva il ruolo di testa di serie numero uno, la speranza di vincere al primo anno di ingresso nella categoria Allievi mi sembrava assai flebile. Tuttavia, il mio grande Maestro Stefano Cherubini (nella foto), dopo l’ultima lezione prima della partenza, mi aveva fatto la solita raccomandazione fiduciosa: “fa’ la tua scherma, e vedrai che vinci”. Aveva aggiunto una sua pazzia: aveva scommesso una cena, “annaffiata da vino francese”, con due Colleghi veneziani come lui, i maestri Zamicheli e Galante, che avrei vinto io. Gli avevo detto che era stata una pazzia, ma lui aveva confermato fiducioso: “vedrai che vinci tu”.
L’avventura era gravata anche dal passaggio al fioretto elettrico: fino ai Giovanissimi si tirava ancora con quello normale. Il Maestro mi aveva insegnato ad elettrificare e assemblare i fioretti elettrici (era anche insegnante di elettrotecnica al Nautico di Venezia) e mi aveva preso una vera passione, quasi religiosa, per questa operazione. Andavo personalmente all’inizio di ogni stagione con papà nella fabbrica di Franco Scaroni, a Lumezzane Pieve in provincia di Brescia: invece che squallidi tondini per edilizia, era fra le pochissime fucine in Europa a produrre lame da scherma. Le sceglievo una per una, attento agli spessori del segmento verso la punta: quanto più era sottile, meglio assicurava poi al fioretto particolari equilibrio, leggerezza e precisione nel maneggiarlo. Il regolamento prevedeva una lunghezza massima della lama di 90 centimetri, 88 più 2 di punta, ma io preferivo lame da 86+2: due centimetri in meno di lunghezza erano compensati da un maggiore equilibrio. Limavo a mano il ricasso a 42 millimetri, non a 40 come quelli commerciali: forse per questo non ho mai sofferto di “dito a scatto”, come invece lamentavano molti amici che si ostinavano come me a tirare con l’impugnatura italiana, ormai considerata arcaica. Rispetto alla posizione orizzontale, gli archetti venivano imborchiati sulla coccia lievemente angolati, e nell’assemblaggio anche la lama veniva fissata dal pomello ruotandola “di terza in quarta”, il che consentiva al pugno di stare in una posizione intermedia fra quella verticale prevista dalla guardia anatomica e quella orizzontale della francese (“comme pour une assiette”, come per reggere un piatto, dicevano gli amici di oltr’alpe si doveva impugnare il loro fioretto). Infine il manico, che mi piaceva verniciare vezzosamente di bianco o di nero, era lievemente flesso verso l’interno, per consentire una qualche angolazione del polso nelle fasi d’assalto a distanza ravvicinata.
Della gara non ricordo molto, se non che fu molto faticosa: ai quarti e elle semifinali erano previsti interminabili gironi a 8. La finale, anch’essa a 8, non cominciò prima delle 21 e si protrasse oltre la mezzanotte, perché si arrivò ad uno spareggio a 3: Massimo Guercia (“D’Artagnan”), Mimmo Sperlinga ed io. Con Mimmo non ci fu storia: vinsi facilmente. L’assalto cruciale fu con Massimo, che allora era molto forte: con ottimo tempo, lanciava una efficacissima zampata in fleche, accompagnata dal suo caratteristico grido gutturale. Dell’assalto ricordo soprattutto una stoccata “rubata”. Dirigeva Delfino, il fratello del campione, molto attivo nel Gruppo Sportivo Arbitrale: proveniva però dalla Spada. Ad una mia parata e risposta vincente, Massimo aveva opposto una disperata rimessa in bersaglio non valido, spezzando il fioretto. Non so se è ancora così, ma allora nella Spada una lama spezzata sospendeva il giudizio, anche in presenza di stoccata valida dell’avversario. L’arbitro, prese una grave cappella, da spadista: l’apparecchio segnava la mia luce verde e quella bianca dell’avversario, ma la convenzione vigente nel Fioretto dava inequivocabilmente ragione alla mia parata e risposta sulla sua rimessa. La stoccata mi fu invece annullata: poteva essere decisiva, perchè arrivammo al 4 pari. A 14 anni ero troppo inesperto di queste cose per fare opposizione tecnica, il che avrebbe di certo ribaltato a mio favore il giudizio, gravato da un errore marchiano. Anche papà era inesperto di regolamenti, e si limitò a protestare verbalmente, con l’unico risultato di essere scortesemente allontanato da bordo pedana. Mi ricordai invece delle sagge parole che soleva dire il mio Maestro, quando ci si lamentava degli arbitraggi ostili, specie nei confronti di noi “provinciali”. Mi diceva: devi mettere 7 stoccate invece di 5 e pararle tutte: vincerai lo stesso”.
Tornato in guardia, alla fine trovai la stoccata vincente, e fu così il terzo Campionato Nazionale che portavo a casa. Nella foto , oltre ai protagonisti dello spareggio, due figli d’arte: Sebastiano Manzoni di Acireale e Marcello “Cito” Bertinetti di Vercelli.
Ebbi anche una soddisfazione aggiuntiva: oltre al premio per il più giovane finalista, un maestro internazionale ospite della Federazione, cui era demandata l’assegnazione del premio per il miglior stile schermistico, contro il parere di quanti giudicavano sconveniente assegnare due premi allo stesso schermitore, volle assegnarmi anche quello: era del tutto inusuale assegnarlo al vincitore.
Uscimmo dal Palazzetto dell’EUR che era notte fonda, ma allora a Roma si mangiava anche tardi, e una Hostaria aperta la trovammo. Il titolare stava chiudendo, ma alla vista dell’enorme trofeo, fece uno strappo e tornò gentilmente ai fornelli. Ricordo il brindisi collettivo, con lo spumante versato nell’enorme Trofeo Castelbarco Pindemonte. Ero astemio, allora, ma pensavo divertito alla bevuta di vino francese che avrebbe rallegrato la cena del mio Maestro, a spese dei due colleghi malfidenti! “Te l’avevo detto che avresti vinto tu: io lo sapevo” mi disse al rientro, stringendomi la mano.
L’articolo sulla rivista “Scherma”, organo della Federazione.
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1967 Secondo Campionato Allievi.
Fu il campionato che vinsi con più facilità. Carlo Montano non era in forma: gli anni della categoria Allievi non gli sono stati favorevoli, forse per crisi adolescenziale. Marcello “Cito” Bertinetti si giocava con il terzo posto le ultime ambizioni nel fioretto, prima di passare alla spada come da tradizione famigliare.
Andò tutto talmente liscio che non ho ricordi particolari
Premia sempre il Presidentissimo Renzo Nostini
Ricordo solo una sensazione che provai alla fine, quando fra gli ultimi saluti , le congratulazioni e le strette di mano mi guardai attorno , e vidi che nel palazzetto dell’EUR , pregevole opera di Pier Luigi Nervi (ma anche del disprezzato Marcello Piacentini), si stavano via via spegnendo le luci. Si spegnevano anche su una stagione che si era conclusa nel migliore dei modi, ma quella penombra che cresceva mi suscitò un pensiero che in seguito divenne ricorrente: le luci di un successo durano poco, e subito si ripiomba nel buio, tutto ricomincia da capo. Chi ha vinto deve confermare di essere il campione dell’anno prima, perchè chi ha perso si batterà per la rivincita. Era un periodo in cui salivo in pedana da ”forte”, ma l’immagine e l’orgoglio che ci si porta dietro non deve far pensare che si vincerà sempre facilmente: L’avversario più debole ce la metterà tutta per rovesciare il pronostico e aggiudicarsi una vittoria prestigiosa, da raccontare a tutti. Potrà battersi con la tranquillità di chi, partendo sfavorito, non ha nulla da perdere, e potrà sempre contare anche su qualche stoccata fortunata.
Audaces fortuna iuvat, timidos repellit.
In tempi successivi mi sono trovato anch’io in questa situazione psicologica, e ho sempre trovato la cosa entusiasmante: “sei campione del mondo?” dicevo con lo sguardo nel porgere il saluto ad un avversario di rango. “bene, me ne frego: se non mi toccherai 5 volte non ti servirà”.
Nulla ti varrà lo scettro e l’infula del dio.
E se invece sarò io a imbroccare 5 stoccate, magari con un po’di fortuna, a casa ci andrai tu.
Fortuna timidos repellit, ma la dea bendata repelle soprattutto i presuntuosi: sottovalutare e snobbare un avversario che si ritiene più debole può essere molto pericoloso: vale anche per la vita, di cui la scherma è maestra.
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La “Passata sotto”
Ho ripescato questa vecchia foto, che mi è molto cara: all’epoca, prima dei cellulari, non era facile avere un’istantanea significativa di una fase di assalto.
La foto mostra quella che chiamavo la “passata sotto”, fra le poche stoccate di attacco che mi piaceva tirare: non attaccavo quasi mai, sempre affascinato dalla difesa.
Prevedeva di rubare la misura con 2, anche 3 passi avanti, e di tirare la stoccata al fianco, dal basso verso l’alto con forte angolazione.
Sí detto, alta vibrò, scagliò la lunghissima lancia. Né fallì il colpo
Se l’avversario non riusciva a recuperare la misura, risultava pressoché imparabile, perché poteva prevedere solo una parata di seconda, già in sé poco impiegata, e anche molto allargata per la forte angolazione che imprimevo al mio polso. Quasi sempre, l’avversario, disperando della difesa, all’ultimo tempo tentava un colpo di arresto, inutile, perchè penalizzato dalla convenzione vigente nel fioretto. Se la “passata sotto” falliva, la controparata era impossibile, ed era invece previsto il recupero della gamba sinistra con la chiusura della misura, e la ricerca dell’”alt” arbitrale. Di stoccate così in carriera ne avrò tirate qualche centinaio. Si noti il fioretto con l’impugnatura italiana, da tutti abbandonata: invece, conservatore in tutto, le ero rimasto affezionato. Elettrificavo e montavo personalmente le mie armi, in una piccola officina che avevo ricavato nella cantina di casa, con il vezzo di dipingere il manico di bianco.
La gara cui la foto si riferisce è Campionato Nazionale studentesco, che vinsi nel ’67 a Piacenza, per spareggio con Massimo Guercia. Fu una bella giornata vicentina, perché io vinsi gli “Allievi”, Sandro Burul i “Giovani”. Bei tempi, bei ricordi.
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1969, NAPOLI, Gran Premio Giovani ’69- Categoria Giovanetti
Nel 68 al primo anno nella categoria Giovanetti, niente podio: finii quarto. Vinse massimo Guercia (D’Artagnan”), rifacendosi così della sconfitta di due anni prima, davanti a Sebastiano Manzoni e a Paolo Di Loreto
“E dove il natio suolo, e le paterne case il destin non gli negasse, almeno vi giunga tardi, e a stento, e in nave altrui, Perduti in pria tutti i compagni…”
L’anno dopo a Napoli, Gran Premio Giovani, mio secondo campionato Giovanetti. Ero arrivato a stento (9 ore di treno) alla splendida Città del Golfo da solo con la mia sacca delle armi: ormai da qualche anno il gruppetto di amici che frequentavano in Circolo della Spada di Vicenza, con il quale eravamo arrivati a conquistare il posto d’onore al Gran Premio Giovanissimi per società, dietro soltanto alla potente corazzata del Club Scherma Roma, si era sfaldato per gli abbandoni. La Scherma non è un gioco, ma uno sport difficile: verso i 14 anni se non si sono conseguiti risultati importanti, o se non c’è una passione fortissima, purtroppo si lascia.
La mia “nave altrui” era costituita dalle squadre più forti, nelle quali mi intruppavo con gioia, e dove nel frattempo, specie con i romani e i livornesi, avevo stretto molte amicizie: potenza della Scherma, alcune perdurano dopo 50 anni! La comune intensa esperienza giovanile ha generato un forte cameratismo, quasi lo spirito di corpo di un’unità militare che si è battuta con onore.
Si sapeva fin dall’inizio che la sfida era sopratutto fra Carlo “Carlino” Montano e me.
“Tosto vedrassi cui darà Giove la palma”.
Fino a quel momento ero sempre riuscito a batterlo, ma stava diventando sempre più forte. Senza farmi notare lo avevo osservato durante le eliminatorie, e mi ero accorto che era diventato ancora più forte che in passato.
Finale, assalto diretto: sembrava che il vincitore avrebbe vinto il campionato. Era inusuale, ma anche prima di scendere in guardia ci stringemmo la mano non armata: io lo feci con la sinistra, Carlino, mancinaccio, con la destra.
“Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!”
Pronti? a voi! Carlino tirava in un modo che non avevo mai visto in precedenza: aveva sempre avuto un fisico potente, specie a confronto con i miei 58 chili con le scarpe, ma quell’anno aveva sfoderato un gioco di gambe eccezionale: faceva un passetto leggero di avvicinamento, e poi partiva con doppio passo e affondo velocissimi, il che impediva di riguadagnare la misura . Se la parata riusciva in extremis, (vedete la bella foto)
Il busto era troppo sbilanciato all’indietro, e la risposta risultava senza forza e senza efficacia, anche perché a Carlino la controparata riusciva più agevole della mia risposta: aveva la scherma del grande Maestro Athos Perone , e nel pugno l’eleganza e la precisione che consentiva la pur ormai arcaica impugnatura italiana: Carlo ed io siamo stati gli ultimi al mondo ad usarla a livello internazionale. Finì 5 a 2 o 5 a 3 : niente da fare, saluto, mano, grazie.
“Il fuggitivo è forte, Ma più forte e più ratto è chi l’insegue”
Gli amici livornesi lo festeggiavano a bordo pedana, mentre io mi rassegnavo all’argento. Sembrava tutto deciso. Poi il colpo di scena: Pizzo, del CUS Catania, discreto schermitore, ma decisamente non paragonabile a Carlino, come a volte succede nel nostro meraviglioso e affascinante sport, inopinatamente lo batte, rimettendomi in gioco: una sconfitta a testa, si va allo spareggio.
Salii in pedana con poca fiducia: mi aveva nettamente battuto pochi minuti prima. Pronti? a voi! 1-0, 2-0: Carlino era una macchina da guerra: non ci capivo niente. 2-1 in qualche modo che non so, ma poi 3-1, 4-1! Gli amici del Circolo Fides Livorno si erano avvicinati alla pedana: con la stoccata successiva, al successivo attacco, o alla sua ripresa dopo la cotroparata a fronte della mia inefficace parata e risposta, sarebbe stato il trionfo.
A quel punto mi si è accesa una luce. C’era solo una possibilità: visto che a fronte del doppio passo-affondo la misura non si riusciva a mantenerla adeguatamente, ci poteva essere solo una soluzione: non indietreggiare. Carlino non se l’aspettava: dopo 9 stoccate, che in due assalti mi aveva tirate e messe a segno quasi allo stesso modo, sul 4 a 1, ad un passo dalla conclusione vittoriosa, un cambiamento drastico e repentino nel mio atteggiamento non era facile da prevedere. Quando lui ripartì con il suo attacco micidiale, anziché all’indietro, feci mezzo passo avanti, cercando in qualche moto il suo ferro raccogliendo in controdiquarta. Ne risultava una parata sottomisura , che lasciava scoperto il suo fianco di mancino: potevo piegare il gomito retraendo la punta del mio fioretto, e colpire al fianco. Lo feci lanciando finalmente il mio grido di guerra, quasi con violenza liberatrice: la lama del mio fioretto si piegò fin quasi a spezzarsi. Avevo trovato il punto debole.
“Sol, dove il collo all’omero s’innesta, nuda una parte della gola appare, mortalissima parte. A questa Achille L’asta diresse con furor”
Per Carlino, sbilanciato in avanti, non era facile difendersi in seconda. 4-2, 4-3. 4-pari! (si andava al 5). Gli amici del Fides Livorno si erano zittiti, e il presidente li aveva fatti allontanare da bordo pedana: sarebbe stata la stoccata decisiva, finale.
Pronti, a voi! Ricordo il silenzio assoluto nel quale era piombato il palazzetto, che per tutta a giornata era stato un concerto di rumori, chiacchiere, rimbombo di pedane, grida: ricordo che alcuni avversari li riconoscevi da lontano, pur nel frastuono, dal loro personale modo di gridare lanciando il colpo. Si sentiva solo lo strisciare sulla pedana dei nostri passi di studio, e il rumore leggero del traccheggio con le lame dei fioretti: Carlino non aveva più tanta voglia di attaccare, ma io ne avevo ancora meno, anche perché non attaccavo quasi mai: sono sempre stato affascinato dalla Difesa. Passò così un buon minuto. Ad un certo punto Carlino fece il suo passettino prodromico all’attacco, avvicinandosi forse un po’ più del solito, e non so come (non posso dire che fu pensata) tirai d’istinto la stoccata di cui fui il primo a stupirmi: botta dritta. Carlino non si mosse: forse in quell’attimo, vedendo avvicinarsi la punta del mio fioretto si chiese: “dove vuol tirare Edi?” Era inimmaginabile che ad un avversario del suo valore io pensassi di tirare direttamente al petto una “botta dritta”: la stoccata più semplice, ma anche la più filosofica, l’Alfa e L’Omega della scherma, la prima stoccata che il maestro ti insegna da ragazzino quando ti mette in mano un fioretto, ma che può anche essere la sintesi di tutto quello che hai imparato, esercitato, tirato, sudato, nell’esperienza di anni in pedana impugnando un fioretto.
Anche la lezione con il mio grande Maestro Stefano Cherubini si concludeva di regola con il suo comando “Colpo dritto”: la mia esecuzione, per non dover essere ripetuta, doveva risultare veloce e perfetta, prima di “Saluto” e “Grazie”.
Sono nato nelle più profonde tenebre dell’ignoranza, ma il mio Maestro mi ha aperto gli occhi con la torcia della conoscenza: offro a lui il mio rispettoso omaggio
BHAGAVAD GĪTĀ |
La stoccata vincente su Carlino fu proprio una botta dritta! Non gridai nemmeno, come pure ero solito fare lanciando il colpo: si trattava di qualcosa di simile ad un tiro-cross, che può andare a rete o costituire un assist. La mia stoccata poteva andare a segno, ma anche prevedere una seconda intenzione: nel tirarla, stavo a vedere cosa succedeva, cosa faceva Carlino, che però, colto mentre stava iniziando a lanciare il suo attacco, non si mosse, anzi, ritardando la difesa, avanzò ancora di quel centimetro che, accorciando la misura, gli fu fatale. Luce verde, toccato a sinistra, fine, mano, saluto al pubblico con un bacio al mio fioretto, alla maniera dei Cavalieri Templari che nell’unione fra la lama e l’impugnatura vedevano, onoravano e baciavano la Croce, ma anche perchè all’interno della mia guardia italiana, fra gli archetti e sopra il gavigliano, avevo inciso il nome della ragazzina mio primo giovanile amore: aveva vinto assieme a me . Un anno di impegno e sudore in pedana non era ancora concluso, e mi avrebbe riservato altre soddisfazioni, perché fu un anno magico, ma quella stoccata, anche da sola, avrebbe fatto sì che di tutto lo sforzo profuso fosse comunque valsa ampiamente la pena.
La premiazione: Premia Edoardo Mangiarotti
I finalisti, nell’ordine: Montano, Di Loreto, Paroli, Pizzo, D’arrigo.
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Il bronzo ai mondiali under 20 di Genova ‘69
Sìcelides Musae, paulo maiora canamus! Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae
Il bronzo al Campionato del Mondo Giovani di Genova ’69 è stata una delle mie più belle soddisfazioni, forse anche più grande dell’argento vinto due anni dopo. Mi ero conquistato il posto in squadra vincendo il Campionato Nazionale Giovanetti, e sopratutto con il secondo posto in quello della categoria superiore Giovani. Però, con i miei 16 anni, ero lì per fare quell’esperienza internazionale che mi mancava del tutto: l’obiettivo era passare qualche turno eliminatorio. Lo spettacolo dell’enorme palazzetto della Fiera del Mare tutto imbandierato era imponente, e le forti squadre straniere c’erano tutte. Confessiamolo: il silenzioso pensiero che forse qualcuno degli avversari più forti potesse avere l’influenza era sempre nelle speranze di tutti. L’emozione per la mia prima divisa azzurra era grande, anche se mi spiaceva che un campionato mondiale, il primo per me, si svolgesse in Italia. Il più comico era uno spadista, Ghezzi, che era di Genova , e a tirare ai mondiali ci andava in autobus. Il più triste era mio papà, che fin da bambino mi aveva trasmesso la sua infinita passione per la scherma, perché al primo giorno di gara era impossibilitato ad esserci, e la previsione era che al secondo giorno non sarei arrivato. Tuttavia mi sentivo in gran forma, e avevo il pubblico dalla mia parte, il che, abituato a girare per le gare da vicentino solitario, solo con la mia sacca e le mie armi fra gli squadroni avversari, era una emozione nuova ed elettrizzante: fra gli altri, anche gente della comunità Giuliano-Dalmata, che la tragedia delle Foibe e dell’Esodo aveva fatto insediare a Genova, e sconosciute belle ragazze del pubblico facevano il tifo per me! Infine, una vecchia zia un po’ “strega” mi aveva buttato le carte, concludendo che tutto mi sarebbe andato benissimo: spesso ci azzeccava. Conclusione : terminai imbattuto i gironi eliminatori all’italiana della prima giornata. Telefonai a papà che ero ancora in gara, e mi disse felice che sarebbe partito all’alba (di notte non guidava) per esserci il giorno dopo.
Secondo giorno: erano previsti 3 turni ad eliminazione diretta: si passava con 2 vittorie su 3 assalti alle 5 stoccate. Il primo avversario era francese. Anche se negli anni con alcuni francesi ho stretto amicizia, fra noi e loro c’era sempre una malcelata ostilità sotterranea. Per me si aggiungeva la sfida fra l’impugnatura francese dal lungo manico, e la mia ormai arcaica guardia italiana, alla quale restavo comunque affezionato. Loro giudicavano troppo complicata e ridicola la mia, con ricasso, archetti , gavigliano, io orribile, quasi volgare il loro “manico di scopa”. La “disfida di Barletta” si chiuse con due mie nette vittorie.
Il secondo turno si annunciava cruciale: dovevo affrontare un russo forte ed esperto. Anche il momento storico era ben diverso da quello attuale: oggi sono gli avversari a patire una certa soggezione quando devono battersi con schermitori italiani. Allora, invece, specie il fioretto azzurro era da anni in forte crisi, e in particolare con i fortissimi russi si saliva in pedana con lo stato d’animo con cui il Lanerossi Vicenza scendeva in campo a San Siro. Io però mi sentivo fortissimo: avevo già conseguito un risultato insperato alla vigilia, e nessuno mi avrebbe biasimato se mi fossi fermato al 13° o 15° posto. Questo mi dava la possibilità di tirare in maniera inusuale, rischiando di più, ma cogliendo così risultati insperati. L’avversario sembrava frastornato: non si aspettava quel modo di tirare da parte di un ragazzino, e così mi aggiudicai il primo assalto. Al secondo il vento cambiò: forse i dirigenti russi l’avevano ben strapazzato. Forse avevano minacciato di mandarlo in Siberia o di rinchiuderlo nella Lubianka se perdeva: sui russi dicevamo così per scherzo, ma un certo fondo di verità c’era, perché gli sportivi di oltre cortina avevano nel successo e nell’insuccesso sportivo una forte dipendenza per la propria qualità di vita. Il russo salì in pedana molto determinato, e mise in campo una scherma completamente diversa, difendendosi agevolmente da quel mio modo di tirare un po’ spavaldo, ma che mi aveva fatto vincere il primo assalto. Uno a zero, due a zero, tre a zero: in pochi minuti ero sotto per 4 a zero. A quel punto, anche se i miei dirigenti non mi dissero nulla, sapevo che mi avrebbero consigliato di non sprecare energie per tentare un’improbabile rimonta, ma di mollare quell’assalto per concentrarmi poi sulla “bella”.
Ma non senza onore, ma non senza gloria morremo, ma qualche gran gesto compiendo
Io avevo però realizzato che il mio errore era stato quello di continuare in una condotta aggressiva che, passato il primo stupore, il mio avversario aveva capita. Decisi di ritirarmi nella mia abituale fortezza: la Difesa. Invece il mio avversario, ringalluzzito dal punteggio favorevolissimo, che sembrava preludere ad una facile vittoria, cercò frettolosamente la stoccata vincente su un avversario che riteneva ormai rassegnato, scoprendosi troppo. Quattro a uno, quattro a due, quattro a tre, quattro pari! In tutti gli sport la rimonta di un avversario che sembrava ormai sconfitto genera nervosismo e apprensione in chi sta in testa. Questo mi dava un importante vantaggio. All’ultima stoccata il mio avversario russo, dopo una mia parata rimasta volontariamente senza risposta, rilanciò avventatamente una ripresa di attacco, e cadde ormai esaurito nella mia controdiquarta: questa volta la mia risposta fu decisa, e la lama del mio fioretto si piegò fin quasi a spezzarsi sul suo petto. Il mio grido di guerra non mi fece sentire quelli di gioia degli amici e gli applausi del pubblico, anche perché subentrò una scena commovente: papà attardato nel traffico, era arrivato solo poco prima, e aveva assistito alla mia rimonta. Alla mia stoccata vittoriosa, si era precipitato sul parterre, ma era inciampato nel cavo del rullo, finendo lungo disteso! Si era subito rialzato per abbracciarmi mentre, a braccia alzate, gridavo ancora.
Pochi momenti come questo belli, a quanti l’odio consuma e l’amore, è dato sotto il cielo di vedere.
Ora che papà non c’è più, sono felice di avergli dato certe soddisfazioni nello sport nel quale ha riversato tanta passione, senza arrivare purtroppo a grandi risultati agonistici, ma potendo gioire per quelli di suo figlio.
Giove pietoso, e voi tutti o celesti, deh concedete che un dì questo mio figlio sia splendor della Patria ….. .Deh fate che il vedendo tornar dalla battaglia dell’armi onusto dei nemici vinti dica talun “non fu sì forte il padre”, e il cor materno, nell’udirlo esulti.
La semifinale non ebbe storia: vinsi facilmente su un ungherese rimasto in seguito nell’ombra e senza storia, e mi trovai così in finale.
Mentre attendevo la presentazione dei finalisti con qualche esercizio di riscaldamento, mi rivolsi al numeroso pubblico in tribuna, e ridendo dissi: ”proviamo la claque!”. Risero in molti, e l’applauso scoppiò scrosciante, anche con qualche “forza Edi!”. Il Maestro Pessina, tecnico federale, si sedette vicino a me: mi voleva un po’ di bene perchè tiravo con il fioretto italiano, ormai desueto, che lui però imponeva ancora ai suoi allievi; purtroppo ….non ero del suo Club Scherma Roma , e nemmeno romano. Però, a fronte dell’eliminazione di tutti gli altri italiani, ero rimasto l’unico finalista azzurro in tutte le armi e le specialità del campionato. Mi disse solo “guarda che tu qui non sei un riempitivo”. Non poteva dirmi niente di più, nè farmi scordare le parole che il mio grande Maestro Stefano Cherubini, che non presenziava mai alle gare, mi diceva dopo l’ultima lezione prima di ogni partenza “Fa’ la tua scherma”.
Il Maestro Stefano Cherubini, grande maestro e grande gentiluomo
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La finale vedeva però schermitori di rango: due futuri campioni del mondo: il tedesco Hein (bruttissimo) e il russo Romankov, ma sopratutto i due “mostri” polacchi Koszieiowski e Dobrowski, destinati nel futuro a vincere tutto: tornei, olimpiadi, mondiali, individuali e a squadre. Vinsi tutti gli altri ma con loro non ci fu storia: Bronzo! Era previsto l’inno nazionale dei primi due classificati, ma poiché erano entrambi polacchi, venne suonato anche il nostro, il mio. Mi commuovo ancora al ricordo.
O quid solutis est beatius curis, cum mens onus reponit, ac peregrino labore fessi, venimus larem ad nostrum
Al rientro a Vicenza l’accoglienza di amici, Liceo, autorità, stampa locale fu molto calorosa: addirittura la Domenica Sportiva, dopo le solite cronache calcistiche, mi dedicò un lungo servizio, che oggi darei qualcosa per poter rivedere. Ma sopratutto ricordo quel misto di orgoglio e dolcezza della ragazzina mio primo giovanile amore: aveva partecipato anche lei alla mia avventura mondiale, perché all’interno dell’elsa dei miei fioretti, fra gli archetti e sopra il gavigliano, avevo inciso il suo nome: a lei mandavo un bacio nel saluto prima e dopo ogni assalto, portando non già la lama al viso, ma l’elsa alle labbra. Nessuno poteva sapere il perché del mio strano modo di salutare.
Amor ch’a nullo amato amar perdona
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1970, Londra a luci rosse-Trofeo Nestlè
Trasferta a Londra per il Trofeo Nestlè, con Carlino Montano e John Pezza. L’emozione era forte: era la prima trasferta internazionale, in aeroplano, oltre Manica. Ci accompagnava Stefanini. La Federazione Italiana Scherma non aveva tanti soldi: dormivamo presso una vecchietta molto “inglese”, un po’ inquietante, tipo “Arsenico e vecchi merletti”. Il riscaldamento prevedeva di introdurre monete in una stufa a pagamento. Al primo mattino Stefanini era assiderato, perchè la sera prima non si era trovato in tasca scellini! C’era poco tempo per visitare Londra: il lunedì si tornava a scuola. Si, si, Torre di Londra, Westminster, Ponte delle Torri, ma quello che ci premeva di più visitare era…… Soho! Ne avevo vagamente sentito parlare da amici più grandi, ma pensavo che di certo mi prendessero in giro: dicevano che lì si poteva assistere a spogliarelli INTEGRALI ! Io provenivo dal Veneto, dall’Azione Cattolica: non credevo assolutamente che potesse essere vero. Carlino ci trascinava con impazienza, e fra i tanti scegliemmo il nostro “teatro”. Alla cassa Carlino volle sincerarsi che non fosse una fregatura: in inglese non era molto bravo, ma c’era John: “chiedi se è integrale”. John si vergognava , ma Carlino fu irremovibile: “Chiediglielo!”, e alla fine John chiese “ Is it integral?, complete?” La risposta fu rassicurante: “more than complete, più che integrale!”, e si sciabolò con un gesto significativo dalla testa alle ginocchia.
Entrammo nel “teatro”. La platea, a occhio 6 metri per 6, conteneva forse 7- 8 file di 5 sedie strettissime . Il palcoscenico era altrettanto piccolo , sopraelevato di un metro e subito a ridosso della prima fila di sedie, dove quasi non c’era posto per i piedi. Era pieno, e ci dirigemmo verso il fondo, posti in piedi. Carlino però aveva adocchiato un posto libero IN PRIMA FILA!. Era libera la sedia dopo quella centrale, e Carlino pregò di scalare : chi però aveva conquistato in prima fila il posto centrale non intendeva in alcun modo rinunciarvi: forse era arrivato all’alba per conquistarlo. Carlino si risolse a scavalcare le gambe di tutti, strette fra sedia e palcoscenico, e quando finalmente conquistò il suo posto in prima fila quasi centrale, si voltò indietro verso noi ultimi, sorridendo trionfante.
Si spensero le luci. “And now, gentlemen: Jasmine ! ” disse lo speaker con voce melliflua. Guardando le facce degli spettatori, John notò che il teatro doveva proprio essere pieno di gentiluomini !
Eh sì, fu proprio integrale: non ci potevo credere: che emozione, Jasmine.
“Mai non fu vista cosa più bella”
Ad ogni breve intervallo fra un’artista e l’altra, Carlino si girava verso di noi ultimi, roteando l’avambraccio, come a far segno che “da qui in prima fila, a pochi centimetri, è uno spettacolo eccezionale”. Un’artista gli mise addirittura sulla spalla un piede armato di tacco 12, privilegio della prima fila!
Il programma proseguì , con brevi numeri di pochi minuti, diversi all’inizio, ma tutti uguali nella “conclusione”. Ci fu però un fuori programma esilarante. Ad un certo punto nel buio e nella musichetta dello spettacolino, si percepì del trambusto nella prima fila: era Carlino che si agitava, e dopo alcuni secondi di contorsioni scattò in piedi. La ballerina fece un salto indietro spaventata, e perse il play back.
“Deh cavaliere, non v’accostate!”
A Carlino erano venuti i crampi alle gambe, che, strette fra la sedia e il palcoscenico, per il forte dolore lo avevano costretto ad alzarsi in piedi per distenderle. Gli spettatori non capivano: solo noi che conoscevamo la sua predisposizione a soffrire di crampi dolorosissimi (per questa sua debolezza vinsi un campionato nazionale, che racconterò) avevamo capito: gli altri spettatori, le ballerine e la maschera, invece, non sapevano cosa pensare, e non potevano escludere un tentativo di aggressione da parte di uno spettatore focoso.
Carlino voleva uscire, ma l’abbandono del suo posto gli risultava più difficile della sua conquista mezz’ora prima, per l’impossibilità di piegare le gambe per scavalcare quelle degli altri spettatori. Per di più il gentleman del privilegiato posto centrale non collaborava, e a gesti confermava esplicitamente che non intendeva muoversi, per timore di perderlo. Con fatica alla fine Carlo, con le gambe imbacchettate , camminando goffamente come uno zombie, guadagnò l’uscita e ci ricongiungemmo, fra le nostre risate e i suoi lamenti: “de, ohi ohi, de”.
“e giunto alla fin della tenzono, incerto sul’arcione, tentò di risalir”
Il giorno dopo vinsi il Torneo: forse lo spettacolo mi aveva ben caricato, ma era anche un momento in cui mi sentivo imbattibile. Oh, Londra, che emozioni!
Nella foto, lo squadrone azzurrino: quando il fioretto azzurro ha ricominciato a vincere. Si noti che Carlino ed io usavamo, ultimi al modo, la “romantica” impugnatura italiana. Il mio lungo legaccio nero, sciolto scendeva fino a terra, alla scarpa; sotto il guanto portavo una fasciatura al polso per proteggerlo dallo sfregamento del pomello: all’inizio di ogni stagione vi si formava una dolorosa vescica.
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Il più giovane
Nella mia vita mi sono trovato spesso ad essere “il più giovane” in varie situazioni: il più giovane dirigente, il più giovane presidente, io piùgiovane consigliere, e anche il più giovane finalista in vari campionati e tornei. Con il tempo è accaduto ovviamente sempre meno, e oggi il mio bravissimo Collega Vincenzo Capriotti, nei lavori di carattere scientifico che scriviamo insieme, mi definisce, tristemente per me, ”senior author” del gruppo.
Sic transit gloria mundi!
Essendo io nato il 28 settembre, nei campionati nazionali è accaduto spesso che fossi più giovane degli altri schermitori della mia stessa classe. Per il più giovane finalista, indipendentemente dal piazzamento, la Federazione prevedeva un premio speciale, non particolarmente significativo né ambito, ma che consisteva in una medaglia d’oro. Carlino Montano, caro amico, ma mio fortissimo tradizionale avversario, è nato il 26 settembre: per due giorni era più “vecchio” di me. Ci siamo cavallerescamente scontrati in tante finali,
ma il premio per il più giovane me lo aggiudicavo sempre io. Quando lo speaker ne annunciava la consegna, Carlino si incazzava: “anche ‘sta vorta, de, per du’ giorni!”. Mi faceva ridere, perchè il premio in sè non era nulla, ma oro e simili avevano per lui un valore…..extrasportivo, della serie, come disse una volta in una specie di ironico “coccodrillo” Paolone Miccoli: “caddero cento lire, e morì nella mischia!”.
“Quid non mortalia pectora cogis auri sacra famen”
La più bella fu nel ’69, quando vinsi il campionato Giovanetti su di lui secondo; anche in quella finale ero il più giovane, e presi la “solita” medaglia d’oro. Il giorno dopo facemmo il secondo e il terzo nella categoria superiore Giovani, dove potevamo partecipare in quanto finalisti dei Giovanetti (ci valse la divisa azzurra e la partecipazione ai Mondiali juniores di Genova, che ho già raccontata): ovviamente la medaglia d’oro per il più giovane finalista fu nuovamente mia: “De, ancora, nartra vorta, per du’ giorni !”.
“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia!”
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1971 Il peccato
Passati i 70, devo fare qualche bilancio: sono in trattative, e mi hanno detto che “Paradiso assolutamente NO”. Sto trattando per il Purgatorio, ma pare con poche possibilità. Devo provare ad espiare qualcosa in questa vita, finchè sono in tempo.
Devo confessare un peccato.
Mi piaceva elettrificare e assemblare i miei fioretti, in una piccola officina che avevo ricavato nella cantina di casa, e avevo una cura quasi religiosa in questa operazione, che mi aveva insegnata il mio grande Maestro Stefano Cherubini: era anche insegnante di elettrotecnica al Nautico di Venezia.
Le punte del fioretto elettrico erano state modificate dal nuovo regolamento, che ad un certo punto aveva imposto che fossero piatte e non più zigrinate “a pigna” come nel vecchio modello ideato da Carmimari. Non erano però a spigolo vivo, ma la circonferenza era smussata.
12 1971 Il peccato
Idea, ho pensato: l’appiattisco limandola, e la porto a spigolo vivo, così i colpi di striscio hanno più possibilità di suonare.
L’occasione di provarne l’efficacia fu in un allenamento collegiale, credo a Livorno.
Oggi i materiali sono molto migliorati, ma chi non è più giovane ricorderà i vecchi giubbetti elettrici, che con l’uso, non potendo essere lavati, oltre ad un odore non proprio edificante che però l’abitudine non ci faceva sentire, sul collo e sotto le ascelle assumevano per l’ossidazione un caratteristico colore verdastro, antiestetico, ma per noi normale, anzi, amico. Però , finchè si poteva, non venivano sostituiti perché con l’uso si adattavano ad busto , e ti stavano addosso come quelle giacchette vecchie cui ci si affeziona, e si è sempre restii a dismettere. Eravamo tutti così “variopinti” quando, uscendo dallo spogliatoio, Carlino Montano fece il suo ingresso trionfale nella sala di scherma con uno splendido giubbetto “novo novo”, di uno smagliante color oro. Tutti a fargli complimenti sfottenti, e lui a pavoneggiarsi e a schernirsi: “smettetela, de”.
Salimmo in pedana. Ricordo con nostalgia e con grande piacere gli assalti con Carlino: erano belli, perché eravamo entrambi innamorati della “bella scherma”, grazie alla guardia italiana che, ultimi al mondo, ci ostinavamo ad impugnare, e perché nei nostri gesti e quasi alle nostre spalle sentivamo tutti e due la presenza virtuale dei nostri grandi Maestri: Stefano Cherubini il mio, e Athos Perone il suo, con il quale ho goduto anch’io per lezioni deliziose negli allenamenti federali: li ricordo entrambi con tanto affetto.
I nostri grandi Maestri: Athos Perone e Stefano Cherubini |
Pronti? A voi!
Dopo i primi traccheggi , in una mia decisa controdiquarta e risposta (non attaccavo quasi mai, sempre innamorato della Difesa) la punta del mio fioretto strisciò “mal parée” sul suo petto. Bel colpo, luce verde, toccato.
Non ebbi però il tempo di compiacermi per la bella stoccata, ma anche per l’efficacia della modifica alla punta del mio fioretto, perché il colpo di striscio aveva praticato sul giubbetto “novo novo” di Carlino uno strappo di alcuni centimetri! Non avevo calcolato che, limandola a spigolo vivo, la punta poteva risultare tagliente. Era una scena da Paperissima: tutti ridevano, tranne Carlino che, allargando sconsolatamente le braccia e abbassando la testa e gli occhi, guardava disperato lo strappo sul lamé del suo fiammante giubbetto elettrico “novo novo”. Io ero impallidito, ma grazie alla maschera nessuno si accorse del mio imbarazzo. Approfittando del fatto che tutti erano concentrati su di lui, finsi di provare il mio fioretto e di trovarlo mal funzionante (cosa impossibile, elettrificavo personalmente le mie armi e in carriera non ho mai lamentato un guasto), per cui lo sostituii con finta calma, infilandolo nella sacca e prendendone un altro “regolare”: se si fosse accorto della irregolarità della mia punta, di certo Carlino mi avrebbe fatto un mazzo tanto!
Carlino sconsolato tornò a vestirsi del suo vecchio giubbetto pluriossidato e verdastro, e l’assalto riprese. Tirò incazzatissimo, mentre io ero alquanto contratto e impacciato: vinse facilmente.
Non l’ha mai saputo: non diteglielo. Credo che ormai il reato sia andato in prescrizione. Spero che anche il mio Angelo Custode se ne sia scordato, e la mia azione peccaminosa non mi verrà contestata in Giudizio. Almeno quella.
Per farmi perdonare , pubblico la foto dei festeggiamenti per la bella vittoria di Carlino ai Giochi del Mediterraneo di Izmir (Smirne, Turchia) 1971, battendo il campione olimpionico , il francese Noel. Io bronzo. A sinistra il CT Attilio Fini.
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1970 Campionato Nazionale Giovani- Milano
Le recenti cronache sull’incidente della spadista Gaia Traditi e sul cavalleresco comportamento dell’avversaria Emilia Rossatti , https://www.facebook.com/FederScherma/videos/214392357901771/ che ha rinunciato ad approfittare dell’infortunio dell’avversaria, e a vincere il campionato, mi hanno fatto tornare in mente un episodio simile , ma diverso, che mi ha riguardato.
Siamo a Milano, Campionato Nazionale Giovani, nel 1970 . In finale ci sono 3 fiorettisti del Fides Livorno: Carlino Montano, Carlo Ott e Fabrizio Pierucci. Io solitario vicentino, come sempre. Sulla destra John Pezza e Attilio Calatroni. Era prevedibile il solito duello fra Carlino Montano e me.
Primo assalto intersala: tutti pensano al gioco di squadra dei livornesi per lanciare Carlino, e invece, con gusto spirito sportivo, Carlo non regala niente e lo batte! L’ing. Aldo Montano, capitano del Fides, vecchio campione, ma labronico carattere sanguigno, si incazza, prende cappello e cappotto e se ne va. Assalto diretto: Carlino mi batte nettamente: ormai era diventato più forte di me.
Con una sconfitta a testa, si sarebbe andati allo spareggio, come l’anno prima a Napoli, e temevo che stavolta mi sarebbe andata male. Carlino, però, nell’ultimo incontro deve ancora affrontare John Pezza, meno forte di lui, ma che a volte lo batteva: io spero nella fortuna. L’assalto comincia però con Carlino nettamente in vantaggio: mi restano poche speranze. All’improvviso si sente un “Ohi ohi!” Carlino viene preso da crampi dolorosissimi in tutto il corpo (gli era già successo altre volte, anche a Londra, vedasi il racconto precedente). Gli portano il sale, che oltre che in bocca gli finisce negli occhi, creando un momento di comicità. E’ immobilizzato come una statua. Passati i minuti regolamentari di interruzione per infortunio, deve tornare in pedana, ma non riesce a muoversi: il colpo preferito di John, il coupé con tempo falso che, tirato dall’alto grazie alla sua statura, disorientava la difesa, nell’impossibilità per l’avversario di mantenere la misura in quelle condizioni, diventa imparabile. Carlino va a 2 sconfitte, il che mi regala il campionato. Alla premiazione non ero felicissimo: mi sembrava di aver rubato qualcosa senza combattere. Edoardo Mangiarotti , che mi ha sempre sostenuto, anche in quella occasione mi disse però che i crampi non sono un incidente, ma significano preparazione insufficiente, per cui fanno parte del gioco. Probabilmente è così. La rivincita l’anno prossimo! (Montecatini). Nella foto siamo tutti e 4: premia lo storico Presidente Renzo Nostini.
Non posso non rivolgere un commosso pensiero al caro amico Carlo Ott, terzo sul podio in questa immagine, che pochi giorni fa ci ha lasciati.
A lui devo in fondo questa vittoria. E’ stata un’amicizia nata sulle pedane ma cementata, oltre che dalla scherma, anche dal comune amore per il mare e la montagna. I chilometri che dividono le nostre città non hanno diviso per oltre cinquant’anni le nostre vite, nè allentato la nostra forte amicizia.
Addio, caro Carlo, mi mancherai.
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Il grido di guerra – Bari
Nelle gare a squadre a volte alla presentazione o alla premiazione, si cantava con entusiasmo l’Inno di Mameli.
Qui siamo a Bari in un incontro internazionale. Mauro Pinelli e Titta Coletti vestono la divisa della nazionale militare, io quella della nazionale giovanile: avevo anche quella della prima squadra, ma ero rimasto affezionato alla prima divisa azzurra che avevo ricevuta ai mondiali di Genova. A sinistra Antonio Grande e a destra l’amicissimo Paolo Di Loreto. Frate-e-lli , d’Ita-a-lia…
Però, prima di scendere in pedana negli incontri diretti, ciascuna squadra, un po’ per scaramanzia e autoincoraggiamento, un po’ a titolo di saluto (o di sfottò) degli avversari, lanciava un proprio grido di guerra.
“S’ode a destra uno squillo di tromba; A sinistra risponde uno squillo…… Ecco appare un drappello schierato; Ecco un altro che incontro gli vien”.
I francesi, banali nonostante la pretesa grandeur, gridavano senza convinzione un insignificante hip hip hip urrà!
Noi ne avevamo uno più creativo, un po’…..goliardico, volgarissimo, ma pensavamo che gridandolo senza scandire bene le parole, in parte dialettali, il vero significato semantico non fosse colto da nessuno.
Una volta, invece, in un incontro internazionale a Milano, dopo il saluto delle squadre, mi si avvicinò un’elegante Signora, la gentilissima mamma di Clara e Gianfranco Mochi, e mi chiese perplessa: “ Senti, Bernkopf, sbaglio o a un certo punto dite …….l’…….? Non sapevo cosa rispondere, perché non sbagliava , e anzi aveva capito benissimo. Non dissi nulla, ma il mio imbarazzato silenzio, mentre lei tentennava il capo in segno di rimprovero, dev’essere stato abbastanza eloquente.
Sapendoci svergognati, siamo passati a Branca Branca Branca- leon leon leon – fuit bum!
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Spada: Il colpo al ginocchio
Per portare punti alla mia società, il vecchio Circolo della Spada di Vicenza, ho tirato anche di spada. Era piuttosto “fiorettone”, guardato con sufficienza dagli amici spadisti veri: si sa, il fiorettista crede di poter contare sulla convenzione, su chi ha ragione, mentre nella spada vince chi arriva prima. Mi sono guadagnato la seconda categoria di spada non per automatismo, come accadeva per chi era prima categoria in un’altra arma, ma entrando nei primi 12 nel campionato di Terza. Era un torneo massacrante, con un’affluenza di centinaia di atleti, numeri impensabili fino a pochi anni prima, di poco più bassi dei Non Classificati. I primi turni sono filati lisci, ma a mano a mano che si procedeva il confronto era più duro, con gente che sapeva ben tirare di spada. Credevano però di poter vincere facile, e qui sbagliavano. Di quello che facevo per colmare il gap con uno spadista esperto ricordo una stoccata: il colpo al ginocchio. In sé è un’assurdità, ma avevo escogitato una sequenza originale per tirarlo. Trovando il ferro in quarta mi veniva logico tirare la fianconata di filo, ma l’avversario mi avrebbe fermato con il colpo più tipico nella spada: svincolo e colpo all’avambraccio che arrivava prima della mia risposta. In realtà io accennavo alla fianconata, ma sul suo svincolo e sul colpo, che si accompagnava ad un grido a bassa voce, come quando si vince facile (il colpo gli sembrava banale), non proseguivo , ma raccoglievo nuovamente in controdiquarta. Il mio avversario ne risultava un po’ sorpreso: uno spadista che contropara? Eh già, è fiorettista!. Ma che problema c’è? Quando dalla quarta accennavo nuovamente alla fianconata, lui ovviamente effettuava un nuovo svincolo e colpo diretto all’avambraccio. Il suo grido di stoccata era più alto e più forte, perché stavolta era certo che sarebbe andato a segno. Io, però, ancora non tiravo la fianconata, che sarebbe stata un suicidio, ma raccoglievo nuovamente in cotrodiquarta. L’avversario ne era sconcertato, ma al mio terzo accenno alla fianconata opponeva il terzo svincolo con colpo all’avambraccio. Questa volta il suo grido di stoccata era particolarmente alto e forte, ed io nel raccogliere ancora in controdiquarta sentivo che era l’ultimo, perché non avrebbe avuto altro fiato e ulteriore energia per tirarne un quarto: era il momento di sferrare il mio. Non lo tiravo però al fianco, ma aggiungevo un particolare terribile: trasportavo il ferro come per la fianconata, ma colpivo al ginocchio! Era una scelta un po’ crudele: per uno spadista essere colpito al ginocchio, e per di più da un fiorettista, risultava umiliante come il tunnel per un terzino. A questo si aggiungeva che la stoccata al ginocchio da distanza ravvicinata (ad ogni svincolo la misura si era accorciata) e con la rigida lama della spada, faceva un male cane, il che aveva un ulteriore impatto, fisico, ma anche psicologico. Oltretutto, il grido di stoccata stavolta era il mio, unico, forte e definitivo: “Aoooooo!!”, e lui, colpito, stava zitto, massaggiandosi il ginocchio. L’avversario si rimetteva in guardia molto meno sicuro di sé. Tiravo questa stoccata almeno una volta ad ogni assalto, ma succedeva anche che dopo un po’ di colpi, la ripetessi: la sua inusualità faceva sì che l’avversario non l’avesse capita, e ci ricascava. La seconda volta era ancora più efficace, perché un’altra stoccata su un ginocchio già dolorante risultava micidiale. Saluto, mano: una volta al mio avversario spadista, assieme ai compagni di squadra, anche la sua ragazza gli domandò incredula come aveva potuto perdere con un fiorettista che tirava di “fiorettone”.
“Infandum, regina, iubes renovare dolorem”
16 – La doccia – 1971
La doccia fa parte dello sport, quanto la specifica disciplina che si pratica. Nelle palestre italiane le docce dovevano essere rigorosamente “democristiane”, chiuse e provviste di porta, anche se poi nello spogliatoio non c’erano scrupoli di sorta: poichè il “rompete le righe”, dopo gli allenamenti, era contemporaneo per tutti, alle docce si formavano lunghe code, con esortazioni del tipo “muoviti!” a quelli che erano stati più svelti ad accaparrarsela.
Ricordo il simpatico guardiano-inserviente del Circolo Fides di Livorno, l’ex puglie Mannucchi (“noi, ekse azzurri della bokkse….”, diceva: era stato davvero nella nazionale di pugilato), che aggiustandosi con il dito medio sulla glabella gli occhiali che gli stavano perennemente larghi, nell’asciugare i corridoi delle docce che, nonostante le porte, si allagavano regolarmente, ci apostrofava: “allora, de, l’hai finito ‘sto bagno?”. Nel nord d’Europa, nelle tante palestre che ho frequentato con la squadra azzurra, c’erano grandi stanzoni comuni, con un doccione ogni 2 metri. Ricordo sempre una doccia che ho fatta a Duisburg, dove nel ‘71 vinsi un torneo (il premio nella foto): orientai al centro quattro doccioni, e feci la più bella doccia della mia vita.
Copia romana da un originale di Lisippo, IV secolo a.c.,: l’atleta Apoxiomenos, che si deterge dall’olio e dalla sabbia che nella lotta rendeva più difficile e sfuggente la presa da parte dell’avversario. Nel IV secolo a.c. le docce non c’erano.
Sotto la violenta cascata d’acqua faticavo a respirare, ma era bellissimo: non sarei più uscito. Oggi, in casa, la mia vasca da bagno, oltretutto meno ecologica, è ancora praticamente nuova, perché le abitudini consolidate in gioventù non si cambiano facilmente: quella doccia “teutonica”, però, mi torna in mente ogni volta.
17 – 1971 Campionato mondiale juniores a South Bend (Indiana, USA)
La medaglia d’argento nel Campionato Mondiale a South Bend, (Indiana, USA), organizzato nella famosa Notre Dame University, è stato per me il risultato più prestigioso in carriera, anche se il bronzo di Genova due anni prima lo ricordo come una emozione più intensa: a Genova ero un esordiente di 16 anni che conseguiva un risultato alla vigilia impensabile per tutti e anche per me, mentre a South Bend partivo come uno dei favorititi: purtroppo ho mancato l’oro.
Ricordo soprattutto gli antefatti. Mi ero preparato bene, anche se, come sempre, senza strafare: il mio fisico leggero (58 chili con le scarpe) e la mia scherma imperniata sul controtempo e la seconda intenzione, e in difesa sulla controdiquarta (che a volte comportava addirittura il disarmo dell’avversario, vedasi la foto), che poteva proseguire, se necessario, con la rottura in mezzocerchio, mi consentivano di reggere bene le gare anche senza grandi allenamenti, oltretutto per me impossibili, giacchè al Circolo della Spada di Vicenza ero rimasto praticamente solo, per i progressivi abbandoni degli altri schermitori della mia età.
contro di quarta
Mi sentivo in forma, ed ero convinto di poter vincere, e di rifarmi dalla delusione dell’anno prima: a Minsk, dove partivo favorito, ero uscito nei quarti. Non la racconto perché mi fa tristezza.
Pochi giorni prima della partenza mi beccai però una forte influenza, che mi costrinse a letto. Mi rimisi in piedi giusto in tempo per partire, senza aver toccato l’arma e la pedana.
La trasferta oltre Atlantico era comunque entusiasmante. La squadra era simpaticissima e al completo: oltre ai fiorettisti Carlino Montano e John Pezza, con i quali era avrei condiviso la stanza (che lasciavamo in un disordine sovrumano, disperazione della cameriera, che non sapeva da dove cominciare), ricordo Marco Romano, Tommaso Montano e Sandro Nezzo per la sciabola, Cito Bertinetti e Gianfranco Mochi per la spada, Laura Romeo, della quale eravamo un po’ tutti innamorati, e Donatella Guercia, che purtroppo sarebbe mancata da lì a poco in un grave incidente d’auto.
Tutto entusiasmante: i grattacieli di New York, il trasferimento in elicottero dall’aeroporto JF Kennedy al La Guardia, la monumentalità della Notre Dame University di South Bend (Indiana), l’accoglienza della locale comunità italiana: invito a cena per tutta la squadra nella sede del Circolo italiano “Edmondo De Amicis”.
Stemma dell’università – ND UNI La cupola
Il problema insorse nei brevi allenamenti previsti nei giorni di acclimatamento precedenti la gara: le mie gambe, atrofizzate dai giorni di letto, proprio non andavano. Mi sforzavo, ma le sentivo “scariche”. Tuttavia il primo giorno non fu il peggiore: fu in quello successivo che constatai che mi facevano un male cane, da aver difficoltà a camminare o a scendere una scala: figuriamoci a stare piegato in guardia.
Chi ha tirato di scherma sa che è la regola il mal di gambe alla ripresa da una sosta, come dopo le vacanze estive; ma lì, con la prospettiva di dover tirare il giorno dopo in un campionato mondiale, era disperante. Attilio Fini, nostro CT e capitano, da vecchio campione conosceva molti dei suoi omologhi delle altre squadre, e mi accompagnò presso quella russa, del cui capitano era amico. Gli chiese di potersi avvalere della massaggiatrice che avevano al seguito: il capitano russo gentilmente acconsentì. Fu un’esperienza terribile, perché non si trattò di un dolce massaggio alla Thailandese. La terapista era un donnone che a occhio stazzava 95 chili e aveva due mani di acciaio, con le quali mi torturò a lungo. Le gambe già mi facevano male da sole, ma con il massaggio la matrioska mi fece vedere tutte le stelle, senza alcuna pietà: avevo quasi le lacrime, e quando mi fece capire che era finito fu un grande sollievo. Spasiba! Grazie…. di aver finito! Dasvidania: no, a non vederci mai più!
Il giorno dopo iniziava la gara. Non so se il massaggio mi aveva fatto bene, male o niente: mi sembrava che il dolore alle gambe fosse uguale. Ad ogni assalto scendere in guardia era una tortura, ma poi la concentrazione sull’assalto e la progressiva attivazione della muscolatura prevalevano, e mi facevano dimenticare il dolore.
PER ASPERA AD ASTRA
A parte le gambe mi sentivo bene, e le stoccate mi entravano come delle belle combinazioni al poker. Mi sforzavo di autoconvincermi che altre volte avevo fatto un buon risultato in condizioni sfavorevoli.
Procedevo bene nei vari gironi eliminatori e, specie nel secondo giorno, progressivamente mi era tornata la fiducia che all’inizio non avevo, e sopratutto ero rientrato nello stato d’animo di calma e di totale concentrazione che in tutta la carriera schermistica sempre mi accompagnava nel salire in pedana, ma che nel primo giorno di gara avevo sentito un po’ vacillare.
La foto, purtroppo l’unica che ho di quella gara, credo rappresenti fedelmente il mio stato d’animo all’inizio di ogni assalto, in qualunque occasione agonistica.
Di tutta la spedizione fui l’unico ad entrare in finale. Eravamo quattro favoriti: Il russo Romankov, fortissimo, e destinato ad un grande futuro, il francese Boscherie, il tedesco Bach, ed io. Non ricordo i particolari: vinsi il tedesco e il russo, ma purtroppo persi con Boscherie, nonostante lo avessi battuto in semifinale. Mi dovetti accontentare dell’argento, con la triste sensazione di aver fallito una grande occasione, che era alla mia portata. Il secondo posto non è sempre il bel piazzamento che può sembrare.
Malo hic esse primus quam Romae (nel mondo) secundus!
18 -Ho fatto anche l’arbitro.
Sì, ho fatto anche l’arbitro, ed è stata un’esperienza significativa e divertente, oltre che di grande responsabilità: nel fioretto l’arbitro piò incidere pesantemente sull’esito di un assalto.
Tosto vedrassi cui darà Giove la palma.
Dirigevo solo il fioretto, e per due volte mi hanno affidato la direzione della finale del Fioretto Femminile ai Campionati Nazionali Assoluti (nel maschile di solito ci tiravo!). Come vicentino andavo bene, perchè ero del tutto neutrale nella competizione fra le grandi società.
Nella foto: Guido Malacarne, all’epoca decano degli arbitri italiani, prima di dare inizio all’assalto prova il peso che la punta deve respingere. Adesso non so, ma all’epoca erano regolamentari 500 grammi.
L’esperienza più bella è stata però in campo internazionale, anche perchè arrivò inaspettata.
Fu a Parigi, Coppa Europa a Squadre di club: con i Carabinieri avevamo vinto il Campionato Nazionale, conquistando così la partecipazione agli Europei. Ci cacciarono fuori subito i Russi, futuri finalisti, imbattibili.
La Direzione del torneo chiese a tutte le delegazioni di fornire un arbitro, perché avevano avuto molte defezioni fra quelli ufficiali. Tutti i miei amici si defilarono, ma a me l’esperienza incuriosiva e accettai di rimanere, mentre la squadra se ne andava a fare un giro per Parigi.
Evidentemente nelle eliminatorie mi comportai bene, perché mi confermarono nei vari turni, e inaspettatamente anche per un incontro di semifinale molto impegnativo: Francesi contro Russi, con campioni mondiali e olimpici da entrambe le parti. Di certo gli arbitri più noti ed esperti se ne stupirono, con una certa invidia.
Ero calmissimo, come sempre, come in pedana, e non mi preoccupava l’espressione altezzosa dei francesi ( i nomi non li ricordo), sempre un po’ str…., che probabilmente mi snobbavano perché molto giovane: per un incontro così importante avrebbero preferito un arbitro più esperto.
Tutto procedeva bene: ero concentrato sul ruolo, ma non rinunciavo al piacere di assistere anche ad assalti di grande levatura tecnica. Ad un certo punto su un attacco del fiorettista russo, il francese, parando una quarta eccessivamente larga, toccò a terra fuori dalla pedana isolata. Si accese la luce bianca di colpo non valido assieme a quella rossa-colpo valido della prosecuzione del russo. Al mio alt, entrambi i tiratori si accinsero a rimettersi in guardia: il colpo bianco nel fioretto interrompe il fraseggio schermistico, e tutti si aspettavano un giudizio di “risposta non valida, annulla il resto: in guardia. Pronti?…”. Il mio arbitraggio fu invece un colpo di scena: puisque j’ai bien vu que le coup de réponse a touchè a terre hors de la piste, je n’ai pas à en tenir compte. La suite touche : touchè a droite: un colpo non valido, ma perché si è toccato a terra fuori dalla pedana, non è come aver toccato la gamba o il braccio, cioè un colpo in bersaglio non valido, ma è un colpo NULLO: Il Russo si rialzò dalla guardia e disse “merci” molto stupito: era andata, secondo regolamento, esattamente come avevo giudicato, ma lui non avrebbe mai reclamato il colpo, certo che qualunque arbitro non si sarebbe preso la responsabilità di qualificare il colpo bianco come NULLO, e quindi annullandolo perchè tirato a terra fuori pedana anziché sul corpo dell’avversario in bersaglio non valido. “Oh non, merde!” (in francese la parola di Cambronne non è considerata nemmeno volgare), esclamò il francese, e dopo varie proteste sostenute dai fischi del pubblico, poco sportivo, e sciovinista come tutti i francesi, o forse semplicemente non competente, annunciò opposizione tecnica. Era la mia prima esperienza internazionale, e avere contro la Francia in commissione arbitrale poteva essere preoccupante, ma io ero calmo e certo delle mie ragioni. La commissione si riunì per discutere e poi venne alla pedana, chiedendomi di ripetere il mio giudizio, cosa che feci con calma totale, ripetendo le parole di qui sopra, aggiungendo: “Je veux ajouter que de ce que j’ai vu et de ce que j’ai jugé je suis absolument sûr”. Il mio giudizio fu confermato, e l’assalto riprese regolarmente, con lo scorno dei francesi. Avevo anche notato che il capitano di squadra francese non aveva partecipato gran che alla protesta, e fra un assalto e l’altro poi gli chiesi cosa pensava dell’incidente. Mi rispose che, secondo lui, la protesta non aveva avuto senso: “J’avais bien dit que tu avais raison”. I colpi di scena però non erano finiti. Ad un certo punto un francese tirò un colpo bianco, ma in “sostituzione di bersaglio”: il russo aveva coperto il bersaglio valido con la mano non armata, il che fa risultare non valido un colpo che, senza quella scorrettezza, sarebbe andato a segno. Anche in questa occasione al mio alt i tiratori si rimisero in guardia, come per riprendere il combattimento: giudicare una sostituzione di bersaglio è un’altra di quelle stoccate che un arbitro stenta ad assegnare, trincerandosi prudentemente sulla luce bianca del colpo non valido. “Mais comme j’ai vu clairement que le coup a touché la main non armée, lors qu’elle couvrait la surface valide, je dois attribuer le coup: à gauche touché”. Questa volta le proteste si levarono dalla squadra russa, e l’enorme capitano si avventò verso di me come un orso infuriato che volesse sbranarmi. Incredibilmente, però, colpo di scena: il fiorettista russo alzò il braccio sinistro e disse “c’est vrai”. “E’ vero??” avrà probabilmente detto nella sua lingua l’orso, rivolto incredulo e stupito al suo tiratore. “c’est vrai” confermò quello. L’orso rinfoderò i denti e gli artigli, scusandosi per la protesta inscenata e retrocedendo al suo posto fra gli altri membri della squadra russa, tutto imbarazzato. Io sorrisi, perché la scena, nel silenzio della squadra russa che si era zittita, con l’orso-capitano che riprendeva con la coda fra le gambe il suo posto, era veramente comica.
Alla fine vinsero i russi, ed entrambi i capitani, e anche gli atleti, vennero a stringermi la mano: la direzione di un incontro molto difficile era stata impeccabile, e quelle due stoccate, fortunatamente una per parte, ne erano state l’elegante conferma.
Stavo raccogliendo le mie cose per raggiungere i miei compagni, ma mi vennero a chiamare perché la Direzione del torneo mi convocava. Nell’altra semifinale aveva combattuto e vinto la seconda squadra francese: come nazione ospite, o forse perché campioni dell’edizione precedente, la Francia aveva potuto schierare due squadre. La battaglia fra Russi e Francesi si sarebbe riproposta in finale. Il Direttore del torneo disse che era a conoscenza del fatto che il mio brevetto arbitrale internazionale arrivava fino alla semifinale, e che quindi non ero abilitato a dirigere una finale, ma entrambe le squadre che si sarebbero contese il titolo europeo avevano richiesto la mia direzione. Per il sereno andamento del difficile incontro, se io avessi accettato, si sarebbe assunto questa responsabilità. Indovinate?: ovviamente ho accettato. Così ebbi la soddisfazione di dirigere la finale di uno dei più importanti tornei internazionali.
Francamente non ricordo chi vinse: ero concentrato su ogni singola stoccata. La mia direzione non suscitò protesta alcuna, mentre l’altro arbitro con cui mi alternavo ne ricevette molte.
Era proprio finita. Raccolsi le mie cose e raggiunsi ancora in tuta la squadra al ristorante, perché non avevo avuto nemmeno il tempo di passare dall’albergo per cambiarmi.
Le emozioni, però, non erano finite. A cena, ad un tavolo poco più in là, c’era una donna stupenda. Non era giovanissima, ma aveva l’eleganza, lo charme che hanno nella maturità le donne di gran classe, e…. pur continuando a chiacchierare con i suoi commensali, continuava a guardarmi. Non sapevo se essere imbarazzato o lusingato, specie dopo che un amico mi confermò: “aò, quella è da mò che te sta a guardà”. Fu la ristoratrice, in italiano che conoosceva, a chiarire: “ l’avete riconosciuta? Antonella, Antonella Lualdi: quando viene a Parigi è nostra cliente abituale”.
Era a Parigi per girare un telefilm per la RAI, credo tratto da un romanzo di Stendhal. Purtroppo non ero io ad incuriosirla, ma la scritta “Carabinieri” sul petto della mia tuta rossa e blu, che ancora indossavo non avendo avuto il tempo di cambiarmi. Per tutta la sua cena si sarà domandata semplicemente cosa ci facesse un giovane carabiniere in un ristorante di Parigi! Peccato mi abbia visto in tuta: in uniforme avrei fatto miglior figura!
Quando percepii nuovamente i suoi occhi su di me, sorridendo alzai in sua direzione il mio calice. Al gesto, da grande signora, rispose a sua volta con un cenno elegante del capo, accompagnato dal suo sorriso: meravigliosa.
Viva il vino spumeggiante / Nel bicchiere scintillante / Come il riso dell’amante / Mite infonde il giubilo
Viva il vino ch’è sincero / Che ci allieta ogni pensiero / E che annega l’umor nero / Nell’ebbrezza tenera