Traduzione Sotto la grande ala della mamma azzurra


Antefatto

            Oggi, non so se fortunatamente oppure no, non c’è più come ai tempi della mia gioventù uno spauracchio generazionale: la leva militare obbligatoria, in gergo naia ( probabilmente dal latino natalĭa, neutro plurale “le cose appartenenti alla nascita, alla stirpe”).

            Passano gli anni, ne compio 18 e mi convocano per la visita medica: “abile”, il che è una fortuna come dice mio padre, che mi racconta come il suo nonno ottocentesco chiedesse per prima cosa ai pretendenti delle sue figlie se avessero ottemperato o meno al servizio militare …era una specie di garanzia!

            Intanto proseguo i miei studi e quindi ho la possibilità di chiedere il rinvio, detto fatto; presento quindi regolarmente le famose carte per tre anni, poi, pensando ormai all’ineluttabilità della cosa, faccio come quando ti duole un dente, decido di togliermelo per non pensarci più!

            All’epoca tiravo di scherma ed ero alquanto bravino, diciamo con un piede dentro ed uno fuori dalla Nazionale maggiore; siamo nel 1973 e vengo a sapere che nelle Forze Armate da qualche anno si stanno sviluppando dei Centri Sportivi che, tra le altre attività, contemplano anche la mia disciplina preferita.

            Piatto ricco mi ci ficco, dice il proverbio e, detto fra di noi, non dice affatto male: tutti parlano della naia come un anno perso, come 12 mesi passati in pratica ad incrociare le dita. Tra l’altro sono sotto la famosa spada di Damocle perché, abitando per un paio di anni a Genova a causa del mestiere di dirigente bancario di mio padre, sono finito nelle scabrose liste di mare, che vanno bel oltre i 12 mesi delle altre formazioni militari.

            Ora abito però a Como e grazie alle conoscenze di mio padre, dopo un colloquio con il questore della città, ottengo il trasferimento nella leva di terra e vista l’occasione, dotato del coraggio che mi ha fornito la pedana, cerco di prendere “la spada al balzo”: dottore, scusi, ma non si potrebbe a questo punto risparmiarmi questo anno?! Parata e risposta secca del questore, che forse in gioventù aveva fatto fioretto: Ma, Gardenti, lei è un azzurro e così potrà difendere con le armi in pugno l’onore dell’Italia all’estero! Uno a zero per il questore.

            Corre l’anno del Signore 1973, non consegno più al distretto i fogli dell’università che prorogano la mia chiamata alle armi e resto in febbrile attesa.

            Intanto ai campionati giovanili di Como di qualche mese prima, quando ancora non ero sicuro di voler partire “per il fronte”, avevo incontrato il colonnello Picchiottini, il responsabile del gruppo sportivo dei Carabinieri, che mi sollecitava appunto l’adesione alla sua arma; ricordo le sue precise parole: Gardenti temo che lei stia perdendo l’ultimo treno!

            Benissimo, cambio binario è mi accolgono a braccia aperte nel Gruppo Sportivo dell’Aeronautica Militare …così evito la gazzella e prendo l’aereo!

            E, sarà un caso, ma tutte le volte che abbiamo incontrato i Carruba li abbiamo regolarmente battuti!

            Ma andiamo per ordine ed apriamo un nuovo capitoletto.

 

 

L’attesa

            Come Cesare ho tratto il dado anche se non ero sul Rubicone, ma sul più ampio e profondo lago di Como, dove mio padre Giovanni ci aveva fatto rimontare le tende che avevamo prontamente disfatto sul mare di Genova.

            Ci sono gli ultimi mesi di vita normalizzata, quindi studi di Giurisprudenza, frequentazione della sala di scherma, amici e …una nuova ragazza; certo, volevate che partissi per il fronte e non avessi a chi scrivere struggenti lettere d’amore?! Per la cronaca talmente struggenti che quattro anni dopo ho poi sposato la mia bella Elena, espiantandola dall’originaria terra cisalpina e trapiantandola all’ombra del campanile di Giotto o della cupola del Brunelleschi, se più vi piace.

            Comunque sotto con gli esami visto che sono un po’ indietro anche per il fatto che studio da autodidatta senza frequentare la Statale di Milano, troppo politicizzata per i miei gusti. Criminologia, dove poi avrei svolto la mia tesi, diritto ecclesiastico, dove al professore che mi aveva chiesto di parlare della copula sparai un “actio qua semen verum, non liquor quicunque, effunditur in vagina mulieris”, fanalino di coda Filosofia del diritto che avvertii che mi stava cambiando alquanto la ram mentale, anche se a quel tempo non c’erano ancora i computer.

            Ma cosa sarà questa naia, cosa dovrò fare, chi ci sarà: dubbi fortunatamente non amletici visto che dovevo semplicemente tirare di scherma; conoscevo già personalmente da anni Gianni Augugliaro,  il maestro della sala dell’Aeronautica.

            Già, ma prima c’era il temutissimo C.A.R. , leggasi Centro Addestramento Reclute; c’era il fastidioso nonnismo, che avevo aborrito di perpetrare personalmente nelle situazioni in cui mi ero precedentemente trovato, cioè al liceo e nella squadra azzurra. La speranza era quella di riuscire a troncare questa vera e propria persecuzione che tramandava una vendetta idiota da generazione a generazione …ovviamente ho perso e tutto è continuato come prima!

            Mio padre, che a 18 anni aveva fatto la seconda guerra mondiale, mi prendeva un po’ in giro visto che io invece avevo fortunatamente ben altri pericoli da cui stare lontano; mia madre, come tutte le mamme, invece era ovviamente un po’ preoccupata.

            Poi un giorno il botto: qualcuno, onestamente non ricordo chi, apre la cassetta della posta ed ecco l’attesa cartolina di precetto; un vero e proprio cartoncino di un tristissimo color rosa pallido che recava l’ordine perentorio di presentarsi entro il giorno 26 luglio 1973 nientepopodimenoché a Fano. Corsa  a vedere sull’atlante dove mai fosse questa località, visto che telefonini e computer con google-maps erano ancora lontani dall’essere concepiti: sotto Pesaro, nelle Marche; beh poteva andare peggio per uno come me che in pratica partiva dal confine cisalpino di Como.

            Poi c’è anche una piacevole novità: non parto solo, ma assieme al mio compagno di sala Riccardo Fortuna, anche lui colpito e affondato in questa specialissima battaglia navale per arruolati.

           

 

Al  C.A.R.    Centro Addestramento Reclute

            Ci troviamo alla stazione con una borsa di piccole dimensioni e partiamo; giù sino a Bologna e poi tutto a sinistra per andare sul mare Adriatico e poi seguire la costa; dopo circa cinque ore ecco la stazione di Fano, scendiamo e ora chiederemo della caserma …nient’affatto: c’è un militare di una certa età che con un ghigno satanico indica con l’indice della mano destra il suo cappello tenuto riverso nella destra a mo’ di contenitore …qui le cartoline.

            Siamo ufficialmente militari!

            Poi come nei film di guerra: ci fanno salire su un camion, naturalmente militare, con le panche di legno laterali, gli uni di fronte agli altri; beh, sono organizzati ed entriamo nella parte. Però poi vorremmo letteralmente scappare quando, entrando dal cancello della caserma sentiamo, stile scimmie della rocca di Gibilterra, urla belluine a noi indirizzate: “maledette burbacce, dovete scoppiare”; non occorreva un traduttore, cogliemmo al volo la macabra insinuazione.

            Scendiamo e ci accompagnano tutti in fila al bar, ma guarda che accoglienza! Ci danno un buono per un cappuccino ed una briosce, appunto la cena di quella prima indimenticabile sera; ci danno anche una cartolina con l’effigie del reggimento al posto del solito panorama e riempiamo il pre-timbrato: sono arrivato, tutto bene, vi spedisco i miei abiti, questo è il mio attuale indirizzo, saluti.

            Il tempo di trangugiare il frugale pasto e, al suono di una tromba, seguiamo lo sciame di tutti gli altri verso le camerate, dove ci assegnano il nostro lettino; lettino smontato, in quanto la tela, che racchiude quel che sembra un materasso assieme a due lenzuola ed un cuscino alto come una sogliola vista di piatto, va riagganciata alla struttura della branda tramite ganci e rispettivi occhielli. E’ il cubo, ci dice un commilitone arrivato prima di noi; ma come cubo, questo è un parallelepipedo; zitto, dice qualcuno, comunque è un solido.

            Lo strazio fece da sonnifero e piombai direttamente tra le braccia di Morfeo, probabilmente neanche sognando, quella notte.

            Era estate e, siccome nelle caserme non ci sono certo le tendine, la luce mi svegliò appunto alle sue prime esternazioni: ma allora l’incubo è vero, sono al C.A.R.; camerata con una trentina di persone, quindi statisticamente c’è chi russa, forse anche io, c’è chi ha i piedi che puzzano e così via.

            Poi la solita tromba, ma questa volta con noti differenti: fluttuano le bestemmie a mezz’aria, altri invece si girano dall’altra parte e continuano a dormire.

            Ancora non sono a conoscenza delle regole della casa, ma seguo gli altri in bagno, mi libero, mi lavo, mi vesto e seguo gli altri che sembrano attirati da un ancora diverso trillo della solita tromba.

            Arriviamo alle sei di mattina sulla piazza della caserma: noi usciamo da un edificio a due piani e altrettanti da un altro edificio dal lato opposto, mentre di lato ci sono costruzioni un po’ più basse, probabilmente gli uffici o qualcosa del genere.

            Siamo mescolati, tra ragazzi già in divisa e ragazzi ancora vestiti da civile; un graduato, ancora non so leggere il suo livello, grida come un forsennato per metterci in riga …spolvero i ricordi dell’ora di ginnastica delle scuole medie e faccio del mio meglio.

            Arriva un superiore, lo intuisco dall’irrigidirsi nel saluto di chi ci urlava poco prima; è più disteso e calmo ed inizia a parlarci dandoci il benvenuto, beh almeno un po’ di educazione!

            Neanche a dirlo, nello stesso istante arriva un evidente ritardatario con le mani in tasca e una sigaretta accesa in bocca …ritornano i decibel in forma incresciosa sempre da parte del primo elemento surricordato, subito azzerati da un cenno della mano del secondo. Poi la minaccia: oggi è il primo giorno per alcuni di voi, da domani si cambia.

            Da quell’istante persi la disponibilità del mio corpo: non potevo andare dove volevo, ma dovevo stare qui o lì e nemmeno a fare necessariamente un qualcosa, ma dovevo comunque stare qui o lì!

            Poi, assieme ad un piccolo gruppo, fui portato a ritirare l’equipaggiamento e mi dettero tutto, dico tutto: camicie, pantaloni, calzettoni, canottiere, mutande, golf, scarpe, giacca e, anche se era estate, il cappotto; ma non è finita qui: sacca con lucchetto, zainone, set completo da barba, sapone con custodia di plastica, asciugamani, pettine e set per cucire. Ecco perché poi con tristezza inserimmo i nostri jeans, magliette, espadrillas ed altro nella sacca che ci eravamo portati dietro, sacca che partì alla volta delle nostre famiglie. Eravamo tutti nuovi, proprio tutti, tutti.

            Nello stesso giorno un passaggio per tutti dai parrucchieri della caserma: io non sono mai stato un Sansone per quanto riguarda la folta chioma, ma anche io subii delle sforbiciate profonde che misero in piena evidenza i cuoio capelluto. Qualcuno non si riconobbe allo specchio!

            Intanto avevamo conosciuto la mensa; che bella la mensa, pensai, io non ci ho mai mangiato; ecco …prendo il vassoio mi accosto al bancone e chiedo di darmi poca pasta …il gentile commilitone che faceva quel giorno la corvè mensa mi tira una romaiolata di pasta che mi copre due o tre scomparti del vassoio …ecco perché poi dicono ottimo e abbondante! La carne è meglio lasciarla perdere, perché sbirciando dalla piazza in un deposito avevamo visto dei marchi sui quarti di bue appesi: 1968! Mi butto quindi sul pane, ma io ed altri ci troviamo dentro dei fiammiferi  …colpa di qualche commilitone piromane represso. Le posate, essendo personali, dopo la consumazione andavano pulite a nostra cura; i più intelligenti, per pulirle meglio dall’unto del cibo, usavano la rena che c’era vicino a delle fontanelle nella piazza; smisero subito perché si accorsero che era il gabinetto dei gatti che infestavano la caserma grazie alla generosità di quelli che gettavano loro gli avanzi.

            Dovevamo mettere a posto la divisa per la libera uscita: chi aveva pantaloni larghi o lunghi doveva ingegnarsi con il set fornito; in effetti dominava l’extra-large per ovvi motivi, melius est abundare quam deficere, dicevano già i romani antichi. Dovevamo anche cucirci lo stemma sul berretto, come fossimo delle sartine o delle mamme senza la macchina da cucire Singer, tanto in voga all’epoca.

            Cominciava quindi ad ingranare la vita militare; ancora eravamo dei reclusi tipo le suore di clausura e la cosa si sarebbe protratta, se ricordo bene, per ben otto giorni: mai il naso fuori della caserma. Comunque sempre vita di gruppo, mai un istante da solo; anche quando si andava in bagno, essendo la porta sprovvista di chiave, dovevamo assumere la posizione a uovo sulla piattaforma alla turca con mani avanti perché di solito chi apriva usava un violento calcio. 

            Scena incresciosa: siamo nel piazzale quando si sentono delle grida di animale incredibili; guardiamo e in lontananza vediamo una grossa gabbia per topi con una bestia dentro che si contorce avvolta dalle fiamme …”così ora non ci rompe più i coglioni sento dire”; ma il WWF che ci fanno vedere alla TV?!

            Una mattina ci portano ad una visita medica: in pratica tutti in mutande in fila per far vedere la gola; il dottore, o quello che sembrava esserlo, aveva in mano una spatoletta di ferro che intingeva tutte le volte in un bicchiere d’alcool prima di …passare al prossimo!

            Dopo i primissimi giorni tutti grandi amici, braccia sulle spalle e offerte generose di sigarette; tutti a chiacchiera perché non c’era altro intrattenimento. Dopo circa una settimana iniziarono piccole e frugali minirisse e una volta volò anche una coltellata, che per qualcuno significò Gaeta, leggasi carcere militare.

            Cominciano anche le corvée, ovvero i servizi a cura dei militari; io mi metto in lista per la pulizia del cinema interno alla caserma: immaginatevi tutto il sudiciume possibile, così potete capire cosa abbiamo trovato, vomito compreso! Sembra una battuta, ma vi devo dire che dopo ho sempre preferito la pulizia dei gabinetti, che invero erano delle latrine vere e proprie, ma sempre meglio del cinema!

            Poi arrivò il gran giorno della prima uscita; prima di poter varcare la soglia della nostra “prigione” ci era stato preavvertito un severissimo controllo: il vestiario doveva essere perfetto, ovviamente pulito, con le maniche della camicia rigirate eventualmente su se stesse al massimo tre volte, scarpe lucidate a fiato e cappello sulle ventitré – dotazione di documento militare, di pettine e di un metro e mezzo di carta igienica. Istruzioni di salutare militarmente un po’ tutti: ovviamente tutti i superiori di tutte le armi, vigili urbani, poliziotti e carabinieri …dubbi (veri) sui vigili del fuoco.

            Siamo tutti in fila, come nei film, e il tenente di giornata, quello con la fascia azzurra a tracolla, ci passa in rassegna: tu consegnato per scarpe sporche, tu consegnato per pantaloni troppo lunghi, tu consegnato per pantaloni troppo corti, tu consegnato per… insomma una quindicina di camerati furono tenuti in caserma, perché fuori avrebbero fatto sfigurare le Forze Armate …ma chi ci stava a guardare?!

            Tutti fuori dalla gabbia e tutti al ristorante, pardon trattoria, perché in caserma si cenava alle 18 e a quell’età dopo due ore la spia del serbatoio segnava già rosso. Fano poi era piena di caserme, per cui con tutti questi militari in divisa per le strade sembrava fosse purtroppo scoppiata qualche nuova guerra.

            Arrivò anche il giorno della doccia: tutta la mia squadra in fila, ognuno con un grosso asciugamano che ci fu consegnato, invero vecchie consunte lenzuola ch erano state tagliate ad hoc. Si entra sotto la doccia con un colpo di fischietto, quelli vicini alla caldaia con acqua bollente da buttarci i tortellini, quelli lontani invece da bibita appena tolta dal frigorifero, solo cinque o sei di noi al centro con temperatura accettabile; secondo tragico colpo di fischietto senza alcun preavviso, fine dell’erogazione dell’acqua con gente con la testa ancora piena di schiuma …paroloni grossi, ma niente da fare.

            Tutti in ordine sparso sino all’angolo della grande piazza tra le due caserme, poi in fila per due e al via tutti in corsetta ordinata per passare sotto le finestre dell’ufficio del capitano.

            Arrivò anche il giorno della ginnastica: gli avieri di tutte e due le caserme in pantaloncini corti in una fila ordinata di tre o quattro persone tutta lunga quanto il perimetro della grande piazza. Poi ecco che dal megafono esce una voce perentoria, ma non è un superiore che impartisce gli ordini per gli esercizi, bensì un disco per giunta rigato che ogni tanto salta di solco in solco. I caporali esortano con voci stentoree ad eseguire quanto la voce comanda, ma le scene sono veramente al confine con la pietà. Io invece mi impegno al massimo e sento dietro le mie spalle un sergente, forse il mio, che dice: ma guarda quanto salta quello (beata gioventù!). Quasi dimenticavo: tra un ordine e l’altro, gli esercizi erano accompagnati da note di musica classica, non so quale, ma comunque classica.

            Tutti al campo, tutti al campo, dissero quasi eccitati i graduati e lo era anche qualcuno di noi, state a sentire: in tuta tattica (per gioco io e la mia futura moglie Elena ci entrammo dentro insieme!) arrivammo con a tracolla il MAB (mitragliatore automatico Beretta). Oggi tiriamo la bomba, disse eccitato un mio camerata. In effetti vedemmo da lontano un marinaio tirare un oggetto (ma dove le tirano le bombe, in mare?!); seguì un boato terrificante e si formò nella mia mente di combattente un’idea precisa …il quel coso non lo voglio nemmeno sfiorare! Fui tranquillizzato dopo quando vidi la prima bomba a mano tirata da un compagno della mia squadra …fece un paio di giravolte per terra e sbuffò poi un quasi impercettibile puf: era la celebre bomba a mano SRCM per l’addestramento delle truppe, ricordo con spoletta rigorosamente di plastica; faceva più paura un petardo!

            Arrivò il giorno del giuramento alla Patria, ma fui battuto dal mal di gola e con una frebbiciattola guardai, non triste, la cerimonia dalla finestra dell’infermeria. Saltai anche la famosa puntura nel petto e mai più mi cercarono ed io certamente non cercai loro!

            Notizia sconfortante: avevano annullato i campionati italiani d’arma che si dovevano disputare a Taormina; peccato perché saremmo stati istradati subito per la Sicilia.

            Ma ormai il C.A.R: volgeva al termine e con tanto di scarponi in piena estate mi ritrovo con tutto l’equipaggiamento sulla cinquecento di Guido Costamagna, schermitore anche lui, che mi evitò la tradotta per giungere all’aeroporto militare di Vigna di Valle.

           

  

Vigna di Valle

            C’era un grande piazzale sterrato dove noi militari posteggiavamo le nostre macchine e poi con un centinaio di passi arrivavamo alle barriere dell’aeroporto, o meglio aerolago visto che ci atterravano gli idrovolanti! Il cartello recitava “limite invalicabile”, ma la struttura aveva solo un valore storico in quanto ospitava e ospita ancor’oggi il museo storico dell’aria con addirittura un paio di apparecchi guidati da Francesco Baracca, una specie di italico Barone Rosso della prima guerra mondiale.

            

Il servizio di guardia era affidato alla VAM, appunto Vigilanza Aeronautica Militare, e i suoi accoliti erano soprannominati vampiri in quanto, quando noi atleti sportivi uscivamo con i nostri pacchi viveri, ci piombavano sopra come degli Stuka e si comportavano peggio delle cavallette.

            Comunque bellissimo posto, molto verde, palazzine rade e al massimo a due piani, niente cannoni o cose del genere; clima ameno di lago, rari rumori di motore e poca gente in giro.

            Ora siamo tutti schierati su un piazzale proprio prospiciente il lago, saremo una quindicina; ci dà il benvenuto il capitano Serangeli: poche, ma sentite parole che oggi, dopo più di cinquant’anni, stonerebbero un po’, purtroppo è il filosofo del panta rei che frega un po’ tutti e tutto.

            Poi l’ufficiale si fa da parte e cede la parola ad un sergente, tipo Garcia quello dei telefilm di Zorro della nostra gioventù: chi ha la zia a Roma, chiede gridando anche più del dovuto. Cosa fareste voi se vedeste che tutti gli altri, ripeto una quindicina, alzano la mano in segno affermativo?! Io la zia ce l’ho, anzi a dire il vero ne ho due, non abitano a Roma ma Firenze è vicina; questo mi sembra un dettaglio trascurabile per cui alzo anch’io la mano.

            E ho fatto bene perché, l’ho capito dopo, questo sommario censimento aveva la valenza di poter uscire tutti i giorni dalla nostra casa militare e respirare almeno un po’ d’aria civile.

            In effetti noi schermitori avevamo una risicata saletta con appena due pedane su cui poter tirare, uno spogliatoio senza riscaldamento ritenuto forse una debolezza poco spartana e delle docce dove, se invece del lago fossimo stati sul mare, si potevano coltivare le cozze; dimenticavo: c’era una pista circolare di atletica dove qualche volta andavamo a fare qualche corsetta e dove il nostro “capo”, il maestro maresciallo Gianni Augugliaro, talvolta si metteva a raccogliere il radicchio selvatico.

            Gianni, detto affettuosamente Aug, ti ricordo ancora nitidamente: un simpatico romano dalla lingua tagliente come noi fiorentini, minimo esercizio di autorità, alla fine della naia un vero amico che per sfortuna abitava lontano da casa mia. Avevi due bambini che ora sono uomini un po’ attempati ed uno di loro è nostro collega con le armi in pugno sulla pedana; l’ho sentito per telefono e poi ho avuto il piacere di risentire anche la tua voce, constatando piacevolmente che ti ricordavi ancora di me nella moltitudine degli schermitori-avieri che ti sono stati affidati …rieccoci al panta rei!

            Dicevo quindi avieri part-time: ingresso alle sette e trenta della mattina sotto gli occhi assonnati dei surricordati vampiri, un paio di giretti nel nostro stadio personale, divertimento a go-go tirando tra di noi, fortunatamente mai lezione, doccia e poi tutti all’esclusiva mensa sottoufficiali, dove andavamo personalmente a una specie di finestrella a prendere il pasto, ovviamente senza menù.

            Poi libera uscita, ma veramente libera in quanto la famosa “zia” con grande piacere ci dava ospitalità a casa sua.

            Invero inizialmente prendevamo alcune stanze con più letti in una pensioncina, che più pensioncina non si potrebbe, proprio nella via principale di Bracciano, popoloso e bel paesino dotato anche di castello; poi le finanze ci portarono ad affittare nei mesi invernali alcuni appartamenti per turisti ad Anguillara Sabazia, uscendo dal parcheggio sopracitato non a destra, bensì a sinistra in direzione di Roma. Non male rispetto alla maggior parte dei nostri normali commilitoni che invece vivevano da veri reclusi la loro personale Caienna; eravamo indubbiamente sulle spese, ma in genere chi fa scherma appartiene ad un certo genere di famiglia che sicuramente non ha eccessivi problemi economici: grazie babbo, grazie mamma!

            I mesi intanto passavano, quasi due con i giorni già trascorsi al CAR, e cominciarono le gare, il motivo per cui eravamo stati prescelti dalla massa; pensandoci bene, combattere con le armi in pugno per l’onore della nostra Patria  …con la fortuna che le nostre armi erano solo dei giocattoli sportivi!

            Prima trasferta a Sora per una gara a staffetta alle tre armi: sono in squadra con Mario Albanesi sciabolatore e Piacentini fiorettista; ci spostiamo verso il sud del Lazio con un pulmino, invero alquanto scassato e tosseggiante, ma con una grande scritta sulle fiancate: Gruppo Sportivo dell’Aeronautica Militare e ne siamo un po’fieri, soprattutto io che sono di carattere molto retorico o almeno è quello che tuttora mi ripete mia moglie Elena.

            Che strana cosa la mente: è come se fossi ora lì steso in fondo al mezzo, sulle sacche a mo’ di materassino a leggere Il cavaliere inesistente di Italo Calvino …a proposito bel libro. Domanda: ma quando questi superflui files quasi nascosti finiranno nel mio personale cestino?!

            La gara va bene e finiamo secondi dietro la forte squadra di Roma: uno a zero per loro; pazienza.

            Sorpresa inaspettata: il premio accessorio di Aug è una quindicina di giorni a casa, tradotto in linguaggio militare, la prima licenza premio dell’annata.

            Sorgono i miei problemi logistici: in effetti in quegl’anni il mio campo familiare è piantato da mio padre, come avete già letto, a Como, da dove un buon podista si può mettere in testa di andare in una mezza mattinata a piedi in Svizzera per comprare la famosa cioccolata o, se è vizioso, dell’ottimo tabacco.

            Complicazione con la mamma: nella pianura cispadana ancora regna incontrastata per alcuni mesi all’anno la nebbia, quindi pericoloso spostarsi in macchina, quindi intimidazione all’utilizzo del treno.

            Viaggio tipo di ritorno: subito dopo pranzo qualche amico commilitone mi dà un generoso strappo fino a Roma-Termini, prendo al volo un espresso alle 14,30 utilizzando il benefico conforto dello sconto del 50% grazie alle credenziali federali (Freccia Rossa ed Italo non sono ancora stati congetturati) e stasi sino alle 23 circa quando si dovrebbe arrivare alla stazione di San Giovanni di Como; unità di misura temporale una settimana enigmistica tutta letta e con i giochi più facili tutti fatti; mio padre viene a prendermi in macchina. Baci della mamma dopo che sono arrivato nella mia casa dolce casa, un’intera scatola di biscotti Digestiv inzuppati nella tazza del caffellatte e a letto nel tuo letto.

            Il viaggio di andata era un po’ più fantozziano: innanzitutto un po’ di tristezza nel cuore, poi partenza con le tenebre alle 21 circa dalla stazione di Como con un treno che proveniva dalla Svizzera, arrivo alla Centrale di Milano sul binario accanto al treno con cuccette che partiva dopo circa venti minuti per il sud, quindi una certa apprensione, comunque sempre dimostratasi per nulla. Presa di possesso del posto letto condividendo la notte con altri tre passeggeri visto che viaggiavo in prima classe. Quasi subito precipitato nelle braccia di Morfeo grazie al dolce cullio dei vagoni, ma col terrore di non svegliarsi in tempo la mattina alle cinque ad Orte; quindi sveglia con carica manuale infilata in una scarpa per attutire il ticchettio; un saluto al gallo mentre salivo su un accelerato alla volta della stazione in pratica inesistente di Bracciano-Vigna di Valle; tra l’altro treno magico, da trasformisti teatrali: entravano nella ritirata, il bagno delle vetture, tanti giovani vestiti con jeans e maglione e ne uscivano subito dopo avieri e soldati delle più disparate armi; in effetti all’epoca, senti senti, i militari non potevano mai dismettere la divisa …anche in bagno dovevano andare con le mutande tattiche; passeggiatina tra i campi e le numerose pecore presenti ed eccoci a salutare militarmente i nostri cugini vampiri alla barriera dell’aeroporto.

            Intanto qualche pomeriggio scendevamo a Roma, passando per la Favorita; nostra meta preferita era la fontana di Trevi, dove gustavamo un ottimo caffè e respiravamo l’aria della Capitale.

            Un volta goliardicamente ci avventurammo nel luna park stanziale e ci venne la brutta idea di andare sulle montagne russe; quando il bussolotto dove eravamo saliti cominciò arrancando a salire vedemmo da dove saremmo poi discesi grazie alla gravità; fu allora che Mal espresse il suo prudente giudizio: ma chi è il coglione che ha costruito questa cazzata! Per due volte la discesa fu proprio dura, tanto che …”nel cor mi rinnova la paura”, dice il mio concittadino Dante.

            E comincio a compilare la famosa stecca, ovvero il personale calendario di ogni buon soldato che si rispetti; sono un collezionista di francobolli, preciso quasi in modo maniacale e poi tutti dicono che in questo modo il tempo passa più in fretta.            Mentre sto scrivendo ce l’ho sotto gli occhi alquanto ingiallito e vi fornisco qualche dato statistico dell’anno del mio servizio militare: 33 giorni al CAR – 103 a Vigna di Valle – 23 in gara  –  26 fuori a vario titolo – 221 a casa.

 

 

Direi non male, visto soprattutto il fatto che nel frattempo ho anche dato un paio di esami all’università; in fondo mi sono anche divertito a giocare al professionista sportivo, ma poi sono tornato alla scherma dilettantistica, che mio padre sottolineava spesso essere solo un piacevole intrattenimento della mia vita.       

            Poi c’è stato l’incontro con la donna della mia vita, Elena dai begl’occhi verdi, che mi ha dato veramente tanto nella vita, anche la possibilità di scriverle alcune lettere dal fronte  …sportivo fortunatamente. Ma sei sempre qui a casa, mi dice: certo, rispondo, per stare con te; poi non lo fo sapere, ma sono un pacifista!

            Seconda gara della stagione: La coppa città di Grosseto, indetta dal Comando militare che in questa zona è molto attivo. Una competizione a livello nazionale, un po’ disertata dai migliori, ma pur sempre nutrita e agguerrita.

 

 

Tre o quattro picchiate e un paio di cabrate d’ala e vinco io: coppa per il vincitore sorretta da un’ala d’aquila su base di alabastro, una sciccheria in tema …entrando nel mio studio-bacheca tutti guardano per prima quella tra i miei trofei; comunque gradito premio annesso di una ventina di giorni da passare a casa. 

            Poi un periodo di stasi agonistica, furbescamente aggirato dalle convocazioni arbitrali della Federazione che mi arrivavano e quindi andavo in giro per l’Italia.

                        Partiamo per Catania perché c’è il Mannino gara internazionale di spada; Catania che nel cor mi sta, visto che lì ho passato otto anni della mia infanzia: gente calorosa, bellissimo mare, lava e terremoti un giorno sì e uno no, dolci da sballo e caldo da forno.

            Come quasi sempre comincio bene la gara, passo alcuni turni eliminatori, ma poi mi impantano ai quarti di finale in un gironcino niente male; ma non mi preoccupo eccessivamente …torno a casa con una bella coppa, perché i siciliani sono veramente generosi anche nelle premiazioni.

            Comunque porto ancora oggi con me una divertente storiella che subito vi giro: in gara eravamo io e Fabrizio Mercantini, il lucchese; il mio amico d’infanzia catanese tale Toti Scalia mi invita a cena, ma dirimo l’invito appunto perché non posso lasciare solo il compagno d’armi. “Allora tu mi vuoi offendere”, dice quasi irritato Toti: “gli amici dei miei amici sono amici miei!” Veramente lo diceva già Angelo Lombardi alla televisione quando ero piccolo e si riferiva agli animali! Comunque questa è la Magna Grecia e l’ospitalità è sacra a Zeus.

            Quindi abbracciati anche da sconosciuti, tavola imbandita come se fosse festa e risate di tutto cuore. Toti a mezza cena mi dice: “Ma il tuo amico sa che questi sono vini dell’Etna che tagliano le gambe?!” “Sentito, Fabrizio, per favore moderati” …per tornare in albergo dovemmo chiamare un taxi e portarlo in due sottobraccio …altro che Chianti Gallo nero!

            E il tempo passa ed ecco le gare a squadre che mi sono sempre tanto piaciute: dei tanti colori sociali delle sale che ho frequentato alla fine della mia carriera agonistica ho fatto un bell’arcobaleno; lasciando i nostri club e tirando durante la leva per l’azzurro dell’Aeronautica militare, ci sentivamo un po’ dei mercenari, ma la grande mamma azzurra, alla fine dei conti, è stata veramente con noi molto generosa: ha trasformato un anno che in genere i giovani perdevano in un anno di divertimento soffuso di un po’ di gloria sportiva.

            Iniziano a Milano le importanti De Martino, in nome del defunto giornalista; si comincia con il fioretto, andiamo speditamente avanti, ma poi accade qualcosa di non molto piacevole durante l’eliminazione diretta dei quarti di finale; non faccio nomi perché non è bello, ma l’episodio non posso tacerlo: uno di noi incontra il suo club e, invece di profondere comunque tutti i suoi sforzi sportivamente, si fa infilzare da tutti e tre i nostri avversari come un povero e stupido tordo. Lo soprannominammo Graiano d’Asti, cioè con il nome dispregiativo del traditore italiano che nella disfida di Barletta era schierato con i francesi; se in squadra avessimo avuto Ettore Fieramosca lo avrebbe senz’altro trattato peggio e, in fin dei conti, ne ho parlato anche troppo!

            Ma Aug, lo sapeva, eravamo più forti nella specialità della spada: esordio al palazzetto di piazza Stuparich, gara con tantissime squadre e quindi lunga lunga. Siamo ai quarti di finale contro la Società del Giardino e sono le ore 22; Agatha Christie ha organizzato tutto: all’ultimo assalto Guido Bezzola è sul quattro pari con Carlo Romanelli, mancino lungo come la fame, chi tocca vince e fa passare la sua squadra (non c’era ancora la formula a staffetta); io e Guido Costamagna chiudiamo gli occhi e li riapriamo quando sentiamo lo sleng della macchinetta segna stoccate …siamo in semifinale!

            L’appuntamento è per la mattina seguente alla sala Verratti nei pressi della Stazione Centrale: ora tocca a noi e la Mangiarotti; tutti e tre siamo ex-di questo club, ma, a differenza del traditore di qualche riga sopra, profondiamo tutte le nostre energie e lo scontro è alquanto ruvido: ad un certo punto, ovviamente del tutto involontariamente, rinvengo sulla mia punta un pezzettino della pelle con peli della povera gamba di Stefano Bellone …grosse scuse, un abbraccio e amici come prima. Arriviamo abbastanza agevolmente alle cinque vittorie su nove assalti e quindi la matematica ci dà ragione: siamo nella finalissima.

            C’è una pausa per il pranzo e quindi andiamo in una pasticceria vicina dove ci buttiamo su fette di torta e gelati vari  …in effetti gli zuccheri vanno repentinamente in circolo!

            Intanto sentiamo e risentiamo sul mio mangianastri una musicassetta che avevo inciso per l’occasione: Oh happy day …e la scelta si dimostrò, come vedremo tra breve, di buon auspicio.

            Ed eccoci: o noi o la compagine dei Carabinieri, quindi una sfida tra forza armate; loro sono fortissimi sulla carta in quanto sono tutti e tre azzurri, mentre tra di noi solo io sono loro compagno di Nazionale.

            Il punteggio è come un tandem e arriviamo ai due ultimi assalti in vantaggio quattro a tre, quasi un miracolo, che, se ci fosse ancora bisogno, conferma che nelle prestazioni di squadra conta più la coesione tra i componenti che la loro quotazione alla borsa sportiva.

            Il filo della vittoria è lì e protendo il mio petto per tagliarlo: sono in pedana con l’amico Gianfranco Mochi: ricordo perfettamente, mancano pochi secondi al termine dell’assalto e sono indietro di una stoccata; naturalmente lo incalzo con veemenza e lui del tutto volontariamente esce di lato alla pedana per guadagnare due millisecondi per il conseguente alt e la rimessa in guardia; da fiorentino commento burlescamente la cosa e, nientepopodimenoché, interviene dal pubblico sua madre a tutelarne con nessuna speranza il poco sportivo comportamento; rispondo citando Hegel e il suo famoso salto qualitativo (ero già così come sono ora e forse lo sono sempre stato sin dalla nascita!); giusta ammonizione, rimessa in guardia e così ragionai: ora devo buttarmi in avanti come un pazzo, lui sa che spesso faccio un controtempo raccogliendo  poi in quarta per cui devo cambiare la presa di ferro sull’uscita in tempo che vado ad indurre; lo rivedo come al rallentatore, vado avanti, lui mi viene incontro e cava, ma io avevo cogitato di prendere il ferro non in quarta ma in prima, sento la resistenza del suo ferro, faccio il relativo filo e, gioia, sento in contemporanea l’impatto della mia punta sul suo bersaglio e il ding della macchinetta segnapunti. E’ parità, non c’è più tempo di rimetterci in guardia, quindi sconfitta comune, ma importantissima, perché così vinceremo l’incontro.

            Infatti, Guido Bezzola, vero ragioniere sportivo fa i suoi calcoli: gli basta mettere due colpi, due soli colpi, e anche se dovesse perdere l’incontro vinciamo per differenza di stoccate.

            Il cuore pulsa un po’ di più e giro lo sguardo: Aug è su una cyclette della sala e per vincere l’emozione dell’istante legge, la Gazzetta dello sport che si porta sempre dietro; solo che mi accorgo che  ….il giornale è al contrario!

            Guido è un freddo, ecco perché è stato messo per precauzione a disputare eventualmente l’ultimo decisivo assalto; tra l’altro è un cosiddetto spadista puro dell’epoca, che quindi disdegna l’attacco e aspetta invece l’avversario in controffesa; la sabbia della clessidra, come accade in questi frangenti, sembra che si sia incastrata, poi Marcello Bertinetti parte in attacco e si becca un bell’arresto  ..basta ancora una stoccata …e poco dopo arriva un benedetto colpo doppio, che quindi depotenzia l’esito finale del match, che in effetti viene vinto inutilmente dai Carruba.

 

 

Vittoria e che vittoria: in quegl’anni la Federazione non organizzava ancora i Campionati nazionali a squadre e quindi, de facto, eravamo campioni nazionali per club, dimostrando tra l’altro che ancora una volta Davide può battere Golia!

            Pazza gioia e un mese di licenza! Ma poi, un colpo di scena: Aug ci telefona che i suoi superiori esigono una foto della nostra grande squadra, evidentemente da ostentare in una rivista militare.

            Orrore! Io e Guido Bezzola avremmo dovuto prendere il treno per Roma (Guido Costamagna invece per sua fortuna stava già nella Capitale) sentire un click di una macchina fotografica e ripartire subito dopo per tornare a casa: una quindicina abbondante di ore di treno!

            Sudori freddi anche se era ancora inverno; ma la mia mente era già fervida e mi misi subito all’opera.

            Ricostruzione di un impresa in un’era senza clic del mouse e senza Adobe Photoshop, cellulari e diabolici computer: telefono a Maurizio, mio futuro cognato, che ci aveva accompagnato da fotografo alla gara di Milano – rinviene tra i suoi scatti una bella foto di tutta la squadra – la stampa e la vado a prendere a Cernobbio – imbustata la porto a Guido il lombardo a Saronno, giusto a metà strada tra Como e Milano – lui corre alla Stazione Centrale, va al primo treno per Roma e contratta col macchinista per 10.000 lire dell’epoca, novello Michele Strogoff, la consegna alla stazione di Roma Termini e un graduato dell’Aeronautica, anche senza parola d’ordine, ritira il preziosissimo carico e lo consegna a chi di dovere.

 

da sinistra: maestro Gianni Augugliaro, Stefano Gardenti, Guido Costamagna, Guido Bezzola, Carlo Piacentini

 

Conclusione: io e Guido ci godiamo da stanziali lepri la nostra strameritata licenza premio, alla quale si aggiunge l’onorificenza del Distintivo Militare dello Sport e per me un bonus molto intimo: la bella Elena aveva assistito a tutta la gara e con molta probabilità aveva aggiunto una tessera del mosaico che ci avrebbe visto condividere la vita.

            Era marzo e quindi se n’erano già andati due terzi della celebre naia; intanto le nebbie della pianura padana si andavano diradando e quindi con il pass della mamma potevo usare la macchina; ma cosa dico macchina! La mini cooper 1300, un gioiellino da figlio di papà, soprannominata mangia e bevi in relazione ai consumi medi di olio e benzina.

            All’andata preferivo tagliar giù l’Italia con l’autostrada A1, una cinquecentina di chilometri: arrivato all’altezza di Firenze, alzavo la mano in segno di saluto a tutti i miei parenti e alla città dove avrei un giorno finalmente trascorso la maggior parte della mia vita con la mia Elena a combattere tra l’aspirazione della lettera C e l’accento difforme della E; poi, arrivato al casello di Magliano Sabina, uscivo e mi indirizzavo verso Civita Castellana, pochi altri chilometri ed arrivavo  sulla sponda nord del lago di Bracciano e finalmente ero a casa, pardon in caserma!

            Il ritorno invece preferivo farlo, pur allungando il tragitto di una cinquantina di chilometri, lungomare: quindi Cerveteri, Civitavecchia, e sù sù; finalmente la Toscana che nel cor mi sta, prima con il promontorio dell’Argentario, poi con le pinete di Castiglion della Pescaia, i cipressi di Bolgheri che è proprio vero vanno in duplice filar come dice il Carducci; poi La Spezia, un pezzetto del golfo del Tigullio e, arrivato a Genova, a destra, un po’ di montagna e poi ecco la pianura padana, il formicaio della tangenziale di Milano ed infine il bel lago con la mia bella dai verdi occhi.

            Visti gli allori, ecco la pronta proposta di carriera sportiva: Aug mi propone per il grado di Primo aviere, anticamera di Aviere scelto; “bello”, dico, “ma cosa comporta?”; “nulla, circa una volta al mese devi essere presente  in aeroporto per incombenze di servizio”. Scommetto che avete già intuito la mia risposta! Resto aviere semplice che più semplice non si può.

            Eccoci all’appuntamento fisso degli universitari: un’altra buona scusa per “andare in fuga”, tanto più che devo difendere il titolo di spada che avevo conquistato l’anno precedente a Viareggio. Sono a Jesi, luogo natio di quel Federico II di Svevia che sarebbe poi diventato una delle simpatie storiche della mia tarda età. Salgo in pedana da favorito ma non carburo a dovere ed esco subito di scena; pazienza vado a casa per una settimana a rifocillare corpo e mente  ed anche il cuore con Elena …”ma sei sempre qui! Che servizio militare fai?! Potenza della scherma!

            Arriva una grande notizia: nell’anno ci sarebbe stata una gara di spada a squadre per laureare i campioni delle forze Nato, tutto questo a Città del Lussemburgo, la nazione dei film con le principesse.

            La squadra azzurra militare viene scelta da Salomone in persona: due dell’Aeronautica quali vincitori della De Martino e due dei Carabinieri giunti secondi; capo delegazione il capitano Plebani dagli spioventi baffi ottocenteschi e maestro accompagnatore Gianni Augugliaro, romano de Roma.

            Per il nostro particolare status di militari ci consegnano un passaporto blu, non verde come quello dei comuni mortali! Tuta azzurra con scritta ITALIA e stella in bianco, sempre per il nostro status.

            Partiamo in treno per l’alta Europa, viaggio fortunatamente notturno fruendo di cuccette, come appunto si conviene per dei militari.

            Arriviamo quindi nell’asettica Città di Lussemburgo; anche se avevamo poco più di vent’anni percepiamo un altro mondo: tutto estremamente tranquillo, traffico per le strade scarso e disciplinatissimo senza alcun uso del clacson, poca gente per le strade, nessuna facciata da rifare con le classiche impalcature, erba bassa in ogni giardino e aiuola; domanda: ma i rifiuti dove li mettono?!

            La sera antecedente la gara ci ritroviamo in palestra con alcuni avversari del giorno dopo: un’occhiata, un pallone e quindi una doverosa sfida; vinciamo a mani basse e qualcuno comincia  a parlare di cabala.

            Mai fatta una gara così regolare: vincevamo sempre e sempre con grande sicurezza; personalmente ero in giornata di grazia e mi riusciva tutto quello che cogitavo, così, da vero estroverso istrione, sono riuscito anche a fare spettacolo e alla fine ho avuto la soddisfazione che un paio di inglesi ed un tedesco sono venuti a chiedermi di ragguagliarli su alcuni colpi che avevo tirato: nient’altro che una ceduta di prima sul loro filo di terza ed un’inquartata saltata in avanti.

            Poi chiesi spiegazioni di chi urlava spesso “forza Stefano” dagli spalti; per l’amor di Dio mi rispose il capitano Plebani …è l’Addetto Militare Italiano qui a Città del Lussemburgo; mi irrigidii in un plateale saluto militare mano alla visiera che non avevo!

            Primi, primi: anche qui abbiamo vinto e, ora che sto scrivendo, mi basta chiudere gli occhi e rivivo la scena: consegna come premio di una specie di misericordia con fodero tanto per restare in tema militare e tutti in fila ad ascoltare il nostro inno, ma con la particolarità che ad ogni giro del disco la puntina saltava e quindi ci perdevamo qualche nota per la strada.

            Pregustavamo un po’ di innocente baldoria post gara, quando fummo fulminati da una notizia: la nostra delegazione era stata invitata a cena nientepopodimenoché dall’ambasciatore italiano  in persona.

            Ci mettemmo quindi eleganti: giacca blu, con sportivissimi jeans, mentre la cravatta era …non pervenuta!

            Il capo delegazione, Capitano Plebani, sembrava uscito da una stampa, quindi era di giacca dotato, ma il maestro Augugliaro riuscì solo a racimolare, oltre ai jeans di prammatica, una maglietta verde con su una scritta di un’improbabile università e, ahimé, zoccole bianche quasi da infermiere ai piedi.

            Suonammo e la porta si aprì: ci accolse un cameriere in giacca verde e guanti bianchi, parlò in spagnolo, ma capimmo benissimo di essere in ritardo e ci accompagnò subito a tavola; grandi sorrisi dell’ambasciatore che si dichiarò compiaciuto della nostra vittoria …a noi sarebbe bastato anche un “bravi”.

            Tra una forchettata e l’altra cominciò il soliloquio del diplomatico: frasi in latino, greco, inglese e altre lingue, una specie di torre di Babele. Noi, tutti universitari freschi freschi, ovviamente muti come pesci per paura di cadere in qualche irrimediabile gaffe storica, filosofica o letteraria …però ascoltavamo con grande attenzione con occhi di civetta.

            Il capitano Plebani dai grandi baffi risorgimentali, messo alle strette come capo delegazione, sentì il dovere assoluto di pronunciare un paio di parole e fu la sua rovina: “Sì, lo dice anche San Tommaso”; l’ambasciatore para e risponde in pieno petto: “Capitano, fra il suo Tommaso ed il mio passano circa mille e duecento anni, quindi lasci pure stare” …il capitano perse peggio che cinque a zero!

            Poi fu la volta del maestro Augugliaro: tra una boccata e l’altra di un sigaro tipo Al Capone, l’ambasciatore, che non aveva gradito la mise del nostro maestro, probabilmente soprattutto le zoccole, tirò un’efficace botta dritta: ”Lei, mi raccomando, rilegga Bacone”. Aug sorrise, ma molto amaramente. Noi giovani sempre vigliaccamente muti come pesci.

            La figura peggiore la facemmo quindi noi schermitori della squadra con il nostro rumoroso silenzio: eppure nel 1968 avevamo assaggiato per le strade la contestazione giovanile e quell’occasione purtroppo ce la siamo lasciata sfuggire.

            Ma ora c’è un’appendice alla trasferta: siamo a qualche tiro d’arco dal Belgio dove abita la famiglia di Guido …e allora noi avieri ed Aug tutti invitati a Bruxelles.

            Visita di prammatica all’Atomium, monumentone con nove sfere residuo storico dell’Esposizione Universale del 1958 …e non ricordo altro.

            Giro ai centri commerciali che da noi ancora non avevano preso piede e acquisti vari: io due porcellini – salvadanaio, uno per la mia Elena e l’altro per mia sorella Erica; ma errore clamoroso di Aug, che comprando un flauto dolce, a Roma più noto come ciufolo, si accorse dopo di una clamorosa etichetta: made in Italy! Risate sane e tanto buonumore.

            Ripartenza in treno, ma questa volta viaggio diurno, viaggio eterno: partiamo la mattina e arriviamo alla stazione di Como, dove io scendo verso le 22 di sera; ora tocca ad Aug viaggiare! E’ come se lo vedessi ora: il treno parte, lo saluto affettuosamente e lui al finestrino sibila con il suo ciufolo italico.

            Gianni, sono passati tanti anni, ma vedi che ricordo tutto ancora abbastanza bene; soprattutto non ho scordato te, che rappresentavi per noi l’Autorità con la A maiuscola …io ti affiderei il governo del Paese! Compagnone, ma con una sottilissima barriera, quella che distingue il potere fine a se stesso e l’autorevolezza.

            E poi si scherzava sempre e tu, con il senso di gruppo che ci hai dato, hai tirato fuori da noi tutto quello che potevamo dare …e lo abbiamo fatto bene, per noi, ma anche un po’ per te e, ovviamente, per la grande mamma azzurra.

            Ti ricordo spiritoso commensale a casa dei miei a Como in occasione del Gran Premio Giovani e in quel bel ristorante sulle rive del lago: siamo stati bene.

            E per poco mi perdevo tutto questo: gli schermitori a quell’epoca avevano due scelte: l’Aeronautica o i Carabinieri. Io conoscevo entrambi e loro conoscevano me: appunto Augugliaro e Carmine Autullo di Vigna di Valle e il duo Bonato – La Feltra dei Carruba.

            Come vi ho già narrato incontrai il colonnello Picchiottini, il Comandante responsabile del centro sportivo, ad una gara e mi disse testualmente: “Gardenti si affretti perché altrimenti il suo treno partirà!”.

            Ebbene io ho scelto: non il treno, ma il caccia – bombardiere della grande mamma azzurra.    Altro mese e mezzo di licenza premio e sotto con gli esami di Giurisprudenza, perché la vita, quella autonoma da maggiorenne, si stava avvicinando a larghe falcate.     

            Lucca, c’è una gara a squadre a Lucca; una di quelle che preferisco: a staffetta alle tre armi.

            Qui abita il commilitone Fabrizio Mercantini, l’ubriacone di Catania, e, da toscano, mi ospita direttamente a casa sua.

            Vedo finalmente Lucca in quanto da schermitore errante poco conosco della mia terra natale: belle ed ampie mura, discreto centro storico e soprattutto un ideale bacio ad Ilaria del Carretto, perché pur da giovane fui colpito dallo struggente contrasto tra la bellezza del soggetto e lo stato di morte.

            Ma i cavalieri combattono ed eccoci, io – Vincenzo Malatino e Mario Albanesi, sulla pedana: batti questo, batti quello, batti quell’altro, ma perdiamo l’ultimo assalto e ci dobbiamo accontentare del secondo posto …ma dai, altri quindici giorni di licenza a casa; non male.

            Sento la salsedine, si avvicina la coppa Cesare Pompilio che si disputa a Genova; ho abitato un paio di anni in questa città, quasi appena il tempo di ricordarsi come tornare a casa. Ho qui tanti amici e quindi sono felice di incontrarli …anche sulle pedane!

            Tutti ci guardano, ci credo abbiamo vinto la De Martino qualche mese addietro; passiamo agilmente i primi turni e affrontiamo l’eliminazione diretta; gara dura perché è diventata internazionale con qualche buona squadra francese, tedesca e svizzera. Andiamo avanti, siamo in semifinale, cioè tra le prime otto …e ci restiamo; in effetti tutte le gare, come le famose ciambelle, non vengono con …la finale! Pazienza, siamo sportivi, eppoi anche i Rockes cantano “non sempre si può vincere, bisogna saper perdere” …e noi impariamo, impariamo!

            Le giornate intanto si allungano e fa buio sempre più tardi, i mesi passano, anzi sono passati.

            Arriva anche il giorno della sfida atletica tra me ed Aug; in effetti quando eravamo a Vigna di Valle quasi sempre andavamo a fare qualche giro di corsa sulla pista di atletica che era vicina alla nostra sala di scherma.

            Innestata chissà da quale burla, eccoci all’acqua come diciamo qui a Firenze: in stile pistard Aug scatta da una parte ed io esattamente da quella opposta, in palio una cena per tutti. Io ho ventidue anni, lui circa una decina di più e quindi sono il favorito; sì sulla carta e non sulla pista. Dopo qualche giro, spossato mi devo fermare, mentre lui continua come una locomotiva: perso la cena e …la faccia di atleta!

            Giugno, tutti a Napoli, almeno quelli ammessi: ci sono i campionati nazionali assoluti, ma si riavvolge il nastro e risento i Rockes! Dai, pazienza, sai quante gare ci sono il prossimo anno?!

            A quell’epoca era ancora bello: non avrei mai pensato che anche per me ci sarebbe stata l’ultima gara! Ci sentivamo eternamente giovani …poi si capisce che non è vero quando ormai non c’è più niente da fare.

            Nota di colore: io e Vincenzo, il buon Mal, abbiamo alloggiato all’aeroporto di Capodichino; una bella stanzetta a due letti con tanto di bagno in camera, che per quei tempi era un vero lusso. In effetti quando rientriamo per fare i bagagli e tornare a casa troviamo un biglietto attaccato alla porta: i marescialli Gardenti e Malatino sono pregati di lasciare libera la stanza. Siccome non potevamo aver fatto carriera militare così alla svelta, presupponemmo un falso storico perpetrato da Aug per farci alloggiare in modo decoroso …l’importante comunque fu che non ci scambiassero per delle spie dell’est!

            A luglio non licenze, ma ferie vere e proprie: l’anno agonistico era già finito ed anche a Vigna di Valle non c’era quasi più nessuno, tranne gli eterni vampiri della V.A.M. e qualche sventurato che “copriva” molti altri “in fuga”; del resto come nei film di guerra, quando gli assediati per ingannare gli assedianti mettono fucili e cappelli sugli spalti invece vuoti.

            Ma come fa il tempo a passare se, ora che scrivo questa mia storia, vi assicuro che io sono ancora là, schierato con alle spalle il lago di Bracciano e con il comandante Serangeli; odo le sue parole, ma mi arrivano solo dei suoni inconfusi, che ora riesco a capire in quanto parla direttamente con me: “Gardenti, per lei è finita e da un lago torna ad un altro lago per cominciare la sua vita”. Ma allora mi conosceva e conosceva la mia storia e dire che non mi ha mai rivolto prima la parola!

            Ingoio nervosamente perché capisco di star vivendo un istante importante; ma non perché finalmente la naia è finita e finiti sono i lunghi viaggi dal confine nei pressi degli Helveti, come li chiamava Giulio Cesare, alla capitale appunto dei Cesari. Questo militesente era uno spartiacque esistenziale sempre più vicino: basta studi e balocchi sotto la tutela dei genitori, presto avrei dovuto cavarmela da solo, beh non proprio da solo perché avevo sempre Elena per la mente …almeno saremmo stati in due!

            Passo per l’ultima volta la sbarra di Vigna di Valle, regalo un sorriso liberatorio ai vampiri di turno e non mi giro indietro, perché so che ad Euridice e a Sara non ha portato certo fortuna.

            Salgo sulla BMV di mio padre ancora vestito da aviere, sollevo un po’ di polvere e via velocemente verso Firenze dove la mia famiglia mi aspetta per le ferie di mio padre.

            Ora è davvero finita la mia avventura militaresca.

           

            

Commiato

 

   

                           

Rieccoci: quello in alto a sinistra con i baffi sono io – alla mia sinistra c’è Nardi di Grosseto – a seguire Guido Bezzola con il quale ho condiviso anche gli anni felici del Centro Addestramento Scherma di via Cerva a Milano nei pressi di San Babila, spadista puro con la francese per allungare ancor più il suo già lungo braccio armato, compagno della vittoria nel trofeo De Martino, mi prestasti una tua camicia bianca e un paio di jeans a Bracciano per la mia prima uscita furtiva in abiti civili –  dopo ecco Guido Costamagna, anche lui compagno a Milano alla sala Mangiarotti e componente della nostra squadra vittoriosa al campionato europeo delle Forze Armate –  chiude la fila in alto Mario Albanesi, napoletano doc, simpatico e di compagnia –  il primo accosciato a sinistra è il grande Vincenzo Malatino anche lui di Grosseto, in arte Mal, grande e pulito fiorettista in linea come usava ai nostri tempi, simpatico a bestia e dal fisico possente, ora è un allenatore di palla a mano di fama mondiale  –  nel mezzo c’è Ranotti di Torino, sciabolatore molto riservato  –  infine Bellagamba di Rimini, spadista in linea anche lui non troppo esuberante.

            Che dirvi, grazie della compagnia in un crocevia della mia vita giovanile e grazie soprattutto alla scherma che mi ha procurato questo magnifico modo di edulcorare la cosiddetta naia, vero spauracchio delle giovani generazioni.

 

 

Ps:   …la bustina non l’ho certo buttata via! …solo che i miei cinque nipotini …ridono!

 

 

Questo è stato il mio distintivo, che portavo con orgoglio appuntato sulle camice blu, blu come il cielo

 

 

 

E questa, ve la presento, è la famosa Elena di cui vi ho parlato e con la quale ho condiviso la vita, tre figli compresi …altro che vittoria nella De Martino!