eroi mitici, proiezioni ideali dell’uomo sia fisico che spirituale,
capaci di grandi imprese in cui esprimere il proprio valore
………………un po’ come noi schermitori quando saliamo in pedana!!!
Achille
Achille è un eroe della mitologia greca, eroe leggendario della guerra di Troia e protagonista del celebre poema omerico Iliade.
Achille è definito come un semidio, essendo figlio del mortale Peleo, re dei Mirmidoni di Ftia nella regione nel sud-est della Tessaglia e della ninfa del mare Teti; quindi viene anche denominato col patronimico Pelìde o col matronimico Tetide.
Zeus e Poseidone si erano contesi la mano di Teti fino a quando Prometeo, il Titano che rubò il fuoco agli dei e lo fece conoscere agli uomini, profetizzò che la ninfa avrebbe generato un figlio più potente del padre. Per questo motivo essi rinunciarono alle loro pretese e costrinsero Teti a sposare Peleo, giustamente convinti che il figlio di un mortale non avrebbe costituito una minaccia per gli dei.
Peleo affidò Achille al centauro Chirone affinché provvedesse alla sua crescita ed educazione sul Monte Pelio; in verità fu Chirone a cambiare il nome del fanciullo in Achille, infatti prima era chiamato Ligirone, che significa “piangente”. Tra i significati del nome Achille pare il più calzante quello di “privo di labbra” in quanto si diceva che non aveva mai succhiato il latte materno.
Diventato più grande, Achille cominciò a esercitarsi nella caccia e nell’addestramento dei cavalli come pure nell’arte medica. Mentre imparava a cantare e a suonare la lira, Chirone lo addestrava alle antiche virtù: il disprezzo dei beni di questo mondo, l’orrore della menzogna, la resistenza alle cattive passioni.
Le doti del giovane eroe si rivelarono già all’età di sei anni quando, grazie ai consigli del suo maestro, uccise il primo cinghiale. La sua bionda capigliatura splendeva al sole durante le corse e, quando si dava alla caccia, raggiungeva ed abbatteva i cervi senza l’aiuto dei cani. Le sue doti stupivano persino le divinità Atena e Artemide, sbalordite dalla grazia e dalle capacità di quel fanciullo così piccolo.
Durante questo periodo di educazione alla vita guerriera, Achille ebbe come inseparabile compagno Patroclo, il quale, benché fosse più grande di lui, non gli era superiore nella forza né poteva vantare la stessa nobile origine.
Quando Achille aveva nove anni, l’indovino Calcante annunciò che Troia non avrebbe potuto essere conquistata senza l’aiuto del giovane tra le sue file. Teti, venuta a sapere di questa profezia, temendo la morte del figlio sotto le mura della città, sottrasse il giovane alle cure di Chirone e lo portò presso il re Licomede a Sciro, presentandolo come una donna: lo vestì con abiti femminili e lo fece vivere insieme alle figlie del re.
Qui l’eroe rimase nove anni, venendo soprannominato Pirra (cioè la Fulva) a causa dei capelli di colore biondo ardente. Durante questo periodo, l’eroe si innamorò di Deidamia, la sposò e da lei ebbe un figlio, Pirro, che più tardi avrebbe preso il nome di Neottolemo.
Intanto Ulisse, avendo anch’egli saputo dall’indovino Calcante che Troia non avrebbe potuto essere conquistata senza la partecipazione di Achille, fu incaricato insieme a Nestore e Aiace Telamonio di andare alla ricerca del giovane. Scoperto il suo nascondiglio, i tre si presentarono al cospetto di Licomede travestiti da mercanti, portando stoffe e oggetti preziosi, adatti ai gusti femminili; tuttavia, dentro una cesta lo scaltro Odisseo aveva messo anche alcune splendide armi, che Achille immediatamente scelse, rivelando la sua identità..
Dopo questa sortita di Ulisse, Achille si convinse a prendere parte alla spedizione di Troia, mettendosi a capo di una flotta di cinquanta navi con a bordo un contingente di Mirmidoni,]accompagnato dall’amico Patroclo, dall’auriga Automedonte e dal precettore Fenice.
Al momento della sua partenza per la guerra la madre Teti ripeté ad Achille il futuro che lo attendeva, cioè la morte; tuttavia. Achille, senza esitare, confermò la decisione di molti anni prima quando scelse la vita breve ma gloriosa.
Da Argo la flotta achea si portò ad Aulide, dove però le navi rimasero bloccate a causa di una persistente bonaccia. Interpellato a tale riguardo, Calcante rispose che essa era dovuta all’ira della dea della caccia Artemide (la Diana romana), che si sarebbe placata solo se Agamennone le avesse sacrificato la figlia Ifigenia. Agamennone acconsentì e per attirare la figlia ad Aulide senza destare sospetti né in lei né nella madre Clitennestra, pensò di addurre come pretesto la sua volontà di darla in sposa ad Achille.
Quest’ultimo non era al corrente dell’inganno e quando ne venne a conoscenza decise di intervenire per salvare la giovane; Ifigenia però era già stata portata ad Aulide e Achille cercò di opporsi, ma i soldati gli si sollevarono contro, minacciando di lapidarlo. Quando arrivò l’ora del sacrificio con Ifigenia rassegnata al suo destino per il bene del paese, la lama calò su di lei ma al suo posto colpì un cervo mentre la fanciulla fu portata via, in salvo, da Artemide; così narra Euripide nella sua Ifigenia in Aulide.
Per nove anni gli Achei stazionarono davanti a Troia; l’Iliade però inizia il suo racconto a partire dal decimo anno di assedio, quando Crise, padre di Criseide e sacerdote di Apollo, dopo essersi recato da Agamennone per riscattare la figlia, venne insultato e cacciato in malo modo; ciò scatenò l’ira di Apollo che, per punirlo, provocò una grande pestilenza tra gli Achei, colpendo prima gli animali e poi gli uomini.
L’indovino Calcante rivelò ad Agamennone che la pestilenza avrebbe avuto termine solo con la restituzione di Criseide; controvoglia Agamennone accettò, ma volle in cambio Briseide, schiava di Achille. Quest’ultimo, furibondo, dapprima minacciò di tornare in patria, a Ftia, con i suoi Mirmidoni. Successivamente decise di rimanere nell’accampamento e di non partecipare, con i suoi, alla battaglia; fece ciò per recuperare la “timè”, vale a dire l’onore, quantificato con il bottino ottenuto in guerra; egli non poteva tollerare l’offesa compiuta da Agamennone nei suoi confronti.
Senza Achille e il suo esercito di Mirmidoni tra le file achee i Troiani sembrarono prevalere: nel corso di una grande battaglia essi giunsero ad attaccare il campo acheo e a minacciare di dare fuoco alle navi. La situazione per gli Achei rischiò di precipitare ma Achille fu irremovibile: Patroclo, suo compagno riuscì a convincerlo a lasciare che i Mirmidoni continuassero a combattere e ottenne di potere indossare le sue armi e la sua corazza. Achille acconsentì, avvertendolo di non avvicinarsi alle mura di Troia. Ma Patroclo, dopo avere respinto l’assalto all’accampamento, tentò più volte di scalare le mura, dove venne ferito da Euforbo e infine ucciso dall’eroe troiano Ettore.
La morte del compagno indusse Achille a tornare nuovamente sul campo di battaglia: Teti fece preparare una nuova armatura da Efesto (il fabbro degli dei), poiché la sua, indossata da Patroclo, era finita nelle mani di Ettore. Achille riprese a combattere, cercando tra le schiere nemiche il principe troiano, deciso ad ucciderlo. Quando lo vide lo sfidò a duello: solo l’intervento di Apollo salvò Ettore da morte sicura. Questo aumentò ancora di più la sua collera: Achille, non sapendo dove cercarlo, iniziò rabbiosamente ad uccidere qualunque nemico gli capitasse a tiro, compiendo una strage.
Finalmente Achille affrontò Ettore in duello e lo uccise con un colpo di lancia tra il collo e le spalle, nonostante la madre gli avesse predetto che alla morte dell’eroe troiano sarebbe ben presto seguita la sua. Per vendicare Patroclo, forò i tendini del tallone al corpo di Ettore e lo trascinò dietro al suo carro facendone scempio. Priamo, padre di Ettore e re di Troia, si recò nel campo acheo per implorare la restituzione del corpo del figlio, cosa che Achille, mosso a pietà, concesse.
Achille fu successivamente ucciso da Paride, fratello di Ettore, con una freccia avvelenata diretta nel tallone destro il suo unico punto mortale.
La nota invulnerabilità di Achille risale al poema incompleto Achilleide di Publio Papinio Stazio del I secolo: Teti, quando Achille nacque, tenendolo per un tallone lo immerse nel fiume Stige uno dei cinque fiumi dell’inferno; il bambino divenne così invulnerabile, però ad eccezione di quel punto, che non era stato immerso.
Tuttavia nessuna delle fonti antecedenti Stazio fa riferimento alla sua invulnerabilità. Al contrario, nell’Iliade, Omero narra di un Achille ferito: in effetti nel libro XXI, l’eroe Asteropeo sfida Achille nei pressi del fiume Scamandro ed essendo ambidestro scaglia due lance alla volta e la seconda colpisce Achille al gomito, facendogli sgorgare del sangue: «sfiora coll’altro il destro braccio dell’eroe, di nero sangue lo sprizza»
L’armatura di Achille fu oggetto di disputa tra Odisseo, più noto come Ulisse e Aiace Telamonio, che se la contesero tenendo dei discorsi sul perché ognuno di essi dovesse essere considerato il più coraggioso dei soldati achei dopo Achille e quindi meritevole della sua armatura. Alla fine, fu assegnata ad Ulisse, ritenuto più utile ai fini della vittoria grazie alla sua astuzia. Furibondo per l’ingiustizia Aiace maledisse Ulisse, scatenando l’ira della dea protettrice di quest’ultimo, Atena, la quale fece diventare Aiace temporaneamente pazzo: egli cominciò ad uccidere delle pecore, scambiandole per i compagni che lo avevano deriso. Quando ritornò in sé Aiace per la vergogna si uccise. Successivamente Ulisse diede l’armatura a Neottolemo, figlio di Achille.
Una reliquia, ritenuta la lancia di Achille è stata conservata per secoli in un tempio di Atena sull’acropoli della città di Faselide, nella Licia. La città fu visitata nel 333 a.C. da Alessandro Magno che si identificò come il nuovo Achille, portando sempre con sé l’Iliade, tuttavia i suoi biografi di corte non menzionano la lancia che il re macedone non avrebbe potuto fare a meno di toccare in preda all’emozione.
Perseo
Perseo è un eroe della mitologia greca, figlio del re degli Dei Zeus e di Danae, figlia del re di Argo Acrisio.
Quest’ultimo temeva per le sorti del proprio regno perché, avendo avuto dalla moglie Aganippe una sola figlia femmina, Danae, in assenza di eredi maschi non sapeva a chi avrebbe trasmesso il titolo di sovrano. Spinto dal desiderio di conoscere il destino della sua città, chiese all’oracolo come avrebbe potuto avere figli. Il dio gli rispose che sua figlia Danae avrebbe avuto un figlio che lo avrebbe ucciso. Preso dal più grande sconforto e anche dal terrore, rinchiuse la figlia in una torre ben fortificata, con porte di bronzo guardate da cani ferocissimi.
Egli pensò che in questo modo non avrebbe avuto più nulla da temere. Ma nonostante queste precauzioni, Danae concepì un figlio; si racconta che il seduttore fu lo stesso Zeus, il quale, trasformato in pioggia d’oro, penetrò attraverso una fessura del tetto e ottenne l’amore della ragazza.
Danae, rinchiusa nella prigione con la propria nutrice, poté avere il figlio di nascosto e allevarlo per vari mesi. Un giorno tuttavia il bambino, giocando, emise un grido, e Acrisio lo udì. Terrorizzato dalla rivelazione dell’oracolo fece chiudere Danae e il figlioletto in una cassa di legno che mise su una nave lasciata alla deriva.
La cassa navigò così, sino all’isola di Serifo, dove l’imbarcazione fu fermata da un pescatore di nome Ditti, fratello del tiranno dell’isola, Polidette. Aperta la cassa vi trovò Danae e Perseo ancora miracolosamente vivi. Il pescatore li aiutò a riprendere le forze e li condusse al cospetto del re che, preso da pietà per i due naufraghi, offrì loro ospitalità.
Passarono gli anni e Perseo, circondato dall’amore della madre, cresceva forte e valoroso divenendo ben presto un giovane bellissimo e fortissimo.
Danae, che la maturità aveva reso ancora più bella, era oggetto dei desideri del re Polidette che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo; ma ella, il cui unico pensiero era il figlio Perseo, non ricambiava il suo amore.
Allora Polidette pensò di eliminare Perseo con un piano astuto: disse di aspirare alle nozze con un’altra donna per il bene del regno e, dopo aver radunato gli amici confinanti e lo stesso Perseo, annunciò i suoi propositi di nozze e chiese a tutti un regalo: da ognuno dei presenti avrebbe gradito un cavallo. Perseo, mortificato perché non possedeva nulla di simile da donargli, affermò che se il re non avesse più insidiato sua madre Danae, gli avrebbe procurato qualunque cosa avesse chiesto. Polidette fu molto lieto in cuor suo pensando che questo fosse il mezzo per liberarsi di lui. Espresse pertanto l’estroso desiderio di avere come dono di nozze la testa di Medusa, una delle tre Gorgoni.
Per poter raggiungere Medusa, Perseo doveva procurarsi tre cose: dei sandali alati per spostarsi a gran velocità, una sacca magica per riporvi la testa recisa e l’elmo di Ade che rende invisibili. Intanto Atena gli aveva fornito uno scudo lucido come uno specchio, raccomandando all’eroe di guardare Medusa solo di riflesso. Ermes gli regalò un falcetto di diamante affilatissimo, col quale l’eroe avrebbe decapitato il mostro.
Quindi Perseo si diresse verso il paese degli Iperborei, una popolazione che abitava nelle regioni fredde e spoglie del Nord. Quel luogo sembrava dominato dalla più grande desolazione e dalla più profonda tristezza: la terra, le erbe, il cielo e la natura in generale avevano un colore grigio e sinistro. La foresta nella quale si incamminò per giungere presso Medusa era pietrificata e cosparsa di strane statue color piombo rappresentanti uomini e donne in diversi atteggiamenti. Perseo si accorse subito che quelle non erano statue, ma esseri che avevano avuto la sventura di guardare il volto di Medusa.
Resosi invisibile grazie all’elmo di Ade, avanzò camminando all’indietro, guardando nello scudo sorretto da Atena; quando fu abbastanza vicino al mostro da sentirne sibilare i serpenti che gli si agitavano sul capo, lo decapitò col falcetto mentre dormiva. Dal collo mutilato della Medusa scaturirono un cavallo alato, Pegaso e un gigante, Crisaore. Poi Perseo si alzò in volo con i suoi sandali alati per allontanarsi il più in fretta che poteva da quel luogo sinistro; raccolse pure il sangue colato di Medusa, che aveva proprietà magiche: quello che era colato dalla vena sinistra era un veleno mortale, mentre quello colato dalla vena destra era un rimedio capace di resuscitare i morti. Inoltre, un solo ricciolo dei suoi capelli, mostrato a un esercito assalitore, aveva il potere di sconfiggerlo.
Mentre sorvolava il territorio della Filistia, vide incatenata a uno scoglio una fanciulla bellissima: Andromeda, figlia del re di Etiopia Cefeo e di Cassiopea. Era condannata a essere divorata da un mostro marino perché sua madre, orgogliosa dell’avvenenza di sua figlia, aveva affermato che superava in bellezza tutte le Nereidi: le ninfe del mare si erano offese e Poseidone, oltre ad avere mandato sulle coste una forte mareggiata che aveva spazzato via l’abitato, aveva inviato un orribile mostro che faceva stragi e terrorizzava gli abitanti: l’integerrimo Cefeo, per salvare il suo popolo, consultato l’oracolo, fu costretto a offrirgli la propria figlia per placarne l’ira.
Perseo si offrì di liberare la fanciulla e il luogo da quella calamità purché il re gli consentisse di sposare Andromeda. Cefeo e Cassiopea sulle prime non erano favorevoli, ma furono costretti dagli eventi ad acconsentire.
Perseo, ingannando il mostro marino che doveva divorare Andromeda con dei giochi d’ombra sull’acqua, riuscì ad ucciderlo e riportò la giovane dai genitori. Tuttavia l’uccisione del mostro fu ben poca cosa, a paragone di quel che successe dopo: durante i festeggiamenti di nozze, Agenore, un ex pretendente alla mano di Andromeda, giunse alla reggia accompagnato da uomini armati, pronto a tutto pur di averla. L’eroe, per difendersi, estrasse ancora una volta la testa di Medusa ottenendo l’effetto voluto: tutti diventarono di pietra, compresa Cassiopea che tramava contro di lui.
Nell’isola, Perseo trovò in un tempio la madre Danae e che si nascondeva dal re Polidette che non aveva smesso di insidiare la madre.
Perseo allora fu preso da un’ira incontenibile, e dopo aver nascosto Andromeda, si avviò alla reggia; giunto al palazzo e portando il dono di nozze, venne deriso ed insultato dal sovrano. Per vendicarsi dei torti subiti, Perseo tirò fuori ancora una volta dalla sacca magica la testa della Medusa pietrificando il re e i suoi cortigiani.
Poi Perseo donò i gli oggetti che gli avevano permesso di uccidere la Gorgone, ovvero i sandali, la bisaccia e l’elmo di Ade, ad Ermes, che li rese alle Ninfe. La testa di Medusa fu donata invece ad Atena, che la pose in mezzo al proprio scudo (l’Egida).
Infine Perseo, insieme alla moglie Andromeda e alla madre Danae, ritornò ad Argo, volendo rivedere suo nonno Acrisio.
Questi però, venendo a sapere le intenzioni dell’eroe e temendo sempre l’oracolo che gli aveva predetto la morte per mano di suo nipote, partì per Larissa, nel paese dei Pelasgi, all’altra estremità della Grecia. Perseo, lo raggiunse e lo rassicurò perché non gli portava rancore e riuscì a farlo tornare ad Argo. Ora, a Larissa, il re Teutamide dava giochi in onore di suo padre, e Perseo vi giunse come competitore. Al momento di lanciare il disco, s’innalzò un vento violento, e il disco lanciato da Perseo, deviato malauguratamente, colpì Acrisio, che assisteva allo spettacolo, alla testa e lo uccise. Cosicché il vaticinio dell’oracolo si era compiuto.
Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione cui pose a fianco la sua amata Andromeda e Cassiopea.
Ancor oggi queste costellazioni portano i loro nomi.
Ulisse
Ulisse, alla latina detto anche Odisseo, alla greca, è un personaggio della mitologia greca. Originario di Itaca detta la terra del sole, è uno degli eroi achei descritti e narrati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, l’opera letteraria che lo ha come protagonista e che da lui prende il nome.
Il nome Odisseo gli fu assegnato dal nonno Autolico, motivandolo come “odiato dai nemici”; ma fra i possibili significati dobbiamo citare “collerico” o addirittura “il piccolo”, quest’ultima definizione si adatterebbe alla sua statura, non altissima.
L’ epiteto Ulisse, datogli dai Romani, fa riferimento a una ferita riportata alla coscia in una battuta di caccia al cinghiale.
Odisseo aveva consultato un oracolo dal quale era stato ammonito che, se fosse andato a Troia, sarebbe tornato in patria solo dopo vent’anni e in condizioni di miseria. In seguito quando Agamennone, accompagnato da Menelao e Palamede , fece visita all’eroe per convocarlo in onore del solenne giuramento che aveva pronunciato, Odisseo architettò di giustificare la sua riluttanza alla guerra comportandosi come un pazzo. I tre uomini lo sorpresero con un cappello da contadino a forma di mezzo uovo mentre arava un campo pungolando un asino e un bue aggiogati insieme e lanciandosi alle spalle manciate di sale. Palamede, per verificare la sanità dell’uomo, strappò Telemaco bambino dalle braccia della madre e lo posò per terra davanti alle zampe delle bestie aggiogate all’aratro; Odisseo subito arretrò tirando le redini per risparmiare il figlio smascherando la sua macchinazione e cedette ad arruolarsi nella spedizione [2].
Re di Itaca, figlio di Laerte (anche se una tradizione lo vuole figlio di Sisifo) e di Anticlea, sposo di Penelope, padre di Telemaco, Ulisse (Odisseo) vorrebbe ritornare agli affetti familiari e alla nativa Itaca dopo dieci anni passati a Troia a causa della guerra (suo è l’espediente del cavallo di legno che permette di sbloccare la situazione), ma l’odio di un dio avverso, Poseidone, glielo impedisce. Costretto da continui incidenti e incredibili peripezie, dopo altri dieci anni, grazie anche all’aiuto della dea Atena, riuscirà a portare a compimento il proprio ritorno a casa.
L’eroe, è la personificazione dell’astuzia, del coraggio, della curiosità e dell’abilità manuale.
Le tappe del ritorno sono dodici, numero degli insiemi perfetti. Si alternano tappe in cui l’insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte) a tappe in cui l’insidia è solo latente: un’ospitalità che nasconde un pericolo, un divieto da non infrangere. Ulisse continua a non riuscire a tornare a Itaca perché il dio Poseidone, adirato con lui, gli scatena contro venti furiosi e continui naufragi e pericolosi approdi in altre terre.
I Ciconi
Dopo la partenza da Troia, Ulisse fa tappa a Ismaro, nella terra dei Ciconi e li attacca per fare bottino. Qui risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che gli dona del vino forte e dolcissimo che gli tornerà utile nella grotta di Polifemo.
I Lotofagi
Seconda tappa nella terra dei Lotofagi, cioè mangiatori di loto. Essi sono ospitali ma insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno, costringendo l’eroe a legarli e a trascinarli a forza sulle navi.
Il ciclope Polifemo
Ulisse, insieme ai suoi compagni, approda su un’isola abitata dalle ninfe. Ulisse vuole andare a chiedere ospitalità in un’isola vicina e porta con sé una nave e alcuni suoi compagni. Giungono nella grotta di Polifemo, che nel frattempo è uscito a pascolare le pecore, e la trovano con i graticci pieni di formaggi enormi e il latte appena munto. I compagni pregano Ulisse di prendere i formaggi, rimettersi in mare e scappare, ma l’eroe vuole ricevere i doni dell’ospitalità. Polifemo ritorna: è orrendo, un gigante con un solo occhio in mezzo alla fronte. Quando li vede sta preparando la sua cena, e allora prende due compagni di Odisseo e li divora. Poi si mette a dormire, così Ulisse medita come scappare da quella disavventura.
Inizialmente pensa di estrarre la spada e così ucciderlo, ma poi riflette che in quel modo sarebbero morti anche loro, perché nessuno poteva smuovere il grande macigno che il ciclope aveva posto davanti alla porta. Poi vede un ramo d’ulivo, gigantesco, ancora verde, che a lui pareva l’albero di una nave da venti remi, e che Polifemo aveva conservato per farne un bastone. Ordina ai compagni di tagliarne un pezzo e intanto lui lo appuntisce. La sera dopo l’eroe offre al ciclope il vino che gli aveva donato Marone. Polifemo, contento del vino offerto, chiede poi a Ulisse il suo nome. L’eroe acheo risponde che il suo nome è “Nessuno” (in greco antico questa parola è assonante con il nome di Odisseo). Il ciclope si addormenta, ubriaco a causa del potente vino bevuto e Ulisse e i compagni colgono l’occasione: prendono il ramo,fanno diventare incandescente la punta dell’ulivo e accecano l’unico occhio del ciclope. Gli altri due fratelli di Polifemo accorrono ma ritornano indietro quando il ciclope dice: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno e non con la forza”. La mattina dopo Polifemo fa uscire a pascolare le sue pecore, ma per evitare che qualcuno fugga, stende le mani in modo da tastare il vello delle pecore. Allora l’eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni, riuscendo così a sfuggire.
Eolo
Giunge quindi nell’isola di Eolo, dio dei venti, da cui viene ospitalmente accolto per un mese, ricevendo in dono l’otre dei venti, accompagnato da un divieto da non infrangere: nessuno dovrà aprire l’otre. Saranno i compagni però che, invidiosi del dono dell’ospite, ormai in prossimità di Itaca, approfittando del sonno di Odisseo, apriranno l’otre scatenando i venti che risospingeranno la nave al largo.
I Lestrigoni
Quinta tappa presso i Lestrigoni, giganti mostruosi quasi quanto i Ciclopi. Anche qui Odisseo perde alcuni compagni e i giganti bersagliano la sua flotta abbattendo undici navi. Solo quella dell’eroe si salva.
Circe e L’Ade
Giunge poi nell’isola di Circe, una maga seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Grazie all’aiuto di Ermes, che gli dà una misteriosa erba quale antidoto alla maledizione della maga, l’eroe riesce ad evitare l’insidia e costringe Circe a restituire ai compagni sembianze umane. Dopo essersi fermato un anno da Circe, Odisseo – su indicazione della stessa maga – si accinge a una nuova prova, un viaggio nel regno dei morti. Lì riesce a entrare in contatto con le figure dei compagni perduti durante la guerra di Troia, con la madre e con l’indovino Tiresia, che gli presagirà un ritorno luttuoso e difficile, invitandolo a guardarsi dal toccare le vacche del Sole iperionide.
Le Sirene
Rimessosi in rotta, Ulisse se la vede con le pericolose sirene; allora tappa le orecchie ai compagni e si fa legare all’albero della nave per ascoltarle. Superato lo scoglio delle sirene Ulisse si sta dirigendo verso lo Stretto di Messina.
Scilla, Cariddi e l’isola di Elio
Ulisse tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla mangia sei compagni di Ulisse. A impresa compiuta, Odisseo non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio. Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Scilla.
Calipso
Scampato alla tempesta riuscì a salvarsi grazie all’arrivo sull’isola di Ogigia, dove incontra Calipso. Essa è una ninfa molto bella e immortale che andando a stendere i panni con le sue ancelle trova Ulisse naufrago nudo e sporco. Quindi lo accoglie e si innamora di lui e visto che tra poco deve celebrare le nozze spera di sposarsi con l’uomo dal multiforme ingegno. Dopo sette anni di “prigionia” lontano da casa, Ermes viene ad avvisare la ninfa di lasciare Ulisse, il quale costruita una barca parte per Itaca, ma ad un passo dalla terra natia, Poseidone lo ferma.
I Feaci
Odisseo un giorno sbarcò nell’isola dei Feaci, dove incontrò Nausicaa, la figlia di re Alcìnoo e le chiese dei vestiti e dov’era la reggia del re. Andò alla reggia e chiese aiuto al re di dargli una nave per ritornare a casa. Lui accettò e gli organizzò anche un banchetto nel quale lui rivelò il proprio nome. Il giorno dopo si imbarcò, salutando tutti.
Ritorno a Itaca
Quando arrivò a Itaca con l’aiuto di Atena si fece ospitare da Eumeo, come mendicante. Dopo essersi rivelato al figlio e al fedele Eumeo si recò alla reggia facendosi accogliere appunto come un mendicante. Qui, schernito ripetutamente dai tracotanti Proci, partecipa alla gara di arco organizzata da Penelope, che aveva promesso di consegnarsi in sposa a colui che sarebbe riuscito a scoccare una freccia dal pesante arco del marito facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate. Nessuno dei pretendenti riuscì anche solo a tendere l’arco, e così Odisseo chiese di poter fare un tentativo. Sotto gli occhi torvi dei Proci, dopo aver scaldato l’arma sulla fiamma, Odisseo riesce perfettamente nell’impresa di tendere l’arco e scoccare. A questo punto, spalleggiato da Atena, non gli rimane che scatenare la vendetta che aveva attentamente preparato con Eumeo, Filezio e il figlio, togliendo tutte le armi ai Proci per poi ucciderli. Euriclea andò a chiamare Penelope per dirle che Odisseo non era morto; quando lei lo vide non disse niente, non si convinceva che fosse suo marito, fino a quando lui disse qualcosa che poteva sapere solo lei e lei lo riconobbe, lo strinse forte piangendo. Anche Telemaco fu felice per i suoi genitori.
Nel libro undicesimo dell’Odissea, l’indovino Tiresia predice il futuro del re itacese: infatti gli profetizza una morte “Ex alos”[9], che vuol dire “dal mare” o “lontano dal mare”. Una volta uccisi i Proci, ripartirà verso terre lontane, ai confini del regno di Poseidone, ossia oltre le Colonne d’Ercole. Giungerà ad una terra dove non si conoscono il mare e le navi e dove non si condiscono i cibi col sale. Quando un viandante scambierà il remo di Ulisse per un ventilabro (strumento agricolo consistente in una pala di legno con cui si ventilava il grano sull’aia, allo scopo di separarlo dalla pula) potrà fermarsi, piantare il remo e offrire sacrifici a Poseidone. Tornerà quindi ad Itaca, offrirà sacrifici a tutti gli dèi e una lieta morte verrà dal mare durante una serena vecchiaia, circondato da popoli pacificati.
Ercole
Ercole, il greco Eracle, è figlio di Zeus e della mortale Alcmena, a cui il dio si era unito assumendo le sembianze di suo marito, Anfitrione. Sin dalla nascita è odiato da Era, sposa di Zeus, adirata per il tradimento. Ha ancora pochi mesi quando la dea invia contro la sua culla due enormi serpenti; ma Eracle, già in possesso di una forza straordinaria, riesce a strozzarli con la potenza delle sue mani.
Ancora Era fa sì che l’eroe, ormai adulto, venga colto da follia e nel delirio uccida i figli e la moglie Megara. È proprio per espiare questo orrendo delitto che, secondo la versione più diffusa del mito, egli deve compiere le dodici fatiche. A imporgli le fatiche è suo cugino Euristeo
.Le dodici fatiche
Per compiere le sue imprese Eracle dovrà affrontare:
1) il leone di Nemea, una belva terribile e invulnerabile che divorava gli abitanti e il bestiame della regione: Eracle lo uccide soffocandolo con la morsa delle sue braccia; poi ne indossa la pelle dopo averla scorticata con gli stessi artigli dell’animale;
2) l’idra di Lerna, un serpente a più teste, ciascuna delle quali, una volta tagliata, ricresceva: l’eroe riesce ad abbatterla bruciando le ferite con tizzoni ardenti e impedendo così alle teste di ricrescere;
3) il cinghiale di Erimanto: Eracle riesce a catturarlo vivo dopo averlo immobilizzato in mezzo alla neve; quando lo porta a Euristeo, questi per il terrore si nasconde in una grande giara;
4) la cerva di Cerinea, dalle corna d’oro, sacra a Artemide: Eracle la cattura dopo un anno d’inseguimento, ferendola mentre guada un fiume;
5) gli uccelli del lago Stinfalo, predatori dei raccolti: Eracle li fa uscire dalla foresta in cui si annidavano facendo risuonare nacchere di bronzo; in tal modo può sterminarli con le sue frecce;
6) la pulizia delle stalle del re Augia, in cui si era accumulata una quantità immensa di letame: Eracle riesce a pulirle in un solo giorno deviando nel cortile delle stalle il corso dei fiumi Alfeo e Peneo;
7) il toro di Creta, spirante fuoco dalle narici: l’animale viene catturato vivo, benché furioso;
8) le giumente di Diomede, re della Tracia, che si cibavano di carne umana: Eracle riesce ad ammansirle dando loro in pasto lo stesso crudele re;
9) la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni: per conquistarla l’eroe deve combattere contro il popolo delle donne-guerriere e uccidere Ippolita;
10) i buoi di Gerione, gigante a tre teste che abitava nell’Estremo Occidente, nell’isola di Erizia: Eracle, dopo aver innalzato due colonne sui lati dello stretto tra Europa e Africa in ricordo del suo passaggio, attraversa l’Oceano sulla ‘coppa del Sole’, uccide il mostro e si impossessa delle mandrie;
11) Cerbero, il mostruoso cane infernale a tre teste e coda di serpente, che l’eroe riesce a domare e a portare sulla terra dopo essere sceso vivo nell’Ade;
12) la conquista dei pomi delle Esperidi: Eracle viaggia ancora a Occidente per rubare dal giardino delle Esperidi le mele d’oro che crescevano su un albero meraviglioso custodito da un drago immortale.
L’eroe è anche protagonista di innumerevoli altre imprese: partecipa, per esempio, alla spedizione degli Argonauti, combatte contro i Centauri, strappa a Thanatos, cioè alla Morte, Alcesti, e altre ancora.
Muore per l’inganno in cui cade la sposa Deianira, che gli invia in dono una veste intrisa del sangue del centauro Nesso: la donna crede che si tratti di un talismano d’amore, ma la veste, una volta indossata, corrode le carni dell’eroe.
Eracle, in fin di vita, ordina che gli venga preparata una pira sul monte Eta e lascia che il suo corpo sia consumato dal fuoco. Ma il suo destino è tra gli immortali: l’eroe viene accolto nell’Olimpo tra gli dei, ove ha come sposa Ebe, la dea della giovinezza e coppiera degli Dei.