…grazie maestro
Indice
Janos Kevey
Giuseppe Micalizzi
Dario Mangiarotti
Maestro Janos Kevey
Ero un fiorettista arrivato da Catania al C.A.S. Milano e, dopo circa un anno, invece di passare alla spada come la latitudine imponeva soprattutto negli anni ’60 mi ritrovo a fare sciabola; misteri della scherma!
Da un giorno all’altro cambia la mia vita in sala: entro a far parte di un piccolo gruppo di cinque sciabolatori, ma proprio per questo molto coeso – non ho ancora una sciabola personale e quindi me la devo far prestare ogni volta – il braccio non armato non lo devo più arcuare, ma devo inforcare con la sua mano il mio fianco dietro – niente più passanti e giubbetti, solo lama nuda. Ma il cambiamento più radicale è nelle lezioni del mio nuovo maestro Janos Kevey; è ungherese e si capisce benissimo dal suo modo di parlare, soprattutto dal fatto che i verbi li usa solo al modo infinito. E’ sempre allegro e riesce a trasmetterci questo stato d’animo; per di più le sue lezioni non sono quelle tradizionali cioè individuali, ma collettive: tutti in fila indiana, ogni azione finisce irrimediabilmente in frecciata e via, avanti il prossimo.
Ha un fisico robusto ed è molto alto, ci sovrasta tutti, ma non ci dà alcuna soggezione: quando vede un nostro errore ci rimprovera a modo suo, cioè coniando aggettivi e parole strane, celeberrimo a questo proposito è No macellaio, con cui ci richiamava alla leggerezza del ferro. Quando si toglie la maschera ci colpisce la sua capigliatura bianca candida come neve ed i suoi piccoli occhi estremamente vivi, che ci trasmettono energia positiva. Vi assicuro che era l’unico maestro del quale mi dispiacesse che finisse la lezione. Aveva una filosofia sulla tecnica che col tempo si è dimostrata un’anteprima della scherma contemporanea; diceva: Voi italiani toccare dopo una, due finte, cavazione e circolata; invece Ungaria (suonava così) toccare con fffff e simulava una sciabolata diretta alla testa. In effetti curava meticolosamente di sviluppare al massimo la nostra velocità di braccio armato e soprattutto di gambe, ovviamente ognuno secondo le proprie caratteristiche.
Dimenticavo la cosa più importante: solo anni dopo che avevo lasciato Milano ho saputo che in gioventù era stato campione olimpico; in sala nessuno ne parlava, lui per primo. Capii allora perché, di ritorno da un campionato italiano che avevo vinto, mi disse di non comportarmi da galletto (si espresse proprio così) e mi dette una sciabolatina frizzante sulle gambe. E’ stato un giorno importante nella mia vita, perché in tutta la storia della filosofia che poi avrei fatto al liceo non avrei mai trovato una lezione di etica così “toccante”.
Stefano Gardenti
Maestro Dario Mangiarotti
Quando si pronuncia il cognome Mangiarotti siamo nella storia della scherma, in primis in quella della specialità della spada. In effetti fu il caposcuola Giuseppe, assieme al collega Luigi Colombetti, ad importare in Italia, agli inizi del secolo scorso, l’arma triangolare sportiva dalla vicina Francia.
Io ho avuto la fortuna, da giovane, di essere premiato in un paio di occasioni dall’ormai anziano maestro; ma ho avuto ancor più fortuna di conoscere i suoi tre figli, tutti campioni: il plurimedagliato Edoardo, Mario e Dario, di cui sono stato allievo sia in sala che in Nazionale.
Non troppo alto, abbastanza cordiale per l’epoca, era in possesso di un braccio armato dalla straordinaria meccanica; d’altra parte il fatto di dover competere con avversari meglio dotati fisicamente lo costringeva ad utilizzare al meglio la fisica della sua lama e l’agilità del suo corpo, sino, credetemi, ai limiti del funambolismo.
Un’altra mia fortuna è stata quella che Dario mi ha insegnato questa tipologia di approccio all’antagonista, con il risultato, torno a dire per necessità, di fare spesso scherma – spettacolo, o almeno di tentare di farla.
La sua lezione era abbastanza lunga e più di una volta mi mandava negli spogliatoi a mettere il braccio armato sotto l’acqua fredda per rilassare i muscoli. Spesso impartiva la lezione a giro, ovvero, defilandosi sulla pedana, ci faceva disporre in fila indiana e, ad uno ad uno andando velocemente in avanti e all’indietro, ci faceva eseguire azioni non troppo complesse culminanti con una frecciata indirizzata sulla sua mano sinistra, posta ovviamente sulla nostra linea direttrice; era una specie di rumorosa giostra e noi tutti ci impegnavamo al massimo per ottenere il suo miglior giudizio.
I tre fratelli Mangiarotti non sono ormai più tra di noi, ma sono sicuro che, come dice l’Alighieri, la loro fama nel mondo dura e durerà finché il mondo lontana.
Stefano Gardenti
Maestro Giuseppe Micalizzi
E come si fa a dimenticare il primo maestro! Con lui ho fatto come la paperetta ha fatto con Conrad Lorenz; per me la scherma è lui: imprinting vero e proprio!
Quando lo vidi la prima volta e forse anche la seconda la mia attenzione fu totalmente rapita, oltre da ciò che dovevo fare, dalla sua tenuta: arma in mano, fioretto mi disse anche se io avevo solo sentito parlare di spade e sciabole, giacca bianca trapuntata che seppi dopo essere la parte superiore della divisa da scherma, maschera di metallo, mai vista sino ad allora, infilata letteralmente sulla testa; sotto portava normali pantaloni e scarpe civili. Quindi la prima cosa che ricordo di lui è la sua voce: usciva da sotto la maschera ed era decisa, dava ordini precisi ed essenziali, senza possibilità di se o di ma; aveva una leggera inflessione siciliana, ma d’altra parte eravamo nella Trinacria e, se non ci fosse stata la battaglia di Benevento, la lingua italiana sarebbe stata forgiata sul siciliano di Federico II.
Poi un giorno, dopo una faticosissima lezione, si tolse la maschera e riuscii a osservarlo da vicino nel breve lasso di tempo del saluto con l’arma e della successiva stretta di mano: alto un po’ più di me (io ero già molto alto per la mia età) e di corporatura brevilinea, aveva una folta capigliatura alquanto mossa, un viso scavato con zigomi pronunciati, ma soprattutto due occhi piccoli, che mi è caro ricordare magnetici e soprattutto volitivi. Mi sembrava di intravederli anche da sotto la maschera e so solo una cosa: sono diventato schermitore, oltre che per i movimenti della sua arma, anche per la tonalità della sua voce e grazie a quegli occhi così pieni di energia. Dopo che mio padre aveva portato la famiglia lontano al nord non l’ho più incontrato durante la mia carriera agonistica e, molto colpevolmente, non mi sono più fatto sentire da lui, involuto com’ero dai continui trasferimenti e dal ritmo incalzante della vita.
Poi un giorno la memoria si è alleata con il coraggio: una telefonata liberatoria e poi l’abbraccio proprio sulla mia terra di Toscana. Molto è passato: l’epoca delle gare è finita, finito è anche l’insegnamento dopo il conseguimento del titolo di maestro, ho anche scritto parecchio sulla scherma; oggi mi resta solo il sito passionescherma.it.
Avrei amato così la scherma senza l’incontro con il maestro Micalizzi?
Stefano Gardenti