Traduzione di 60 anni di mondo scherma


     

 

Introduzione

 

            Panta rei, tutto scorre, andava dicendo il filosofo Eraclito di Efeso ed in effetti così è stato anche per me, nella fattispecie per lo Stefano schermitore.

            Sessant’anni di storia sono una bella porzione temporale e, come si dice,  ne ho viste delle belle: l’estetica della moda, i cambiamenti di costume e non solo quelli balneari, i partiti politici, la Società civile in genere e tanto altro.

            Ma il tema che con voi mi son dato è intitolato ad un preciso e limitato settore, il mondo della Scherma; peccato che, essendo quest’ultima un vero e proprio universo, il campo narrativo sia alquanto vasto, forse sconfinato.

            Ma non mi voglio subito arrendere e, sacca delle armi idealmente in spalla, inizio con voi il mio lungo cammino, almeno sono in buona compagnia.

            In effetti nel mio tanto scrivere ho già affrontato temi in tonalità amarcord: La Scherma ai miei tempi, Racconti di scherma e Aneddoti di scherma sono già affidati ai rispettivi files del mio computer e, suo tramite, al sito passionescherma.it, ma anche molto prudentemente salvati sulla più fedele e duratura carta; tuttavia la prospettiva, direi lo stile, con cui ho affrontato questi temi è alquanto goliardica e soprattutto connessa alle mie esperienze personali.

            Qui invece vorrei impostare il racconto almeno in giacca e cravatta, se non proprio in doppio petto; quindi maggiore serietà di intenti, documentazione, più ordine espositivo e desiderio di offrire, a chi interessa, appunto quel Panta rei di cui poco sopra; comunque, da fiorentino, con molta probabilità non riuscirò a soffocare il mio sarcasmo.

            Quindi il menù contempla in forma di cocktail: ambiente – equipaggiamento – vita di sala – maestri – competizioni – trasferte – classifiche federali – arbitraggio – premi alle gare e tutto ciò che gravita nell’universo scherma, comete e meteore comprese.

            Tutto ciò premesso, come da uso inveterato: Pronti? A noi.

                                                                                                                      Stefano Gardenti

 

a Firenze nell’aprile del 2024

 

 

Lo sport e la Scherma

            Affidiamoci in partenza ad una visione che prevarichi la nostra disciplina e abbracciamo una categoria aristotelica di più ampio respiro: lo Sport in Italia.

            La seconda guerra mondiale era finita da un pezzo, ma i suoi effetti nella vita quotidiana della maggior parte degli italiani si vedevano ancora; peraltro tra poco si sarebbe dischiusa una nuova positiva era, celebrata col nome Boom: gli elettrodomestici, così cari all’epoca alle donne, cominciavano a far capolino nelle case, la seicento Fiat se la potevano permettere in tanti e le enciclopedie potevano essere comprate a rate.

            Così anche nello Sport: oltre alla trinità Calcio, Ciclismo e Box, cominciavano a rivelarsi altre gerarchie sportive come la pallacanestro, il tennis, la pallavolo soprattutto a scuola e, udite udite, anche la Scherma.

            A Roma c’erano stati i Giochi Olimpici nel 1960 ed i nomi di Mangiarotti, di Delfino e di altri abili schermitori cominciavano ad essere di una certa notorietà, quadriennale, ma pur sempre notorietà.

            Era necessario vincere preconcetti e retaggi non più attuali: la scherma la possono fare tutti (leggasi più persone di prima) e non solo gli aristocratici e gli abbastanza ricchi.

            La nostra Federazione nazionale, guidata per vari mandati dall’Ingegner Renzo Nostini, inizia un poderoso lavoro di propaganda, lanciando la scherma anche per i ragazzi; in effetti viene creato dal nulla il Gran Premio Giovanissimi, dove vengono messi in palio i titoli di Campione Italiano per le categorie delle “bambine” ed i maschietti” (9-10 anni), per i “giovanissimi”(11-12 anni) e per gli “allievi” (13-14 anni).

            Le scuole assurgono a riserve di caccia ed il numero dei tesserati aumenta con progressione geometrica di anno in anno. I partecipanti alle gare, dagli iniziali cosiddetti quattro gatti, si moltiplicano a dismisura sino ad arrivare addirittura alle coorti ed in effetti le competizioni si tengono in quegl’anni a Roma all’ombra del Colosseo!

            Sotto questa spinta dell’allargamento della base già dai primi anni della serie 70 cominciano ad affermarsi nuovamente, dopo un periodo digiuno di glorie, i primi Campioni nostrani: è lo sciabolatore Michele Maffei che rompe il ghiaccio e conquista il Campionato del mondo assoluto di sciabola; dietro questo apripista seguiranno decine e decine di titoli olimpici e iridati.

            La visibilità della scherma di conseguenza cresce sia sui quotidiani che sui rotocalchi, ma è la televisione che la sdogana per il grandissimo pubblico: quasi tutta la popolazione italiana è letteralmente attaccata allo schermo, chi con il Rischiatutto di Mike Bongiorno, chi con il film del lunedì, chi appunto con la Domenica sportiva di Enzo Tortora.

            In parallelo anche lo Sport in generale fiorisce; Rai uno trasmette di tutto: calcio (naturalmente), finale di tennis di Wimbledon, le discese prima di Thoeni e poi di Pierino Gros, i match di pugilato di Nino Benvenuti, giro d’Italia in bicicletta; quindi anche la Scherma, per merito di tutti i grandi campioni che spuntano come funghi in tutte le specialità, si accoda.

            Poi il denaro s’infiltra sempre più nelle manifestazioni sportive, in quanto gli affaristi vedono il facile business: la Rai non trasmette quasi più nulla e per poter vedere qualcosa ecco ai giorni d’oggi Sky, seguito solertemente da Dazn, Now-tv e company. Cresce lo sport guardato, purtroppo a detrimento di quello praticato, con il tristissimo fenomeno che molti ragazzini si accostano alle attività sportive, ma poi dopo qualche anno prematuramente smettono.        Ora paghi e lo sport lo fanno gli altri per te, con il più elementare e truffaldino transfert psicologico: tu sei il campione e non loro!

            E non ci sono limiti di nessuna sorta: Hamilton alla Ferrari, Ronaldo e altri calciatori e allenatori tutti nei ricchi paesi arabi, persino giocatori di Golf sottoscrivono contratti multimilionari; sembra che pochi si scandalizzino, sono più quelli che dicono “beati loro!”       

            La scherma, sport senza un numeroso pubblico e quindi non troppo appetibile per gli interessati sponsor, si salva in corner con gli atleti di Stato; ma di questo parleremo a suo tempo fra qualche capitoletto.

            Quello comunque che è importante è che la nostra disciplina, in controtendenza rispetto ad altri settori sportivi, sia ancora in continua crescita e soprattutto si sia ramificata nel territorio anche lontano dai capoluoghi di provincia       A questo proposito è doveroso citare un’altra lunga gestione federale, quella di Giorgio Scarso, che da anni ha definitivamente traghettato la Scherma verso la cosiddetta modernità; tra l’altro ha anche un certo significato che Scarso sia anche maestro di scherma, credo il primo e, sino ad ora, unico presidente-maestro.

            Il futuro ora vedrà gli organi federali sempre più impegnati nella gestione delle problematiche connesse alla dimensione ormai raggiunta in Italia dalla nostra disciplina e al mantenimento degli strepitosi standard delle affermazioni dei nostri atleti azzurri nel mondo.

            

                         

           

La sala di scherma

            In questo mio tentativo di analisi storica del nostro movimento, non potrei non partire dalla sala di scherma in quanto vitale cellula dell’organismo federale.             Al di fuori del mondo militare, il retaggio della nostra disciplina è quello di essere stata appannaggio dell’aristocrazia e in seguito delle classi sociali più agiate: in effetti la sala di scherma spesso era anche un’emanazione di un circolo culturale esclusivo, ad esempio la Società del Giardino e la Famiglia Meneghina di Milano, che ho avuto la fortuna di frequentare nel mio periodo giovanile lombardo.

            All’inizio degli anni che ci interessano la scherma si era già da tempo imborghesita e andata anche molto oltre: si era affermato lo spirito sportivo della disciplina, foriera di indubbi benefici che concorrevano alla crescita e allo sviluppo dei ragazzi; addirittura molti pediatri cominciarono a raccomandarla.

La sala di scherma, che meravigliosa realtà; luogo ovviamente di apprendimento, di perfezionamento e di allenamento, ma, a differenza della maggior parte degli altri sport, anche strepitoso luogo cosmopolita di incontro: differente sesso, differente età e differente caratura agonistica. Un mondo che chi ha avuto la fortuna di frequentare non ha sicuramente scordato e non scorderà mai.

            All’inizio, tranne qualche rara eccezione, i club non erano particolarmente capillari sul territorio, ma si limitavano ovviamente ai capoluoghi di provincia e solo alcune delle più grosse città avevano più di una sala sul territorio metropolitano.

            Poi il Movimento ha cominciato a crescere: il binomio più iscritti e più maestri ha moltiplicato straordinariamente i centri di gravità della nostra disciplina, che si è spostata inizialmente nell’interland delle città per poi passare a centri urbani sempre più piccoli.

            Comunque la sala appartiene ad un vastissimo campionario: dalle cattedrali che meritevoli dirigenti sono riusciti ad erigere con tante pedane, tanti maestri e magari con il posteggio privato; alle Porziuncole di francescana memoria, che hanno solo un paio di pedane e dove il maestro è il tuttofare. L’importante per il bene della scherma è crederci, organizzarsi e continuare a crescere.

            Ovviamente la dimensione del club ha dei ritorni tecnici non indifferenti per l’utenza: in effetti in un grosso Circolo ci si può accostare a tutte e tre le specialità, magari sintonizzando il proprio fisico, temperamento o semplice scelta personale al tipo di arma; il piccolo club invece è quasi sempre indottamente mono-arma e da lungagnone ti ritrovi magari a fare con meno chances la sciabola o parimenti da brevilineo sei costretto ad impugnare una spada; comunque l’importante è tirare di scherma.

           

 

L’equipaggiamento personale

            L’evoluzione tecnologica che c’è stata per la Società Civile proprio a partire dagli anni ’60 è stata veramente impressionante, nemmeno da progressione geometrica, come ce ne fa esempio la Matematica. Volete che non abbia investito anche la scherma?!

            Cominciamo insieme a indossare virtualmente l’equipaggiamento, ma facciamolo in compagnia di un altro schermitore: uno indossa i panni, diciamo, antichi e l’altro quelli attuali, secondo le caratteristiche del Regolamento per i materiali; quasi un cugino pur lontano dei tre moschettieri il primo e quasi da base alfa sulla luna il secondo.

 

 

La divisa    

            Forse qualcuno oggi potrebbe sorridere o dare dell’incosciente a chi indossava per tirare nei primi anni ’60  delle divise di semplice cotone; ma, a parte che non c’erano molti altri materiali a disposizione, è da tener conto che nello svolgimento dell’assalto la componente atletica era ancora di gran lunga inferiore rispetto a quella tecnica; per cui il modo di portare il colpo, la scarsa frequenza del corpo a corpo e, in generale, il ripudio culturale della scherma arrembante non sottoponeva gli assaltanti a particolari rischi di sorta.

            Le categorie giovanili sino a 12 anni, esentate dall’utilizzo dei cosiddetti giubbetti elettrici, che rappresentavano invero un’ulteriore protezione, indossavano delle divise trapuntate nella parte superiore e senza il continuum della giacca con passaggio tra le gambe. Mentre gli allievi (13-14 anni) di fioretto e di sciabola indossavano ancora questa specie di bolero, quelli di spada dovevano avere il suddetto passante, probabilmente perché la lama era a sezione triangolare e quindi era caratterizzata da una certa rigidità ritenuta più pericolosa.

            Per inciso, la corazzetta obbligatoria sotto la divisa era ancora …non pervenuta: si sarebbe affermata successivamente come compagna inseparabile della giubba e come ulteriore produttrice di sudorazione eccessiva; ma con la sicurezza non si scherza e d’altra parte l’ascella del braccio armato necessita sicuramente di un’ulteriore tutela fisica.

            Poi, verso la fine degli anni ’60, nella spada si affermò come tessuto la tela olona, quella già celebre perché utilizzata nella fabbricazione delle vele nelle regate; in effetti era più robusta e anche i colpi si avvertivano meno; però dal color bianco candido  si era dovuto ripiegare sul giallognolo stanco; le divise, dopo che le mamme maniache del pulito le avevano lavate, si irrigidivano e andavano quindi domate sulla pedana per almeno un paio d’ore, in effetti sembravano delle …divise di forza!

            Gli anni ’70 portarono la rivoluzione del lastex: tessuto molto morbido e malleabile, ma i colpi, soprattutto quelli mal tirati con il concorso della spalla, ora si sentivano e parecchio; soprattutto la traspirazione era praticamente azzerata, stile soffocamento lento.

            Negli anni 2000 il lastex fu mandato in doverosa pensione e cominciò l’attuale era del kewlar con i rispettivi 1800 newton di resistenza come rassicurante garanzia di incolumità fisica dei tiratori.

            In effetti la scherma era cambiata e non di poco, per cui si era posto il problema di tutelare maggiormente la sicurezza degli atleti; la componente fisica, giustamente esaltata dalla preparazione atletica, aveva decisamente alterato il rapporto con la componente tecnica; inoltre l’affermazione del manico anatomico su quello italiano e francese consentiva una presa a piena mano e quindi induceva lo schermitore ad una maggiore applicazione della forza fisica; i corpo a corpo ed i cosiddetti tempi comuni diventavano statisticamente configurazioni molto ricorrenti.

            Questo per quanto attiene l’evoluzione dei materiali delle divise, ma nel tempo c’è stata anche una mini rivoluzione cromatica: in effetti nulla poteva essere apposto sulle candide divise, se non sul braccio non armato lo stemma della propria sala o il più glorioso tricolore, se avevi l’onore di difendere da azzurro i colori dell’Italia.

            Poi cominciarono a vedersi in striminziti rettangolini i marchi di fabbrica delle diverse aziende produttrici delle divise; dissero che servivano a certificare la prescritta resistenza in Newton (la Fisica entrava nella scherma!), ma penso che piuttosto servisse anche a sdoganare l’ingresso della tentacolare pubblicità sulle nostre pedane.

            Poi si ruppe la diga e sulla candida divisa, bianca appunto per tradizione storica al fine di segnalare tempestivamente un’eventuale ferita, comparvero sempre più proposte commerciali senza destare eccessivo scandalo, vista ormai l’immanenza della pubblicità nel vivere quotidiano.

            Parallelamente ci fu, su un altro fronte, un’altra storica rivoluzione cromatica per le divise: a partire dai primi anni del nuovo millennio la Federazione Internazionale ha autorizzato l’abbandono del monotono bianco a favore del colore, magari in tonalità di tradizione nazionale o comunque a piacere del tiratore.

            A mio parere la scherma ha molto guadagnato in immagine soprattutto presentandosi al grosso pubblico televisivo: non corsie d’ospedale, ma variopinti colori di guerra!

 

Le armi

            Negli anni di cui trattiamo c’è stata una doppia rivoluzione: la prima relativa al fatto che anche le categorie giovanili, che prima ne erano esentate, dovevano ora invece munirsi sin da subito dell’equipaggiamento per la segnalazione automatica delle stoccate; la seconda, di maggiore portata, relativa all’adozione della sciabola cosiddetta elettrica.

            Nel primo caso si è trattato di scelte tra il politico e il pratico: politico in quanto resisteva ancora una concezione marcatamente conservatrice che vedeva nel fioretto, addirittura munito del manico italiano, e nell’assalto senza segnalazione automatica una doverosa fase di iniziazione per tutti gli schermitori; pratico in quanto il passaggio al fioretto elettrico era stato fatto nel vicino 1955 e indubbiamente rappresentava un orpello di carattere economico per i ragazzini che cominciavano a frequentare le sale, ciò anche perché la commercializzazione del prodotto era ancora agli albori.

            Col passare degli anni queste posizioni sono divenute progressivamente insostenibili e in parallelo sono cambiate le condizioni economiche delle famiglie italiane: da qui il completo via libera all’utilizzazione dei moderni ritrovati della tecnologia da parte di tutte le categorie giovanili.

            Più legata allo sviluppo della tecnologia fu la seconda delle rivoluzioni che ho citato poche righe sopra: in effetti la sciabola era restata da decenni l’unica specialità in cui le stoccate erano ancora giudicate a vista dai giurati; inutile dire quante perplessità e discussioni avvenissero, per di più nell’arma più veloce in assoluto con il fatto aggiuntivo che i colpi potevano essere portati anche di taglio e controtaglio.

            Comunque definire quest’ultima “rivoluzione” è, secondo me, alquanto riduttivo: il primo dato che salta subito all’occhio è che la sciabola diventa alquanto più costosa di prima, vista la nuova dotazione del giubbetto, della maschera speciale, del bracciolo, dei passanti e delle prese di coccia; in secondo luogo lo svolgimento del match viene sconvolto dalla scomparsa del bersaglio non valido perché non segnalabile con lo stato attuale della tecnologia, bersaglio non valido che prima aveva l’effetto di bloccare la ricostruzione regolamentare del fraseggio ai fini dell’attribuzione della stoccata; ciò naturalmente non poteva non andare ad influenzare parte della tecnica e della tattica schermistica.

            Tuttavia le medaglie hanno sempre due facce: finalmente, tramite gli appositi sensori, gli arbitri potevano essere ora certi della materialità delle stoccate, prima affidate solo alle diottrie dei quattro cosiddetti giurati o assessori che fossero; questi ultimi diventarono obsoleti e, di conseguenza, diminuirono i costi per l’organizzazione delle competizioni.

            Ma torniamo alle armi in generale: le loro fogge non sono cambiate in questi anni, ma è cambiata la composizione della lega delle lame e delle cocce: per quanto riguarda le lame attuali maraging al ferro, costituente base della lega, vengono addizionati cobalto e nichel che assicurano un’elevata resistenza meccanica in trazione. Rispetto alle lame precedenti queste ultime sono caratterizzate da una certa marcata elasticità, per cui si è reso possibile tirare il colpo attraverso una frustata, edulcorata tecnicamente col termine fuetto.

            La portata tecnica di questa nuova traiettoria per poter raggiungere il bersaglio è rivoluzionaria: infatti a questo tipo di colpo non si possono opporre in difesa né le tradizionali parate semplici e nemmeno quelle di contro in quanto esse sono aggirate dal saettante arco di cerchio percorso dalla punta; conclusione, o si scappa o si raccorcia la misura uscendo in tempo, in pratica soffocando spazialmente la stoccata; ma di questo ne parleremo ancora in seguito.

            Anche dal punto di vista dei bersagli è cambiato qualcosa e non di poco: il bersaglio schiena, che in precedenza era quasi impossibile raggiungere tramite le classiche traiettorie rettilinee, ora invece rappresenta un ricercato Eldorado, soprattutto per i fiorettisti.

            La Federazione, al fine di mitigare questa situazione che rischiava di alterare oltremodo il rapporto attacco/difesa  è intervenuta allungando il tempo di persistenza della pressione della punta sul bersaglio affinché possa essere segnalata la stoccata; ora si fuetta, ma con più indotto iudicio.

            Prima che me ne scordi: all’inizio le punte dei fioretti, o meglio le loro testine, non erano lisce e piatte come quelle attuali che, anche se ridotte, sono del tutto simili a quelle in uso nella spada; in effetti la loro struttura presentava dei piccolissimi rotondi canaletti laterali, probabilmente al fine di aumentare la possibilità di ancoraggio sul bersaglio avversario.

 

 

Le impugnature delle armi

            Data l’importanza della materia ho voluto dedicare un capitoletto a parte rispetto alle altre componenti dell’equipaggiamento dello schermitore.

            Oggi, forse fortunatamente, entri in sala e trovi fioretti e spade con un tipo di impugnatura, quella anatomica; se poi ti imbatti in uno spadista, magari ad una gara, che tira con un manico diverso lo guardi incuriosito, chiedi, e poi sai che c’è anche il manico francese, chiamato liscio dai non francesi.

            Anche in questo campo c’è bisogno di un’ po’ di storia, almeno della situazione a partire dagli anni ’60.

            Ebbene, all’epoca surricordata circolavano: fioretti italiani, francesi e anatomici (ortopedico, da ignorante qual sono, lo reputo tuttora un termine un po’ troppo invalidante) – spade francesi e anatomiche; notoriamente da ogni diatriba sono sempre stati fortunatamente esclusi gli sciabolatori, che evidentemente avevano avuto in precedenza il loro relativo Concilio di Nicea!

            Innanzitutto un attento razionalista avrebbe subito potuto eccepire: perché fioretto italiano sì e non spada italiana? La scherma non è avulsa dalle dinamiche della Società Civile e storica, dove spesso la realtà cambia solo dopo ostinate e fallimentari resistenze: nulla è più reale della realtà e anche le più nobili e fondate idee devono ceder il passo all’opinione comune, ma sovente senza alcun evidente raziocinio.

            In breve: da decenni c’erano due scuole di scherma che si fronteggiavano (naturalmente armi in mano), quella italiana e quella francese; e la diatriba tecnica si incentrava non sulla lama o sulla coccia, che ovviamente erano normalizzate, ma sulla restante parte dell’arma, cioè sul manico.

            Quello italiano, frazionato e distinto in ricasso, gavigliano, archetti e pomolo; quello francese sintetizzato in una protuberanza lunga e senza appigli.

            Il primo una specie di summa geometrica, un artefatto di natura bizantina, una (lasciatemelo dire) delizia estetica; il secondo un vero emblema dell’essenzialità, quasi iconoclasta, senza alcun aggiunto orpello, tanto da essere ribattezzato appunto manico liscio.

            Ovviamente con entrambe le impugnature si potevano eseguire tutti i colpi teorizzati dai trattati, ma, altrettanto ovviamente, certe tipologie di azioni erano di più facile esecuzione rispetto ad altre.

            L’importante, per aspirare ad aver il sospirato sentiment du fer, era di tenere tra le dita guida (indice, pollice e medio) la stessa lama nel tratto che fuoriusciva dalla coccia: nell’italiano la mano si doveva letteralmente abbarbicare alla simmetrica struttura di semicerchio, la parte dolente, letteralmente, era il …dolore che si provava con il dito medio  – nel francese invece la mano stava più comoda, ma il pericolo incombente era quello di impugnare l’arma a piena mano e quindi per finire di usarla come un bastone della scopa (absit iniura verbis per gli amici francesi). In sintesi scherma con cavazioni e movimenti al micron con l’italiano e scherma più libera, quasi volante, con il francese; inoltre braccio armato ingessato, anche per il fatto che spesso si usava saldare alla mano il manico italiano con fasce o appositi cinghietti; all’inverso maggiore difficoltà di appiglio, ma, proprio per la mancanza di vincoli fisici, indubbia possibilità di spezzare il pugno tecnico nelle varie direzioni con il manico francese.

            A ciascuno il suo, dicevano i nostri antenati latini.

            Ebbene ci hanno pensato alcune novità a mandare in pensione il nostro manico cispadano: l’aumento significativo della componente atletica rispetto a quella tecnica e, di conseguenza, l’enorme aumento statistico in ogni assalto dei casi di combattimento ravvicinato, il cosiddetto corpo a corpo, oltre all’uso inflattivo della frecciata. L’italiano con la sua precaria presa della mano non poteva subire eventi troppo dirompenti ed utilizzare al meglio le varie angolazioni al polso … quindi fu sempre meno impugnato sulle pedana e sempre più utilizzato per le panoplie appese al muro a imperitura memoria.

            Ma il trapasso non fu né veloce, né indolore: quando ci sono le rivoluzioni, di qualsiasi tipo esse siano, sappiamo ormai bene che si creano delle sacche di resistenza, spesso votate ad immolarsi e, d’altra parte, le vicende umane si alternano anche tramite spesso lunghe dialisi.

            Gli italianisti resistevano ad oltranza e nei primi anni ’70 i primi fioretti di plastica per i Giochi della Gioventù in effetti avevano ancora l’impugnatura con ricasso e gavigliano: si sosteneva che questo tipo di manico induceva all’uso differenziato delle dita e quindi alla precisione.

            In parallelo i simpatizzanti del francese erano sempre meno anche in Francia e all’estero, mentre i rivoluzionari dell’anatomico proliferavano dappertutto, sostenendo che anche i principianti potevano fruire di un’impugnatura più diretta e spontanea.

            Ovviamente la scelta dell’impugnatura dipendeva non solo dal parallelo dove ti trovavi a fare scherma, ma anche dall’età del maestro che ti prendeva sotto la sua ala: all’epoca nelle sale si poteva scegliere pochissimo.

            Quale manico abbia vinto, per loro fortuna, lo sanno bene le generazioni contemporanee.

            Con un piccolo passo indietro torniamo però alla spada, col dubbio che era sorto: perché agli inizi degli anni ’60 i triangolari non utilizzavano più l’impugnatura italiana? E allora, come oggi, circolavano solo anatomiche e francesi?

            Innanzitutto, credo, perché il maggior pragmatismo della spada, esplicitamente espresso dalle sue regole di combattimento, ed anche il fatto di essere l’arma più pesante rispetto al fioretto e alla sciabola, abbiano fatto percepire che la maggior valorizzazione della componente atletica avrebbe rivoluzionato a fondo lo scontro sulla pedana. Non più stretti arzigogoli della lame come se tramassero un pizzo di Cantù, ma utilizzo di una tecnica sempre più scarnificata e ridotta ai minimi termini; roba da stracciare letteralmente numerose pagine di un trattato di scherma.

 

Le maschere

            Agli inizi degli anni ’60 le maschere erano di un solo tipo, con l’eccezione di alcuni sciabolatori che, al fine di una minore usura, sceglievano quelle con una specie di tettino di duro cuoio sulla sommità.

            Verso gli anni ‘80/’90 il Regolamento ammise maschere con la griglia metallica integrata da materiale trasparente solo all’altezza degli occhi; non so quale ratio fu alla base di questo provvedimento, ma fu ben presto abbandonato sia per la scarsa visibilità che si veniva a creare per l’appannamento da sudore, sia, credo, per la doverosa privacy che, dopo le proteste degli atleti, fu riconosciuta a chi doveva combattere.

            Furono anche prodotte delle maschere senza la tradizionale struttura di rinforzo interno a croce, il che ovviamente permetteva una più libera visuale grandangolare; ma si ritornò al passato, soprattutto anche a seguito di tragici avvenimenti tipo quello di cui restò vittima nel 1982 lo schermitore russo Vladimir Smirnov; le maschere furono oggetto di un severissimo intervento regolamentare circa la loro struttura e resistenza sia rispetto alla rete metallica che alla gorgiera.

            Attualmente, come ben sappiamo, le maschere differiscono tutte in funzione della specialità: quelle di fioretto da svariati anni devono avere la gorgiera provvista della stessa superficie conduttrice del giubbetto in quanto ritenuta dal Regolamento bersaglio valido; questa fu un’altra mini rivoluzione che dopo decenni sanò l’evidente situazione che vedeva in effetti la gorgiera coprire indebitamente quello che era ritenuto in teoria bersaglio valido, ovvero tutto il tronco del corpo.

            Idem per quelle di sciabola che devono presentare anch’esse tutto bersaglio valido, senza soluzione di continuità sino alla linea dell’ideale cintura dello schermitore.

            La maschera di spada deve avere la gorgiera atta a coprire interamente le clavicole sempre per questioni di sicurezza.

 

 

Giubbetti elettrici

            Inizialmente erano di un brillante color oro più che zecchino, poi si passò ad una vasta gamma di marroncino chiaro e altri colori pastello; successivamente, arrivarono quelli prodotti dai paesi dell’est, che costavano meno della metà di quelli nostrani, ma il rapporto qualità – prezzo ci fece prontamente ritornare ai prodotti nazionali.

            Oggi, come ben sapete, vigono giubbetti ultraleggeri con addirittura cognome stampigliato sulla schiena, con funzione accessoria di prezioso antifurto; pura fantascienza per gli anni 60.

 

 

Guanti

            All’inizio per il fioretto e la sciabola erano in voga semplici guanti di morbidissima stoffa color giallo acceso, mentre per la spada c’era un guanto che copriva una porzione dell’avambraccio nel timore che i colpi di punta potessero entrare pericolosamente sotto la manica della giubba.

            Poi anche in questo settore fortunatamente presero piede le norme di sicurezza e quindi i guanti furono oggetto di precise norme garantiste, anche per il fatto che da essi doveva fuoriuscire il passante che naviga all’interno della giubba lungo il braccio con destinazione presa di coccia.

            Furono utilizzati tessuti e pelli di ogni sorta; per gli intenditori c’erano anche quelli in pecari e in pelle di gazzella …le associazioni animaliste ancora non avevano giustamente preso piede!

            Una novità importante circa i guanti fu l’adozione della segnalazione automatica delle stoccate anche per la sciabola, quindi essi dovevano presentare una superficie segnalante come i giubbetti.

 

 

Passanti

            All’inizio in Italia troneggiavano per la presa di coccia i cosiddetti passanti a baionetta: un pistoncino metallico con due piccole protuberanze laterali, che andava inserito e premuto nell’apposita presa di coccia, facendolo poi ruotare per perfezionare l’attacco.

            All’estero, molto più semplicemente, utilizzavano il più semplice spinotto a due conduttori; ci saranno state ovviamente delle precise esigenze tecniche per questa strana benedetta baionetta, ma i più, per non dire tutti tranne il progettista, ne erano completamente all’oscuro.

            Invece per l’innesto sul filo del rullo tutto più semplice, un tradizionale spinotto a tre ingressi, come vige tuttora; sono invero cambiati più volte i sistemi di sicurezza degli spinotti: esordio con cinghietti di vera pelle con due automatici (che non si bloccavano quasi mai!), poi elasticoni messi dal tecnico delle armi che non aveva altri mezzi, infine piccola struttura metallica con gommino da ruotare a contrasto con la spina del passante, la più funzionale in assoluto. Mia esperienza personale: il più delle volte si tirava senza alcuna chiusura di sicurezza, però astutamente lo facevamo osservare all’arbitro, che quindi in caso di distaccamento doveva annullare l’eventuale stoccata per Regolamento.

            Comunque per il fioretto e la sciabola apertura del circuito per segnalare la stoccata e coccia messa a massa (vale come scioglilingua!).

            Per la spada invece, da sempre e come oggi, tre ingressi alla coccia e tre alla presa del filo del rullo; due sono i conduttori della chiusura del circuito ch avviene in occasione della stoccata (pistoncino sottostante della punta che tocca il platorello alla sommità della lama), il terzo per la massa.

 

 

Tute sportive

            All’inizio semplicemente non c’erano: accappatoi (quindi doppio uso), giacchettine e golf con apertura davanti come nel mio caso venivano usati in inverno, poi con la primavera non servivano più nemmeno questi.

            Ai Giochi olimpici vedevamo alla televisione gli atleti di tutte le nazioni con le rispettive tute addosso, ma consideravamo l’indumento alla guisa non dico di un frac, ma almeno di un tight; roba di lusso, come si diceva allora nel linguaggio comune.

            Poi la mia generazione cominciò ad utilizzare la tuta che si usava alle scuole Medie (sì, Medie, e non secondarie di primo grado!): in pratica una tuta da metalmeccanico, felpata e dotata di uno zip millimetrico nelle vicinanze della gola, quindi l’ottimo per la scherma! Ai primi caldi però erano inutilizzabili perché c’era il rischio, pesanti com’erano, di autocombustione.

            Ma il boom, noto agli storici come miracolo economico, portò i suoi benefici anche nella scherma: le sale, sempre più denominate club, si dotarono di tute sociali che per lo più affittavano o prestavano agli iscritti.

            Il primo effetto fu essenzialmente cromatico: con tutto quell’imperante  bianco che circolava prima alle gare, fece bene agli occhi ed anche allo spirito vedere varie tonalità di verde, rosso, blu e quant’altro. Gli zip erano da tutte le parti e quindi crebbe vistosamente anche il confort del ricovero portafogli, borsellino, chiavi della macchina e ammennicoli vari. Non ultimo in inverno ci coprivamo tra assalto e assalto e tra un turno e l’altro in quei palazzetti dove non c’era il riscaldamento; sì, abbiamo anche duellato al freddo.

            Ma, ripeto con soddisfazione, tutti facevano quello che potevano e nessuno si lamentava di nulla, anzi tutti i progressi organizzativi venivano accolti con favore e talvolta con veri ringraziamenti.

            Comunque anche le tute della Nazionale abbandonarono il tradizionale azzurro cielo per lanciarsi sulle pedane dell’alta moda griffata; ma, se ancora la mia generazione sogna, sono sicuro che sogni in azzurro.

 

 

Sacca delle armi

            Dimmi che sacca hai e ti dirò che schermitore sei; e questa non sia solo una battuta, perché negli anni ’60 era proprio così.

            Schermitore, appena uscito dallo spogliatoio, con l’arma in una mano e la maschera nell’altra = esordiente alla prima gara, ma anche alla seconda e qualche volta anche alla terza.

            Schermitore munito di una mini sacca, talvolta senza cinghia per la spalla, talmente mini che deve continuare a portare la maschera con la mano libera = atleta al secondo/terzo anno di gare.

            Schermitore con grossa sacca portata quasi sempre a spalla tramite una lunga cinghia senza alcun ammennicolo in mano e riconoscibile anche da lontano per lo strano incedere che deve essere coordinato con l’oscillazione del manufatto alquanto sbaricentrato = atleta acquisito alla scherma, almeno per un congruo numero di anni, forse un fedelissimo.

            Proprio così: gli acquisti venivano fatti con cautela anche da chi, per permettersi uno sport come la scherma, sicuramente non apparteneva della scala sociale al più basso gradin, come cantava lo spazzacamino Bert nell’indimenticabile film Mary Poppins.

            Il vero salto di qualità, tanto caro al filosofo Hegel, indubbiamente si aveva comunque con la vera sacca delle armi: forma approssimativa di piramide a base quadrangolare e, come appena sopra detto, assolutamente sprovvista di un rinvenibile baricentro.

            C’era uno scomparto nobile, quello appunto riservato alle armi (non più di tre); ce n’era un altro dove, pur con una certa difficoltà, entravano la divisa, la maschera e l’accappatoio con l’asciugamano); c’erano due tasche esterne con comodo zip: una apposita per le scarpe, un’altra per guanto – passante e cianfrusaglie varie.

            Poi qualcuno, in ritardo di qualche migliaio di anni, riscoprì la ruota e la applicò alla nostra sacca: non più piramide, ma parallelepipedo con volume pari alle famose profondissime tasche del marziano Eta Beta, all’epoca noto personaggio di Walt Disney. Ora però sono insorti due tipi di difficoltà: la prima che spesso occorre un mucchio di tempo per trovare una cosa di piccole dimensioni, la seconda che, se alle gare ci vai in automobile, è necessario assolutamente possedere una station-wagon.

            Inutile dire che (e questa la considero senz’altro una fortuna della contemporaneità) alle gare di oggi gli esordienti sembrano più, vista la loro attrezzatura, dei veri veterani delle competizioni. A noi però, oggi anziani, la possibilità di aver verificato, come ben suggerito dal Leopardi, che la gioia sta nell’attesa delle cose.

 

 

Materiale degli impianti

 

Pedane

            Pedana, luogo veramente magico, archivio di infiniti ricordi belli e meno belli, sauna dilettevole, piccolo palcoscenico di vita e tantissimo altro.

            Ho cominciato a fare affondi e parate di quarta, ma almeno per un anno ero completamente all’oscuro di cosa fosse una pedana di scherma: il club presso il quale ho conosciuto la nostra disciplina era talmente, talmente povero che non ne possedeva alcuna: facevamo la lezione e gli assalti sul pavimento della palestra, ma era in linoleum, il non plus ultra dell’epoca!

            Poi alla prima gara vedemmo per la prima volta un rettangolone lungo lungo e quando ci montammo sopra ci dicemmo che farci sopra scherma era più facile  …potenza della geometria della linea direttrice!

            Comunque non era solo un luogo, ma anche un insieme di aggeggi: conoscemmo i due rulli dotati della magia di dare e prendere filo, la macchinetta che accendendosi faceva strani versetti e il tappeto che ricopriva tutta la sua superficie.

            Era anche un po’ elevata da terra e, effettuandoci sopra dei passi avanti a fondo a balestra, riuscivamo anche a percepirne una certa elasticità; però fungeva anche da pericoloso tamburo, in quanto il maestro ci mise sull’avviso che l’avversario poteva anche percepire il nostro avanzamento dal rumore prodotto.

            Sopra di essa c’era un incredibile tappeto di metallo, ci spiegarono che serviva ad impedire alle punte che lo avessero colpito di segnalare il punto sulla macchinetta, era proprio come non ci fosse; inutile dire che ci richiamarono più volte di smettere di provare questa magia.

            In fondo alla pedana da entrambe le parti c’erano due grossi bastoni di ferro ai quali, finita la gara, questo telo metallico veniva arrotolato nuovamente per trasportarlo via.

            In seguito vedemmo invece in qualche sala lo stesso telo, ma letteralmente inchiodato ai vari componenti della sottostante pedana di legno; quando si strappava in qualche punto veniva subito il tecnico delle armi con martello e chiodini per ripararlo e qualche volta era così gentile o stufo di farlo che dava ai ragazzi il compito di battere i chiodi: pum, pum, pum ci divertivamo e poi si ricominciava a tirare.

            Ci pensate cosa voleva dire organizzare una gara con tutto questo materiale da trasportare?! Le pedane erano fatte a sezioni e ognuna aveva il suo bel tappetino metallico inchiodato sopra, ma che volume e che peso!

            Poi la tecnologia o forse più il buon senso intervennero: le pedane furono prodotte tutto in materiale metallico, perdendo la parte lignea, furono quindi molto più basse e persero di conseguenza l’elasticità, contribuendo non poco all’insorgere della famosa tallonite, considerata in tema il tallone di Achille dello schermitore.

            Purtroppo le pedane, per questioni di peso e quindi di trasporto come appena sopra accennato, furono fatte anche molto più strette con buona deroga della Federazione Nazionale ed Internazionale e divennero in pratica degli stretti corridoi.        Come potete ben immaginare, non poche furono le conseguenze tecnico – tattiche: i cosiddetti scarti a sinistra e a destra rispetto alla linea direttrice non furono in pratica più realizzabili, pena la fuoriuscita dalla pedana con conseguente alt dell’arbitro, magari con ammonizione – l’inquartata che defila il corpo in fuori rispetto alla guardia si poteva ancora eseguire, ma stando attenti che il colpo sull’avversario arrivasse prima che il piede che fa scartare il corpo non uscisse di pedana, altrimenti niente stoccata – nella specialità della spada, dove notoriamente si può effettuare il colpo al piede, ora l’arbitro doveva essere dotato della vista di un paio di aquile per controllare che il colpo finisse effettivamente sul bersaglio e non per terra.

            D’altra parte qualcosa si deve spesso sacrificare all’evoluzione e la scherma non si sottrae a questa morale e logica universale.

 

 

Apparecchi per la segnalazione delle stoccate

            I primi che ho incontrato in sala erano tutti, almeno qui in Italia, della ditta Carmimari di Milano, evidentemente in regime di monopolio; non sapete quanto ho stentato a trovarne uno da potervi mostrare dopo aver frugato nelle soffitte di  Internet.

            La tecnologia, ovviamente, era quella che era cioè il minimo sindacale, anche tenuto conto che la segnalazione automatica delle stoccate per il fioretto era entrata in vigore solo qualche anno prima, nelle propinquaggini dei Giochi Olimpici di Helsinki. L’unica funzione avveniristica era che, tramite apposito interruttore, si poteva innestare lo spengimento automatico dopo un certo lasso di tempo delle lucine che si erano accese; ma questo tempo era breve e qualche volta l’arbitro non faceva in tempo a rendersi conto di nulla perché magari aveva seguito i duellanti in fondo alla pista; l’alternativa era quella dello spengimento meccanico a mano, ma questo richiedeva un apposito addetto a questa funzione, se non si voleva far fare dell’arbitro un maratoneta.

            Nella macchinetta i colori erano gli stessi di oggi, verde e rosso per i bersagli validi, invece bianco per quelli non validi; invero talvolta c’era anche un acceso arancione, ma era piuttosto raro.

            Il grande limite di questa apparecchiatura era la segnalazione acustica, che giustamente accompagnava la registrazione della stoccata al fine di richiamare l’attenzione dell’arbitro; era, onomatopeicamente, uno “sdleng” corto e sintetico che, se coperto da altri rumori limitrofi delle altre pedane, era difficilmente percepibile; ecco perché chi arbitrava soffriva spesso di torcicollo per tutte le volte che doveva velocemente verificare de visu la presenza di eventuali stoccate.

            Per dovere di cronaca, in quanto alquanto precedente al periodo che ci siamo riproposti di indagare, vi informo che la spada era stata “elettrificata”, vista la semplicità dell’unicità del bersaglio, addirittura agli inizi degli anni trenta del novecento.

            Ho fatto in tempo a vedere alla sala Verratti di Milano una specie di catafalco, utile questo alla sola segnalazione dei colpi di spada, quindi macchina risalente almeno a due decenni prima. Trauma acustico: ma il rumore assordante che avvertiva della stoccata era una vera soddisfazione per chi l’aveva messa e probabilmente era percepita anche negli appartamenti sopra la palestra.

            Oggi, al contrario, c’è un vastissimo listino di queste apparecchiature ultramoderne-modernissime: ci si può fare veramente di tutto, come tarare il suono, segnalare il numero delle stoccate magari andando in avanti e all’indietro nel punteggio, cancellare la segnalazione delle stoccate, assegnare la priorità con una specie di estrazione a sorte e chissà quale altra diavoleria; ovviamente tutto tramite comodissimo telecomando, come nei migliori televisori al plasma.

            Di conseguenza altra piccola grande rivoluzione: prima l’arbitro era pomposamente denominato anche presidente di giuria e ci credo: coordinava i quattro assessori che sostituivano con i loro occhi i sensori delle armi – il cronometrista che centellinava il tempo – il cartellonista scrivano che era il ragioniere delle vittorie, delle sconfitte, delle stoccate date e di quelle ricevute – l’addetto al tabellone gigante per informare il pubblico sull’andazzo del girone. La tecnologia non ha mandato in pensione solo i cassieri delle banche e le commesse dei supermercati, ma ha anche fatto strage del popolo dei giudici schermistici del famoso GSA.

            Ora c’è anche la moviola, almeno nelle gare di maggior prestigio: regista e aiuto regista per controllare quello che l’occhio non solo può sbagliare a vedere, ma anche quello che non è assolutamente in grado di percepire in quanto umano.         Nuovamente fantascienza della fantascienza.

            Ma, quasi scordavo, un’altra rivoluzione per la registrazione delle stoccate, questa di carattere culturale tipo quella cinese di Mao Zedong in Cina.

            Qualcuno non ci crederà, ma prima, se toccavi l’avversario, la lucina segnalatrice del colpo si accendeva dalla sua parte: in effetti era segnalato il toccato e non il toccante; oggi invece sappiamo tutti che la lucina indica chi fa il punto.

            Invero si potrebbe fare notte a sostenere le due tesi opposte: la prima in effetti era più diretta in quanto scaturiva dal “tocca” dei giurati che quindi induceva appunto i cartellonisti a mettere una stanghettina nella casella del toccato; la seconda si basa sull’inversione logica è toccato lui, quindi fa il punto l’altro.

            Sarà stata una tradizione, sarà stato un vezzo, ma si è deciso di dire subito chi vince, probabilmente per il crescente pubblico televisivo che era indotto ad interpretare il risultato nel senso opposto a quello reale.

 

Rulli

            Anche i rulli non sono più in acciaio come una volta, come è stato il pari destino dei paraurti delle autovetture; ora è tutto in un materiale che non si sa nemmeno cosa sia, ma mi dicono che costi lo stesso un occhio della testa.

            Questi rulli dalla forma di basso cilindro avevano dei supporti alti circa mezzo metro, un vero spauracchio per chi, arretrando ci andava pericolosamente a sbattere contro; oggi si è passati ai rulli superpiatti adagiati per terra, che comunque, da veri maligni, continuano ad intralciare l’arretramento dello schermitore.

            All’estero, meraviglia delle meraviglie, in qualche sala i rulli erano stati sostituiti da un sistema di carrucole che quindi faceva penzolare dal soffitto una ragnatela di fili; nei primi assalti che abbiamo disputato non abbiamo potuto evitare di ridere sotto la maschera …questione comunque di abitudini.

            La cosa, comunque alquanto farraginosa, non ha preso piede; forse è addirittura scomparsa e appartiene ormai all’antiquariato schermistico.

            Gli attentati ai rulli comunque continuano: in qualche grossa competizione il sistema di segnalazione dei colpi è stato affidato all’etere, ovvero ottenuto tramite trasmissione di impulsi radio: niente più cavi attaccati alla giubba dello schermitore e niente molla magica che dà e prende corda, ma antennine stile marziano che troneggiano sulle maschere; un impulso di qua, un impulso di là e luci intermittenti, ovviamente di colore diverso, che tipo neon segnalano la stoccata. Neanche la serie TV Star Trek con l’astronave Enterprise NCC-1701 con il capitano Kirk avrebbe osato tanto!

            Credo che oltre non si possa veramente andare.

 

 

Agonismo e possibilità di scelta delle specialità

            I contemporanei si stupiranno non poco di fronte alla conoscenza del fatto che anni addietro la partecipazione alle gare fosse condizionata da vari fattori: non tanto per l’età, ma anche per la specialità ed il sesso.

            Per quel che concerne l’età: inizialmente l’attività federale poteva iniziare solo col compimento dei nove anni con le categorie delle bambine e dei maschietti, per poi transitare, come accade ancora oggi, con cadenza biennale dai giovanissimi, poi dagli allievi, poi dai giovanetti e infine dai giovani, categoria che si allunga a tre anni di militanza. L’unica cosa che è cambiata è solo la denominazione dei “giovanetti” che è stata cambiata in “cadetti”; invero in pochi linguisti hanno capito il perché di questo mutamento di terminologia, ma nulla cambia nella sostanza. In seguito l’età dei partecipanti fu abbassata e fu costituita la categoria delle prime lame e ulteriormente nacque la categoria dei pulcini di ben 6 e 7 anni.

            Al fattore età inizialmente si è intersecato anche il fattore specialità: così al cosiddetto Gran Premio Giovanissimi, oggi associato anche al nome di Renzo Nostini pluripresidente della F.I.S. e inaugurato dalla Federazione nel 1963, sino alla categoria dei giovanissimi si poteva tirare solo di fioretto, per di più non elettrificato come detto anche in precedenza, comportando di conseguenza ancora l’utilizzo del sistema presidente di giuria – giurati. Ancora oggi i pulcini e le prime lame possono competere solo nel fioretto.

            Di conseguenza solo dalla categoria “allievi” si spalancavano le porte agli sciabolatori e agli spadisti.

            Ci sono vari fattori tramite i quali poter comprendere queste evoluzioni, oltre naturalmente al fatto di ammettere una certa diffusa mentalità conservatrice imperante nell’ambiente scherma per alcuni precedenti decenni.

            Per quanto riguarda l’abbassamento dell’età agonistica si è indubbiamente trattato di un effetto trascinamento che è coinciso con un diverso sguardo con cui la Società Civile ha visto il bambino – ragazzo, non più limitato e confinato al pappo e al dindi di dantesca memoria come è stato per generazioni e generazioni.

            Per la questione del concetto fioretto come viatico della tecnica schermistica, al di là della sua ovvia leggerezza rispetto alle più “pesanti” sciabola e spada gestite da ragazzini, tutto deve essere rapportato ad una certa vetusta mentalità della classe magistrale e dirigenziale dell’epoca.

            Ultimo elemento dirimente rispetto alle specialità era il sesso: inizialmente le donne potevano dedicarsi solo al fioretto; per la spada hanno dovuto attendere il  1985 e per la  sciabola addirittura il 1999.      …omissis!

 

 

 I personaggi della scherma

            Come non dare la precedenza alla figura del maestro e approfittiamo di questo istante per chiudere gli occhi, richiamarlo alla memoria e commemorarlo a dovere: grazie, maestro.

            Sfrutto, adattandola un po’, una famosa frase del re Luigi XIV per darvi subito un’idea di cosa rappresentasse all’inizio della storia che sto raccontando il maestro: La Salle c’est moi. Per i cultori delle scienze potrei parlare di sistema maestrocentrico, ma credo che abbiate già capito: per gli schermitori il maestro era la scherma, era la sala, era tutto.

            In effetti all’epoca non c’erano altri pretendenti e d’altra parte l’unico professionista era lui.

            A questo proposito un inciso curioso: i maestri, in Italia diplomati all’Accademia Nazionale di Napoli, erano riconosciuti come professionisti e quindi non potevano partecipare alle gare dei cosiddetti dilettanti; si dava valore al sapere e si trascurava la realtà: in effetti la conoscenza dei trattati non avrebbe certamente costituito un valore aggiunto determinante per vincere una gara!

            Poi una mini rivoluzione permise ai maestri di poter incrociare i loro ferri alle gare con la restante popolazione schermistica, ma credo che la cronaca sportiva non abbia mai consacrato un maestro come vincitore di un qualcosa di veramente importante; quindi nessuno capì la mossa, probabilmente, come sovente capita, solo di una qualche utilità a qualcuno.

            Ma torniamo alla figura del maestro; tutti gli onori, sì, ma anche tutti gli oneri: soprattutto nelle sale più piccole raccoglievano anche le quote, facevano le iscrizioni alle gare, si occupavano del tesseramento federale …insomma facevano di tutto; se io faccio testo …ho anche ramazzato in sala perché l’inserviente era malato.

            Rappresentava non solo l’autorità tecnica, era proprio l’autorità, una figura paterna sostitutiva; per inciso le maestre di scherma inizi anni sessanta in Italia, se ben ricordo, erano solo due, purtroppo a conferma di quanto la donna sia stata osteggiata dalla Società Civile in tutti i suoi più reconditi anfratti, sigh!

            Il mio piccolo tesoro personale è quello di avere avuto una quindicina di maestri, ciò grazie alla vita da girovaghi che c’imponeva la professione di bancario in carriera di mio padre Giovanni; maestri, neanche a dirlo, tutti abbastanza diversi tra loro, probabilmente anche in funzione della loro differente età. Diversi non tanto e solo per le loro convinzioni sulla tecnica schermistica che andavano insegnando, ma diversi soprattutto per carattere e modo di relazionarsi con noi allievi.

            Ad ognuno di loro devo anche un qualcosa di non tecnico, non dovuto a come si esegue una cavazione perfetta o una buona frecciata, ma tanti insegnamenti profusi tramite piccole frasi di buon senso e di saggezza e qualche proverbio ormai desueto; cose che non mi sono state utili solo quando salivo sulla pedana, ma che mi hanno aiutato in tanti frangenti della mia vita quotidiana extra sala di scherma.

            Il maestro si informava di come andavi a scuola, si accorgeva se avevi simpatia per una compagna di sala, ti tirava se sbagliavi qualcosa, magari ridendo, delle frustatine brucianti sulle gambe e, se tornavi da una gara con una coppa, delle tremende pacche sulle spalle che, lo capivi, valevano decine di abbracci; ti spronava a dare l’anima e a sudare, ti tormentava con la preschermistica, ma poi era il primo a ridere con te di una situazione.

            Ecco, la mia speranza è che la figura del maestro non sia molto cambiata e che riesca ancora oggi nella sua impresa più difficile: fare amare per sempre la nostra disciplina.

            Io nella mia vita di schermitore sono stato anche maestro, i miei allievi hanno vinto poco e nulla, ma sono sicuro di avercela messa tutta per trasmettere loro la mia passione per la nostra disciplina.

            Ma torniamo a noi.

            Ovviamente nei grossi club c’era la convivenza di due o anche tre maestri, ma tutto si risolveva in una diarchia spartana o un triumvirato romano; spesso c’era un riconosciuto caposcuola oppure si creavano dei feudi personali in funzione della tipologia dell’arma. Gli istruttori, pochissimi e forse timidi, non si vedevano nemmeno e, comunque, se c’erano, facevano il loro apprendistato ma stavano a margine della vita  della sala.

            In seguito, lo abbiamo già detto altrove, entrò in sala la figura del preparatore atletico nella sua ambivalenza di allenatore specifico dei più grandi e di utile intrattenitore giocoliere psicomotorio dei più piccoli.

            Non furono spesso rose e fiori, ma ormai dopo tanti anni si è capita l’importanza di questa figura e in effetti solo un affiatato tandem può produrre buoni frutti.

            Gli istruttori intanto sono cresciuti come funghi nella buona stagione; sono in carriera, per cui svolgono lavoro di manovalanza poco specializzata, tipo mettere in guardia gli allievi più piccoli, organizzare i tornei sociali, fungere da accompagnatori alle gare quando il maestro è impossibilitato ad andarci ed altre amenità del genere.          Naturalmente scalpitano e talvolta, spiace dirlo, le Società si allevano una serpe in seno, in quanto al momento opportuno, creatisi nel tempo un giro di allievi e soprattutto di genitori magari scontenti, fondano un nuovo club tramite un mini esodo.

            Il movimento schermistico certo non gode di queste dinamiche centrifughe in quanto, non solo si creano attriti e frizioni tra persone, ma anche perché notoriamente è l’unione che fa la forza.

            Meglio, molto meglio, che un Circolo, soprattutto se si trova in una grande città, crei dei gruppi sportivi nella sua interland, dove i più giovani insegnanti possano sfogare il loro desiderio di indipendenza e poi facciano convergere nella Società – madre gli elementi migliori.

            Continuando nella carrellata dei personaggi della scherma finalmente è il turno degli schermitori.

            Abbiamo già detto che nei tempi lontani ci si avvicinava alla scherma da ragazzi, oggi invece tocca fortunatamente anche ai bambini.

            Indubbiamente anche la scherma ha beneficiato della scoperta dello sport come momento educativo ed istante di crescita dell’individuo: la psicomotoria indubbiamente aiuta il bambino nel completamento dei suoi schemi motori, che, al di là dei successi agonistici, sono di grande utilità per saper padroneggiare al meglio il proprio corpo nella vita quotidiana; tra l’altro si socializza, si introiettano regole comportamentali da osservare, si viene a contatto col concetto che c’è qualcuno che vigila sull’osservanza di queste regole (concetto di autorità) e, buon ultimo se non primo, ci si diverte giocando in gruppo.

            Si parla di bambini e doverosamente si parla di genitori; per capire lo stato dei fatti nella scherma si può citare un esempio assai calzante, quello che è accaduto nella scuola pubblica: nei tempi addietro i genitori, tranne rarissimi casi, erano del tutto estranei all’avventura sportiva dei figli; certo venivano alle gare, certamente soffrivano o gioivano in ossequio all’alterna sorte delle umane genti come dice il Foscolo, ma con il Maestro c’era solo un ossequioso buongiorno o buonasera, diciamo che non c’era alcun punto di altro contatto, nemmeno da parte del genitore che aveva fatto scherma in gioventù.

            Poi, piano piano, impercettibilmente, è cresciuto l’azionariato dell’incompetenza e si è cominciato a mettere la lingua a sproposito, similmente come spesso accade nelle scuole.

            Ebbene doveva finire così: ormai da anni alle competizioni hanno fisicamente erto il recinto gara, dove solo atleti e tecnici possono liberamente godersi la scherma; prego si accomodino sugli spalti suggeritori sprovveduti, commentatori fuori luogo e accompagnatori ululanti!

            Talvolta nello stesso club durante gli allenamenti settimanali possono sorgere salottini dove qualche “migliore” semina zizzania e cerca adepti per contestare; è un bruttissimo fenomeno che danneggia l’intero movimento e quindi, a mio parere, va doverosamente combattuto, naturalmente con i dovuti toni e maniere, ma con ferma decisione. E’ da sottolineare il fatto che prima questo strambo fenomeno non c’era, ma non per virtù umana, quanto piuttosto perché agli allenamenti i ragazzi andavano da soli.

            A questo punto non ci resta altro che parlare di chi svolge, il più delle volte da generoso volontario, il ruolo di dirigente, di segretario e infine, dove almeno c’è, di tecnico delle armi. Sono le colonne portanti nascoste della sala, ma preziose e fondamentali per la vita associativa.

            Inutile dire che negli anni ’60 questi personaggi o non c’erano oppure giocavano a nascondino: tutto era fatto in famiglia dal maestro, come abbiamo già detto in precedenza. Crescendo l’associazione, ovviamente cresce la sua vita sociale e giocoforza è approfittare del generoso volontariato di genitori e simpatizzanti; questo è un altro insostituibile ed ammirevole aspetto dello sport amatoriale attuale; quindi grazie a voi tutti.

            Stavo per chiudere il capitoletto, ma hanno bussato alla porta: sono il  nutrizionista e lo psicologo, quest’ultimo sotto le rinnovate spoglie del mental coach.

            Il primo speriamo che, oltre i benefici della sua competenza, ce la faccia ad allontanare i ragazzi dalle merendine preconfezionate e da cose affini, che negli anni ’60 sicuramente non c’erano ed anche se ce ne fossero state sicuramente ce ne avrebbero comunque comprate pochissime; il secondo, il mental coach, che li carichi di giusta energia mentale, preservando il divertimento ed anche un po’ di spensieratezza. D’altra parte è l’epoca di queste nuove figure e molti si aspettano tantissimo dal loro apporto professionale.

            Io, quasi quasi, lascio la porta aperta, sicuramente prima o poi si affaccerà alla soglia qualche altro personaggio di aiuto per lo schermitore, chissà.

 

 

I praticanti la scherma

            L’intervallo storico che abbiamo eletto come ambito evoluzionistico della scherma non è breve, tutt’altro; in aggiunta dobbiamo considerare che la Società in questi ultimi decenni si è trasformata con ritmo da progressione geometrica. Solo tenendo conto di questi fattori è possibile capire come si siano potuti affermare certi principi, talora diametralmente opposti a quelli precedenti: niente scandalo, solo trasformazioni.

            Nei sempre più lontani anni ’60 le sale di scherma erano inizialmente frequentate da schermitori di una certa età, non dico solo da adulti, ma raramente prima dell’età delle scuole medie.

            Poi, lo abbiamo già ricordato, la Federazione Italiana dette impulso alla diffusione tra i più piccoli, quindi categorie di bambine e maschietti di nove dieci anni

            La Società civile, per scelta o necessità, ha sempre più coinvolto i più piccoli, anticipandone culturalmente la pubertà e restringendo il tempo di giocare liberamente; opportunità di crescita fisica e mentale, sviluppo della socialità, divertimento sono del resto utilità a favore dello stesso bambino.

            Alle superiori cominciavi a fare qualche assenza in più per le gare fatte in trasferta ed i professori si distinguevano in due categorie ben precise: quella che, conoscendo il detto latino mens sana in corpore sano, tifava per te e ti favoriva per quanto possibile; quella che, ignorando invece il logico precetto, ti osteggiava quasi con maligna attenzione e perseveranza.

            Oggi ci sono addirittura i licei sportivi, che cercano di indirizzare gli studenti ad una professione in ambito sportivo e di coniugare quindi le esigenze dello studente e quelle dello sportivo; e questa è cosa buona e giusta, tuttavia il pericolo, tanto la storia sappiamo tutti che va a strappi e non per dialisi, è che qualche campioncino prenda voti che non merita in un tema o in un compito di matematica.

            Prova ulteriore del mutamento dei costumi sportivi è il fatto che all’esame di maturità si possano ostentare dei “crediti”, mutuati sia dalla semplice iscrizione ad una federazione sportiva, sia da un apprezzabile palmares in una qualche disciplina.

            Ma passiamo ora alla dimensione ultranazionale del fenomeno evolutivo della scherma: essa veniva esclusivamente pratica dagli appassionati, che nel ventaglio dei singoli atteggiamenti personali, le dedicava parte del suo tempo libero, senza particolari tabelle di allenamento da seguire.

            Per i genitori, se ne ricordavano bene anche i miei, la scherma era foriera di spese, spese e spese: ognuno si doveva attrezzare per il suo equipaggiamento personale, sostenere quasi tutte le spese per le trasferte connesse alle gare (anche se la Società tramite la Federazione Nazionale riconosceva un modesto contributo) e, anche se facevi parte del giro della Nazionale, pagavi regolarmente la quota di iscrizione al tuo club.

            Poi nell’avanzato dopoguerra accadde quello che accadde: alcuni paesi dell’Est, tanto per intendersi quelli al di là dell’orrido muro di Berlino, decisero, allo scopo di propagandare il loro status, di utilizzare come vessillo i successi sportivi internazionali dei loro portabandiera. E come fecero? Non certo utilizzando nuove idee tecniche o quant’altro di affine, ma semplicemente arruolando i propri atleti nelle loro Forze Armate, facendoli diventare de facto dei professionisti, ovvero degli sportivi doverosamente sottoposti ad allenamenti giornalieri come se timbrassero un cartellino in una banca o in una fabbrica. L’idea si rivelò azzeccata e non solo nella scherma, ma in tantissime altre discipline e così ci fu il boom degli atleti dei  paesi dell’Est.

            Nel nostro Occidente intanto c’era un altro polo di interesse: i soldi che qualcuno poteva fare sfruttando alcuni sport di massa e ogni Nazione aveva il suo; biglietti degli spettatori, diritti televisivi, pubblicità e sottoprodotti vari garantivano introiti da capogiro.

            L’idea fu presa al balzo e invece di indignarsi alla luce di quanto Charles Pierre de Fredì  barone di Coubertin aveva proclamato nel 1896 riorganizzando i Giochi Olimpici, l’Occidente capitalistico ha abbracciato questa nuova politica: tutte le attività sportive, anche quelle non remunerative in quanto seguite da uno sparuto pubblico, sono diventate professionistiche.

            Ma attenzione, perché c’è un piccolo sotterfugio giuridico di estrapolazione bizantina: oggi, contraddicendo il senso comune della gente, il sistema legislativo definisce sportivo professionista non colui che, avendone capacità e merito, riesce a mantenersi tramite un’attività sportiva, bensì colui che, non facendo altra attività che lo sport per sostentarsi, è pagato da un certo tipo di Ente. Così Wikipedia ci informa che in Italia gli sportivi professionisti sono solo: calciatori, ciclisti, giocatori di pallacanestro e golf, mentre tutti gli altri sono solo lavoratori dipendenti.

            All’inizio degli anni ’70 le Forze Armate, tra i primi i Carabinieri e l’Aeronautica Militare, fondarono i loro Centri sportivi; in principio i giovani atleti meritevoli effettuavano la leva militare obbligatoria in tali Società, facendo da apripista a coloro che sarebbero diventati i cosiddetti “atleti di Stato”; ne sono stato anch’io un testimone diretto nell’anno 1973 – 1974  sul lago di Bracciano nel Centro Sportivo di Vigna di Valle con il maestro Gianni Augugliaro e, mi si consenta, ho difeso l’onore della mia patria con le armi in pugno, fortunatamente però solo quelle edulcorate della nostra disciplina. Quindi anch’io ho potuto approfittare della fase di interregno storico tra la scherma fatta solo da amatori e scherma che ora si divide tra amatori e professionisti.

            Per chiudere l’argomento devo doverosamente far riferimento ad alcune contraddizioni che si sono verificate: innanzitutto al fatto che atleti, nati e cresciuti in un determinato club, venivano in genere strappati alle loro origini e quindi anche al proprio maestro, non portando più alla vecchia Società il punteggio da loro conseguito nelle competizioni per la classifica del Gran Premio delle Società; in secondo luogo si veniva a creare una frattura qualitativa nell’ambito agonistico tra atleti professionisti e atleti amatori, questo a partire dalla categoria dei Giovani.

            La Federazione Italiana nel tempo ha doverosamente e intelligentemente messo in campo tutta una serie di equalizzatori in modo tale da riequilibrare i rapporti appena sopra evidenziati.

            Oggi il bambino – ragazzo che dimostra spiccate doti nella scherma può dunque mettere in preventivo di stabilizzarsi nelle Forze Armate e questo anche al termine del suo periodo di rendimento agonistico; con i tempi che attualmente corrono nel mondo del lavoro la cosa non è certo da sottovalutare.

 

 

La vita di sala

            La fucina degli schermitori è notoriamente la sala di scherma; ma sarebbe veramente riduttivo parlarne solo in termini di fabbrica di campioni.

            In epoca storica le sale non erano altro che emanazioni culturali: tirare di scherma era un necessario corredo alla formazione di certe classi sociali, soprattutto quelle aristocratiche.

            Fortunatamente poi la dimensione si è imborghesita, sino ad arrivare alla Società contemporanea, in cui tutte le etichette di classe sembrano essere scomparse, in effetti basta avere solo un buon portafoglio.

            All’inizio della storia di cui stiamo trattando la sala era molto caratterizzata topograficamente: erano tutte in sottosuoli, puliti e accoglienti, ma comunque sottosuoli; anche nella opulenta Milano ho frequentato il Centro Addestramento Scherma nei pressi di San Babila, la RAS-Assicuratrice Italiana ed il Circolo della Spada Mangiariotti, tutti abbondantemente sottoterra  …figuratevi nelle altre parti d’Italia!

            Poi agli inizi degli anni ’70 è iniziata la costruzione di appositi palazzetti sportivi su misura per la scherma: tornando a Firenze nella metà degli anni ’70 ne ho trovato uno nuovo di zecca, uguale uguale a quello che ho poi trovato a Jesi, un altro a Savona e, fortunatamente per noi schermitori, via via tanti altri sparsi in tutta l’Italia; era finita l’epoca degli schermitori – talpa!

            Ma entriamo in queste sale: si insegnava ovviamente la tecnica schermistica, ma in contemporanea era anche un luogo di intrattenimento; gli atleti partecipavano alle gare, ma non tutti, qualcuno si accontentava della vita di sala; io mi sono sempre chiesto come potessero non venire a competere alle gare, ma evidentemente loro avevano i loro bravi motivi; probabilmente bastava loro venire a divertirsi a fare scherma, stare con gli amici in sala e muoversi un po’.

            Poi l’agonismo ha giustamente preso sempre più piede ed oggi un atteggiamento del genere non può essere più tenuto.

            A questo proposito mi torna in mente un aneddoto della mia gioventù abbastanza calzante: i maestri, prima di permettere ad un loro allievo di partecipare ad una gara pur piccola che fosse, lo sottoponevano ai famosi raggi X e, potenziali possibilità agonistiche a parte, l’allievo doveva passare un pedissequo esame tecnico circa la qualità della guardia, l’esecuzione dell’affondo, l’agilità della  deambulazione sulla pedana e doti affini. In effetti temevano il giudizio degli altri colleghi che, magari osservando un tiratore, avrebbero potuto proferire con parecchia ironia: ma quello di chi è allievo?!

            La questione era la sintesi di una mentalità dell’epoca, giusta o sbagliata che fosse: estetica prima di tutto e forse non erravano in quanto, come sappiamo, l’osservanza dei canoni dei trattati risponde essenzialmente ad esigenze di migliore possibilità esecutiva dei vari colpi; ma certamente si esagerava.

            Poi un anno arrivò una norma federale che assegnava notevoli sovvenzioni alle Società che avessero presentato alle gare il maggior numero di loro iscritti:  …fu una corsa a mandare ragazzi che avevano cominciato a fare scherma da pochissimo tempo, quasi li andavano a prelevare dalla strada solo un mese prima; evidentemente non importava a nessuno l’ara sacrificale dove con assoluta certezza si sarebbe compiuto il dramma sportivo del neofita.

            E’ da considerare anche un altro fattore: le sale, soprattutto quelle piccole, erano affidate ad un solo maestro, per cui l’organizzazione del lavoro era piuttosto artigianale e limitativa: lezione individuale, soprattutto tanti assalti liberi, qualche breve attività di preschermistica ed ancor meno ginnastica.

            Poi, visto anche in genere il limitato numero di pedane a disposizione, c’erano lunghi tempi di attesa e quindi in genere in sala si parlava, si scherzava e si rideva tra di noi, ma la vera preparazione agonistica programmata era ancora lontana da venire e minore era quindi lo stimolo ad andare a competere fuori del proprio Circolo.

            Col passare del tempo, soprattutto con l’incremento del budget a disposizione, le sale hanno avuto l’opportunità di incrementare le loro attività e quindi pretendere che tutti gli allievi diventassero competitivi.

            Oggi il lavoro è informato alla massima efficienza: diversi turni di frequenza, attività psicomotoria per i bambini, seria preparazione atletica, presenza in contemporanea di più tecnici, presenza di un tecnico delle armi e per i più fortunati …anche possibilità di parcheggio!

            Anche l’assetto economico è del tutto mutato; la Federazione nazionale giustamente organizza corsi per dirigenti sportivi: gestione finanziaria e fiscale della vita sociale, oculata e redditizia ricerca degli sponsor, organizzazione di gare e di allenamenti estivi sui quali sapere fare oculatamente un’utile “cresta”.            Comunque non scordiamoci mai che, subito dopo l’amore per il maestro, lo schermitore ha nel suo cuore la propria sala di scherma, qualunque essa fosse: luogo dove ha iniziato ad incidere pazientemente la dottrina schermistica sulla sua tabula rasa insieme ai suoi compagni  amici-nemici.   

           

           

Gli allenamenti

            Negli anni ’60 molto dipendeva da quale circolo frequentavi, in effetti si poteva spaziare da una piccola ad una grossa e affermata sala di scherma; tra club e club poteva esserci un divario enorme.

            Fino alla categoria allievi, nei club più affollati, in genere potevi frequentare la sala solo un paio di volte a settimana: le pedane erano comunque poche e c’era quindi la questione delle code per tirare, problema risolto spalmando gli atleti in turni di frequenza.

            Poi crescevi di categoria e avevi la possibilità di frequentare la sala tutte le volte che almeno fosse aperta e spesso non lo era per tutti i giorni della settimana.

            Breve aneddoto sentimentale : da cosa si capiva, entrando in sala, che quella sera era presente tal schermitrice carina? Dal fatto che tutti i miei compagni si erano cambiati di fioretto; questo per il fatto che all’epoca le donne potevano solo cimentarsi in quest’arma.

            In seguito crebbero anche i tassi qualitativi agonistici e i due – tre allenamenti settimanali lievitarono almeno a quattro, più le trasferte del sabato – domenica di gara. Il battito cardiaco aumentava, anche perché aumentava quello delle sale concorrenti e nessuno voleva restare indietro.

            Ora il lavoro non solo è costante, ma, essendo portato avanti da specialisti sempre più specialisti, è anche debitamente programmato: preparazione atletica non tipo marines ma quasi, lunghe lezioni individuali, programmazione di incontri per cercare di riprodurre le situazioni di gara; se salti qualche seduta ti chiamano quasi quasi a casa, chiedendoti la giustificazione come a scuola.

            Siamo arrivati agli antipodi del modo di approccio sportivo degli anni ’60, che poi sono stati quelli miei: non mi vengono altre espressioni, oggi in sala, compresi i bambini, fanno tutti terribilmente sul serio; il fine agonistico sovrasta tutto e tutti, l’efficientismo domina ogni dimensione e la scherma, forse giustamente per i giorni d’oggi, si vive indubbiamente con un spirito più consono ai valori e alle dinamiche dell’attuale galoppante Società Civile.

            La speranza, e credetemi lo dico con il cuore in mano, è che, almeno i più giovani, oggi si divertano a tirare di scherma come si divertiva la mia generazione e quelle precedenti.

 

 

Le gare

            Lo schermitore ascolta il maestro, si applica, studia, si esercita e poi va agli esami: le gare.

            E qui in prima battuta è impossibile non citare il campione dei campioni, Edoardo Mangiarotti con cui ho avuto il piacere e soprattutto l’onore di incrociare il ferro quando avevo una quindicina di anni: Io partecipavo a tutte le gare che potevo e in ognuna di esse cercavo di esprimermi al massimo, qualunque fosse il suo livello; volevo vincere.

            Ovviamente c’è gara e gara, ma quale viatico è quello di Mangiarotti: lo schermitore è un combattente e la gara è dove si può mettere alla prova, di fronte agli altri ma anche di fronte a se stesso, è nella competizione che si realizza il suo essere schermitore.

            Purtroppo il calendario delle gare era invece veramente striminzito, soprattutto quello delle competizioni giovanili: campionato regionale, campionato nazionale, qualche rara gara apposita per esordienti, …finis.

            Dovranno passare anni e anni per la nascita del trofeo Topolino della Federazione Nazionale, assieme a tutta una proliferazione di gare organizzate dai singoli club; arriverà anche a livello internazionale la Coppa del mondo itinerante per la categoria “giovani”, dopo la piccola schiera costituita dalla Coppa città di Genova in Italia, il trofeo Schmetz a Parigi, quello di Tauberbischofheim in Germania; oggi sono diventate solo alcune delle tante tappe di un lungo circuito.

            Anche a livello assoluto si è affermata la Coppa del mondo organizzata dalla Federazione Internazionale e si sono quindi moltiplicate le occasioni per poter incrociare il ferro con gli schermitori ai massimi vertici delle altre nazioni. Un tempo queste possibilità si potevano centellinare con un contagocce: in Italia, Lo Spreafico di spada a Milano, la Coppa Giovannini di fioretto a Bologna e a Padova gli sciabolatori nel Luxardo.

            Invero in tempi storici si disputava una specie di Campionato Italiano per Club, Il trofeo Nedo Nadi alle tre armi, una lunga competizione disputata in numerose giornate tipo campionato di calcio con tanto di andata e ritorno; ma nell’epoca che c’interessa purtroppo era ormai caduta nell’oblio.

            Intanto, notizie direttamente attinte dal notiziario cartaceo della F.I.S., in certe regioni ai rispettivi campionati regionali si iscriveva solo un concorrente, che, così senza nemmeno scendere il pedana, diventava campione regionale di quella categoria, come se si trattasse di un concorso per titoli; altri invece, nelle regioni più popolose e ricche, dovevano faticare magari per arrivare in una finale con girone all’italiana ad otto.

            Con buona lena da mezzofondista il numero dei partecipanti è in seguito fortunatamente cresciuto di anno in anno sino ai debordanti numeri attuali, che, talvolta annoverano centinaia e centinaia di atleti alla conclusiva fase nazionale.

            Quindi tutto è cresciuto: superficie dei palazzi dello sport dove poter disputare le varie gare con sempre più pedane, plotoni di arbitri, gradinate per familiari ed associati, bar, stand di materiale schermistico.

            Il tutto eccitato nei numeri da precisi fattori già ricordati in precedenza: l’età minima portata a sette anni, il fatto di poter tirare anche di spada e di sciabola sin dai Giovanissimi, le donne finalmente abilitate a non tirare solo di fioretto, la scoperta della fonte dell’eterna giovinezza per i coraggiosi Master.

            Questo detto per l’attività puramente federale, quindi campionati regionali e campionati nazionali con talvolta relative selezioni interregionali.

            Poi l’iniziativa privata: gare e garette si sono in seguito moltiplicate, vuoi per commemorare uno schermitore deceduto, una Società o quant’altro: ora è come per le notizie su Internet …la difficoltà sta nello scegliere la gara che più si adatta a ciascuno schermitore, vuoi per motivi logistici, vuoi per livello agonistico o quant’altro. Nell’ambiente gira la favola che, andata male una gara, si può montare in macchina e raggiungere velocemente una città per scendere in pedana ad una diversa competizione.

            Comunque lo dicevano anche i nostri padri latini: Melius est abundare quam deficere!

                       

           

Le gare a squadre

            Allora, come del resto oggi, non ci si può passare un’arma al volo a mo’ di pallone oppure duellare schiera contro schiera; quindi giocoforza è che le gare a squadre siano la sommatoria di prestazioni singole, ovvero i vari match.

            Comunque qualcosa è cambiato e non di poco: prima c’era la mera sommatoria delle vittorie conseguite dai rappresentanti delle singole squadre, oggi vige la formula della staffetta; al posto della successione di singole battaglie sino alla vittoria, si è preferito lo schermitore frazionista, che indubbiamente fa molto più spettacolo.

            Ad inizio anni ’60 le squadre erano composte da ben quattro schermitori, che, dovendo ovviamente affrontare i quattro dell’altra squadra, portavano a ben 16 i match da portare a termine; ricordandovi che all’epoca gli assalti potevano durare anche 6 minuti effettivi l’uno, capite bene che, sommati ai tempi tecnici dei cambi sulla pedana, si trattava di combattere almeno in linea teorica per almeno cento minuti, più di una battaglia campale!

            Giocoforza e per sfinimento fu deciso di passare a tre componenti per squadra, portando il tempo massimo di confronto a circa un’ora.

            Per fortuna, forse indotta, per gli incontri di squadra, dopo un primo turno di gironi all’italiana, si utilizzava la decimatoria eliminazione diretta, che talvolta, raggiungendo una squadra già la vittoria matematica nel punteggio, non faceva disputare gli ultimi incontri divenuti ininfluenti.

            La squadra, allora come ora, è comunque una dimensione magica, contrapposta totalmente alla tipica solitudine delle gare individuali, una dimensione che ti fa sentire come una parte di un tutto; ti permette di conoscere a fondo la personalità dei tuoi compagni di squadra: con qualcuno non devi quasi proferir parola, un altro invece devi quasi schiaffeggiarlo prima che salga in pedana. Queste intimità cementano l’amicizia e non te ne scordi nemmeno quando purtroppo lasci l’attività; sono per sempre.

           

 

Formule di gara

            Il periodo storico in esame era caratterizzato dall’utilizzo quasi esclusivo della formula di gara detta a gironi all’italiana: all’interno del gruppo ognuno incontrava tutti gli altri e alla fine si stilava una classifica di merito, in prima battuta in base al numero di vittorie conseguite e in seconda utilizzando eventualmente le stoccate date e quelle ricevute per dirimere situazioni di parità; invero per qualche anno fu utilizzata la loro differenza, in altri il loro rapporto; misteri aritmetici degni della nota associazione guidata a Crotone da Pitagora!

            Questo dall’inizio della gara sino alla finale: una successione di turni nei quali poteva essere eliminata al massimo la metà dei concorrenti. Comunque più frequentemente passavano quattro schermitori su sei, quando il numero dei partecipanti iniziali era stato ovviamente dimensionato ad hoc.

            Quindi dopo un primo turno assemblato secondo le categorie di merito o in base alla personale fama agonistica, si otteneva turno per turno una classifica di merito legata al rendimento dei match, che così si spalmava oggettivamente volta per volta nei nuovi gironi.

            Per un anno si tentò anche con poca fortuna la formula di gironi da quattro a partire dai quarti di finale,  gironi che dovevano svolgersi in contemporanea su due pedane alquanto distanti tra loro per evitare la piaga dell’epoca, cioè i passaggi di vittoria: io sono già passato – ora ti faccio vincere – mi restituirai la vittoria quando in questa gara o in una prossima te la richiederò = una vergognosa banca schermistica di depositi e prestiti, che per qualche tempo ha afflitto le competizioni.

            Le finali erano inizialmente ad otto concorrenti per poi passare dopo qualche anno a sei; in effetti in un girone ad otto si dovevano disputare ben 28 assalti, una specie di maratona schermistica, con lo spauracchio di eventuali spareggi; ecco perché si passò ai 15 assalti del girone a sei concorrenti. Ci fu anche un periodo di transizione in quanto si pensò di far trascinare nella finale ad otto  i risultati tra i concorrenti che si erano battuti tra loro in semifinale, ma la formula un po’ cervellotica durò poco.

            Poi la questione si risolse da sé: il numero di partecipanti era in continua crescita e la formula dei gironi all’italiana diventò ingestibile; si passò per un periodo a fare delle pre selezioni a carattere regionale e/o interregionale per i Campionati Nazionali.

            Poi ineluttabilmente furono spalancate le porte all’attuale formula dell’eliminazione diretta che falcidia il 50% dei partecipanti ad ogni battito cardiaco, tra l’altro configurando per il pubblico, soprattutto per quello non specializzato, un’edulcorata e spettacolare sfida all’ultimo sangue!

            Poi è successo che il numero degli schermitori è ulteriormente cresciuto e quindi siamo tornati alle pre selezioni per poi partecipare alle fasi finali di una gara; ai Giochi olimpici addirittura si è ammessi in 32 con i gironi già fatti.

            Chissà, forse in futuro si potrebbe risolvere la cosa con una battaglia campale!

 

          

La classificazione degli schermitori

            Da sempre in ogni sport c’è stata l’esigenza di stilare una graduatoria di merito degli atleti al fine di regolamentare la partecipazione alle gare di vertice.            Ebbene negli anni ’60, nella scherma e in altre discipline, la questione era stata affrontata creando alcune categorie, cioè gruppi di atleti: punto di partenza erano i Campionati N.C., dove N.C. stava per “non classificati” una specie di limbo in cui fluttuavano tutti coloro che o non avevano mai partecipato a questa tipologia di gara oppure dovevano ancora mettersi sotto con lezioni su lezioni per poter emergere.

            Quindi ogni anno la Federazione organizzava questi Campionati Nazionale dei N.C. in base ai risultati dei quali solo i primi 24 classificati venivano promossi in terza categoria, quindi un primo passo di distinzione rispetto alla massa inconfusa dei non classificati, quasi dei paria.

            Poi le cose si complicavano alquanto perché l’ulteriore passo in avanti, cioè il passaggio in seconda categoria, era riservato solo al vincitore degli appositi Campionati di terza categoria, anch’essi disputati con cadenza annuale.

            E come si faceva ad entrare in prima categoria? Solo per qualche anno sono stati disputati i relativi Campionati Nazionali di seconda categoria, altrimenti  il passaggio dipendeva dai risultati ottenuti nei Campionati Nazionali Assoluti se si era stati ammessi per meriti specifici o, in base al giudizio di un’apposita commissione federale, per risultati ottenuti in gare internazionali.

            Infine c’era il monte Olimpo per gli dei: gli azzurri convocati per i Giochi Olimpici o Campionati del mondo, godevano di un N (nazionale) o una O (olimpionico) come apposizione del nome.

            Il bello era che le categorie non venivano acquisite ad vitam, ma dovevano essere confermate tramite i risultati ottenuti nei rispettivi Campionati Nazionali: ti era concesso un anno di débacle, ma se non recuperavi nel corso del secondo, allora retrocedevi alla categoria attigua meno nobile, come una specie di gambero schermistico.

            Quindi in fin dei conti una classificazione degli schermitori alquanto farraginosa, lenta e per sommi capi; d’altra parte i partecipanti erano quelli che erano e ancora non c’erano i veloci computer, in questo specifico caso proprio i calcolatori.

            In effetti il sistema che vige oggi, quello del ranking, è più capillare e rispecchia più dinamicamente il rendimento degli atleti in itinere; non da trascurare il fatto che coloro che devono prendere delle decisioni sulle convocazioni  hanno, o almeno dovrebbero avere, il lavoro di selezione già approntato, stile trials americano. C’è ovviamente un ranking italiano per ogni categoria connessa all’età, alla specialità e al sesso e c’è un ranking assoluto; parimenti per le attività internazionali.

 

 

Regole di combattimento

            Così a prima vista sembra che non sia cambiato poco o nulla; divertiamoci però insieme a svolgere qualche indagine.

            Prima una giusta osservazione: tutte queste piccole rivoluzioni su cui indagheremo non sono avvenute casualmente, ma sono state spesso il risultato di sofferte decisioni che la Federazione Internazionale ha dovuto prendere in seguito all’attenta analisi delle diverse situazioni, dando la priorità a certi aspetti rispetto ad altri.

            Innanzitutto, come abbiamo già evidenziato, con apposite e reiterate deroghe la pedana ha de facto cambiato la sua larghezza, dimensione spaziale che ha portato limitazione nell’applicazione della tecnica come abbiamo già ampiamente descritto.     Parliamo poi della linea fatale del fine pedana: prima l’arbitro, molto cavallerescamente, dava l’alt e avvertiva lo schermitore dell’ultimo metro a disposizione nel fioretto e degli ultimi due metri nella sciabola e nella spada; ora invece nessuno ti segnala il precipizio della stoccata di penalizzazione. Tuttavia è necessario precisare che prima c’era solo un pezzettino di nastro isolante ai bordi della pista come avvertimento del fatal limite; oggi, almeno alle gare più importanti, cambia addirittura il colore della pedana e lo spettacolo ci guadagna perché l’assalto non viene più fermato per dare l’avvertimento.

            Ma passiamo ora al tempo, perché qui è avvenuto qualcosa di veramente clamoroso: in pratica il tempo effettivo del combattimento è stato dimezzato.

            Prima il tempo massimo effettivo negli assalti a cinque stoccate era di cinque minuti con un eventuale appendice di un ulteriore minuto che veniva formalmente preavvertito dall’arbitro, quindi in un teorico assalto che finisse cinque a zero si aveva un minuto e 12 secondi per ogni stoccata, tempo che diminuiva ulteriormente in presenza di altre stoccate. Oggi, si combatte per tre minuti senza alcun preavviso, quindi il tempo per ogni stoccata valida è sceso a 36 secondi.

            Premesso che per vincere l’incontro non è assolutamente necessario arrivare al top delle cinque stoccate, è indubbio che, riducendo il contenitore temporale, si sia alquanto alterato il tempo a disposizione dello schermitore per la procedura tecnica tanto perorata dal maestro: studio dell’avversario tramite eventuale scandaglio, attesa per la giusta misura e in parallelo scelta del tempo, finalmente esecuzione del colpo.

            Ma il tempo effettivo per la fine del match ha subito un altro attentato: l’avvertimento e la successiva penalizzazione per la cosiddetta scarsa combattività, nel caso in cui si protragga per oltre un minuto la mancanza di registrazione di un colpo e un fattivo contatto tra le lame dei due assaltanti.

            Tra l’altro, come non mettere questa norma in stridente relazione con l’attendismo caratteristico di una specialità come la spada?!

            Quindi credo che si possa commentare che prima il legislatore sportivo aveva concepito il tempo solo come doveroso contenitore limitato per non protrarre sine die il match; oggi le nuove norme relative al tempo indubbiamente vanno ad alterare i tradizionali schemi tattici.

             Probabilmente due sono stati i fattori che hanno determinato la ratio di questo nuovo assetto: contrarre notevolmente la durata delle grosse competizioni, riducendone di conseguenza i costi, e spettacolizzare i match riprodotti sui mezzi televisivi, sforbiciando le noiose pause strategiche per il pubblico non intenditore.

            Un altro aspetto che ci può interessare relativo alle norme o ad una loro diversa interpretazione arbitrale è quello del combattimento ravvicinato, ovvero del cosiddetto corpo a corpo; in precedenza la tecnica schermistica aveva già preso in considerazione questa situazione relazionale tra i due contendenti che si vengono a trovare a stretto contatto, diciamo ad una distanza tra loro inferiore alla lunghezza dei rispettivi bracci armati: i trattati parlano tuttora di rimessa (sullo stesso bersaglio) e di secondo colpo (sul bersaglio opposto); ovviamente si tratta di come raccorciare il proprio braccio armato.

            Attualmente svariate fotografie ci mostrano sui social che lo schermitore riesce a colpire l’avversario tirando il colpo da dietro le proprie spalle o addirittura saltando in alto e facendo passare la lama tra le proprie gambe; a parte la pregevole velocità esecutiva degli atleti, si è indotti a pensare che l’alt dell’arbitro sia più ritardato rispetto a prima quando lo si doveva appunto dare constatando l’impossibilità degli schermitori di svolgere un compiuto fraseggio.

            E’ facilmente intuibile che ci guadagni lo spettacolo con questi colpi acrobatici, molto appariscenti e in qualche caso anche burleschi, ma credo che non sia necessario essere dei puristi ante litteram per sperare che nel corso di un match ce ne siano il meno possibile.

            In coda a questo capitolo dobbiamo ricordare l’annoso problema della sciabola, specialità difficilissima da arbitrare per due motivi ben specifici: primo, la corsa ad attaccare in quanto l’attacco rispetto alla difesa ha maggiori probabilità di successo, come del resto espressamente certificato nell’introduzione del testo ufficiale utilizzato per gli esami di maestro; secondo, la velocità di deambulazione sulla pedana, quasi una vera e propria corsa.

            Nel primo caso succedeva ricorrentemente che i due sciabolatori effettuassero una serie infinita di attacchi cosiddetti simultanei, reiterando oltremodo la durata del match. Quindi si intervenne col concetto di priorità: tramite sorteggio, all’epoca effettuato materialmente con la famosa monetina gettata per aria; uno dei due contendenti aveva una specie di precedenza per cui, in caso di attacco comune, aveva l’assegnazione della stoccata. Poi la priorità spettava all’altro, ma se si era sul quattro pari, il gioco era già fatto e la stoccata contava, eventualmente, solo per il computo appunto delle stoccate.

            Nel secondo caso, al fine di realizzare una specie di limite di velocità nell’avanzamento verso l’avversario, fu introdotta per lo spostamento in avanti la norma che vietava la sovrapposizione della gamba dietro rispetto a quella davanti: quindi niente più corse sfrenate, oggi sostituite da agili e vistosi balzi, tipo stambecco (absit iniuria verbis!).

            Un’altra norma ha cancellato un teorico esito del match, la sconfitta comune. Questa possibilità invero era esistente solo per la specialità della spada, ciò in virtù del fatto che, a differenza del fioretto e della sciabola, essa era ritenuta arma da terreno. Quindi, se scadeva il tempo regolamentare a disposizione e gli schermitori si fossero trovati ad un uguale punteggio, veniva ad entrambi segnata la sconfitta, portando il punteggio sul quattro pari, ciò per l’importanza che le stoccate potevano avere nel computo finale del girone.

 

 

Le trasferte

            Poche le gare, poche di conseguenza le trasferte.

            Almeno nelle regioni più grandi e più ricche ci si spostava per disputare i campionati appunto regionali, ma invece  altrove c’era la solita, sempre uguale sede di gara, tipo stessa spiaggia stesso mare.

             Comunque, data l’esigua schiera dei partecipanti, le gare venivano di norma svolte nelle sale più blasonate e quindi più grandi e ricettive: un indubbio vantaggio per chi da fortunato giocava in casa rispetto a tutti gli altri.

            Nei campionati nazionali, diversamente,  si affermava il metodo della ruota che gira: una gara a Milano, una a Roma, una a Napoli; poi si cambia sede e gara, tanto per muovere le acque; da una certa data, per ovvi motivi di accoglienza logistica, fu immessa nella ruota anche Rimini con il suo tradizionale Gran Premio Giovanissimi. In questo caso la motivazione di fondo era che le gare, finanziate direttamente dalla Federazione Nazionale, avevano bisogno di palazzetti acconci per poter ospitare un numero maggiore di concorrenti proveniente da tutta Italia ed anche di offrire sistemazioni più economiche nella cittadina balneare rispetto alla più costosa capitale.

            Comunque nord – centro- sud si cercava un’alternanza logistica pensando alla  lunghezza delle trasferte; ovviamente eterni scontenti erano sardi e siciliani che dovevano sempre e comunque attraversare il mare.

            I mezzi di trasporto erano ovviamente collegati sia all’età dei partecipanti, sia alle generali condizioni economiche del tempo: il treno era il più sorteggiato sia perché arrivava da tutte le parti, sia perché il biglietto di seconda classe era veramente alla portata di tutti, sia perché era il più sicuro e sia perché poteva ospitare se di caso anche comitive di schermitori abbastanza numerose.

            Come fa la mia generazione a scordarsi i mitici viaggi più lunghi in cuccetta di seconda classe, per la precisione sei per ogni scompartimento, ed anche gli agognati cestini da viaggio con il loro monotono menù composto da una porzione di pasta al forno, un quarto di pollo con patatine fritte e mela rossa.

            A proposito di spostamenti per le gare è doveroso parlare delle famose credenziali: tramite un accordo tra Ferrovie dello Stato ed il C.O.N.I. con questi moduli, compilati con nome, cognome e luogo di gara, al biglietto veniva applicato uno sconto addirittura del 50%, altro che classe Smart di Italo o similari in Freccia Rossa! E queste credenziali, a disposizione degli isolani di cui abbiamo parlato appena poco sopra, valevano anche per il trasporto marittimo e quello aereo, anche se per percentuali minori di sconto: color rosa per il treno, verdino chiaro per la nave e azzurrino per l’aereo, per cromatica memoria.

            Un’indubbia intelligente e generosa mossa a favore dello sport, che, sfortunatamente, nel proseguo del tempo è stata lasciata cadere nel nulla.

            Le prime gare fuori regione rappresentavano una fonte di indicibile divertimento e quindi di felicità: si formava la piccola truppa della sala con a capo il maestro promosso nell’occasione come capo delegazione; genitori a casa e noi all’avventura! Mangiavamo insieme, dormivamo insieme, parlavamo di continuo insieme, gareggiavamo e ci spalleggiavamo insieme anche su pedane distanti tra di loro …ecco come nasceva lo spirito di gruppo.

            Ma per le trasferte, ad una certa età, comparvero anche le automobili: si dividevano le spese di benzina e di pedaggio autostradale per lo sport preferito dai giovani di quell’epoca, cioè il risparmio. Alcuni viaggi, soprattutto quelli effettuati in 500 Fiat che era la macchinetta più diffusa tra i diciottenni, sfidavano il noto principio  fisico dell’impenetrabilità dei corpi: talvolta dovevamo anche vuotare le sacche delle armi per disporre i pezzi di equipaggiamento nei più svariati anfratti offerti dalla macchinetta, ma ridevamo comunque felici della nostra ricca povertà!

            Infine l’automobile prese il sopravvento su tutto e questo coincise col fatto che il numero delle gare iniziò a crescere in modo esponenziale per le dinamiche economiche che ho già descritto in altra parte di questo lavoro.

 

 

Direzione di torneo

            Chi tra di voi ha un’età tale da poter ricordare come erano le banche, le Poste e Telegrafi dello Stato e uffici similari allora potrà immaginare come funzionava un normale direttorio di torneo: tutto a mano o quasi.

            Oggi immetti un dato nel computer e poi te lo rigiri come vuoi nel giro temporale di un clic con il mouse; lo ordini per valore desiderato, ancora un paio di clic e addirittura vengono stampati gironi all’italiana e assalti di eliminazione diretta. Potenza della tecnologia  …almeno questa!

            Prima non era esattamente così: regnava il cosiddetto cartaceo, tutto rigorosamente compilato a mano come facevano nell’antichità gli amanuensi e prima ancora gli scriba. Quindi lentezza procedurale e l’errore umano sempre al varco, evenienza che  produceva il rallentamento per i doverosi controlli.

            Rispetto ad oggi c’era anche un peggiorativo: visto il numero limitato di partecipanti come abbiamo poco sopra ricordato, le gare venivano disputate sempre con girone all’italiana dal primo turno alla finale e quindi tempi tecnici più lunghi rispetto alla falcidie dell’eliminazione diretta.

            In pratica: i gironi di partenza erano compilati solo dopo le avvenute presenze con le teste di serie attribuite per fama e gli ultimi dei gironi per sventura; dal secondo turno poi veniva prodotto per ogni partecipante un cartoncino sul quale venivano trascritti i dati contabili agonistici, cioè le vittorie, le sconfitte, le stoccate date e quelle ricevute; i cartoncini venivano ordinati secondo i meriti aritmetici acquisiti e in base al loro ordine i nomi venivano trascritti sui fogli dei gironi; il tutto sino al girone della finale.

            Risultato: alle gare più importanti e quindi più numericamente frequentate tempi biblici, qualche volta geologici, tra turno e turno con necessari super riscaldamenti, gesti scaramantici e quant’altro.

            Il personale quindi era in proporzione alla tipologia di gara: schiere di ragionieri sportivi e severi controllori coordinati dal mitico Direttore di torneo.

            Poi finalmente l’informatica ha fatto il suo ingresso ufficiale nelle competizioni schermistiche: oggi con due persone potresti gestire una battaglia di Gaugamela con trecentomila macedoni e un milione di persiani!

 

 

 

L’arbitraggio

            Per capire cosa è successo nell’arbitraggio della scherma, almeno limitatamente alla materialità della stoccata cioè al fatto che un colpo arrivi o non arrivi su un bersaglio valido, ci vuole una triade di rivoluzionari: Copernico, Newton ed Einstein.

            Agli inizi degli anni ’60 la situazione era questa: la segnalazione automatica dei colpi di spada già c’era addirittura dagli anni ’30 del secolo; in effetti l’uniformità di bersaglio dei triangolari aveva favorito la realizzazione di un semplice circuito a chiusura: puntina, bussola, cavetti nell’incavo della lama, presa di coccia, passante, rullo con il suo cavo retrattile e macchinetta con segnalazione acustica e sonora.

            Il fioretto invece solo dal 1955 era riuscito ad elettrificarsi (mai usare questo termine in presenza di tecnici delle armi!): in effetti la necessità di distinguere tra bersaglio valido e non valido complicava alquanto la cosa; comunque si riuscì tramite un concetto che sfugge ai non tecnici, cioè la segnalazione avveniva non come nella spada e nel senso comune con una chiusura di circuito, bensì con un’apertura; lasciamo pure l’arcano alla scienza dei nostri preziosi tecnici d’armi, novelli armigeri. Quindi la novità tecnica per i fiorettisti era fresca fresca e, come già detto altrove, doveva ancora essere testata a largo raggio e, tra l’altro, indubbiamente incideva e non poco sul costo dei nuovi componenti dell’attrezzatura, cioè il giubbetto elettrico, il passante e il fioretto elettrificato.

            Una svolta rivoluzionaria c’è stata anche nel 1997 quando, pur rinunziando alla segnalazione del bersaglio non valido, è stato possibile realizzare la segnalazione automatica delle stoccate anche nella sciabola; qui l’attrezzatura si è accresciuta, oltre alle stesse parti del fioretto, anche di una maschera speciale con l’aggiunta di un secondo passante specifico e un guanto parzialmente elettrificato.

            Tutta questa storia dell’evoluzione del materiale schermistico è stata necessaria per capire la parallela evoluzione dell’arbitraggio sulle pedane.

            Rimandiamo al capitolo dedicato alle categorie per età dove abbiamo specificato le singole date in cui era obbligatorio l’uso del materiale atto alla segnalazione automatica delle stoccate.

            Eh sì, perché per le categorie dei più piccoli e per gli sciabolatori era prevista una giuria per assegnare le singole stoccate: c’era il problema della ricostruzione del fraseggio schermistico alla luce della Convenzione, aspetto che vige tuttora, ma c’era anche il problema della materialità dello stoccata, ovvero se un colpo toccava o non toccava e anche del dove toccava, bersaglio valido o non valido.

            La giuria era composta: dal presidente di giuria, l’attuale sopravvissuto arbitro, e dai giurati o assessori.

            Il primo aveva l’incombenza di destrutturare l’accaduto e aveva anche la sorveglianza di tutti i bersagli dei due antagonisti; i secondi dovevano solo osservare i bersagli di uno dei due contendenti, ovviamente quello che avevano di fronte, e, interrogati dal presidente, rispondere con un “tocca”, “non tocca”, “tocca, ma in bersaglio non valido” oppure con “mi astengo” nel caso in cui non fosse stato in grado di esprimere uno dei precedenti giudizi.

            La cosa si complicava un po’ quando i pareri erano discordi: quello del presidente valeva un punto e mezzo, mentre quello dei giurati solo un punto; di conseguenza due giurati concordi prevalevano sul presidente in disaccordo, ma in caso di parità di opinioni prevaleva quella espressa dal presidente.

            E tutto a occhio nudo, con tanto di veloce spostamento ai lati della pedana per seguire quello dei due schermitori, con corpo a corpo e cambio velocissimo di posture.

            I maestri ci dicevano: “non ti arrabbiare se non ti riconoscono alcune stoccate, perché alla fine si pareggia tra tolte e date”; non posso non certificare che questo invece non capitava mai e, guarda caso, gli atleti più blasonati o appartenenti ad un club più importante avevano più dimestichezza con la famosa dea bendata; tuttavia mi preme sottolineare che questo avveniva non per una qualche forma di corruttela, ma solo per involontaria pressione psicologica; del resto errare humanum est.

           

 

 

Gli studenteschi e gli universitari

            Lo schermitore ha necessariamente un suo gruppo di appartenenza, la sala con i suoi colori sociali ed il suo maestro; quando ha la fortuna di essere in Nazionale cambia solo i colori e diventa azzurro.

            Ma c’era anche un altro insolito gruppo di riferimento, il Provveditorato agli studi da cui dipendeva la tua scuola; ottima cosa anche perché altre gare si aggiungevano all’asfittico calendario annuale.

            Dunque, prima di tutto si doveva essere alle Superiori, si doveva saper tirare di fioretto (unica specialità) o almeno adattarsi a farlo e si doveva essere dei maschietti; quindi gare molto selettive: e gli sciabolatori e gli spadisti?! E, soprattutto, le nostre compagne di sala?!

            Le categorie erano due: gli allievi di 16 e 17 anni e gli juniores di 18 e 19.

            Tutto si inquadrava con la mentalità e le condizioni economiche del periodo, evidentemente era stato un prezioso e provvidenziale accordo tra Ministero dell’Istruzione e Federazione Nazionale.

            Formula di gara: veniva organizzato un Campionato studentesco provinciale e solo il primo classificato, appunto il campione, aveva il diritto di presentarsi alla successiva fase interregionale; altro filtro e solo i finalisti potevano finalmente partecipare ai Campionati Nazionali.

            Per queste due ultime fasi eravamo completamente spesati, ovvero l’incaricato del Provveditorato, di solito un professore di Educazione Fisica che magari non sapeva nulla di scherma, si occupava di tutto: biglietto ferroviario, pernotto e pranzo,  roba quasi da semi professionisti dell’epoca.

            Nel tempo purtroppo è scaduta la convenzione tra i due enti che evidentemente aveva una certa durata temporale, ma dopo almeno un decennio, proprio nei giorni in cui sto scrivendo queste righe, ho letto che è ripresa la collaborazione tra Scuola e Federazione e quindi per qualcuno si profilano nuovi e felici orizzonti di gloria.

            Ma non è finita qui perché, conseguita la maturità ed iscritti ad una facoltà, per gli schermitori si schiudevano le porte degli Universitari organizzati dal C.U.S.I.: qualche rara Università organizzava anche i Campionati Interfacoltà alle tre armi e finalmente anche con il fioretto femminile.

            Poi direttamente c’erano i Campionati Nazionali: clima da piccoli Giochi Olimpici con la possibilità anche di andare a tifare per la propria squadra di pallavolo, pallacanestro e vedere altre specialità non conosciute.

            Anche in questo caso tutti spesati e felici, spese di trasferta a parte, ma eravamo già maggiorenni, indipendenti e macchina dotati.

            Per i più bravi c’era poi la possibilità di essere convocati in Nazionale per disputare con cadenza quadriennale le Universiadi con i corrispettivi studenti di tutto il mondo.

 

 

Giornalino F.I.S.

            Oggi siamo subissati da immagini, foto e video, sui numerosi strumenti che la tecnologia offre alla nostra curiosità.

            Ancora negli anni ’60 fortunato era chi fosse in possesso di una semplice macchina fotografica; e questo non bastava, perché poi dovevi essere anche avere una qualche nozione tecnica: calcolo della distanza dell’oggetto da immortalare e apertura del diaframma in funzione della luminosità del momento, raccomandazioni al soggetto di stare un po’ fermo e, il più delle volte, avvertimento di sorridere.

            Poi la pellicola contenuta nella macchina fotografica concedeva una trentina circa di scatti, finiti i quali, dovevi nell’oscurità più assoluta, estrarre il caricatore finito ed inserire quello nuovo, utilizzando due ruotine con tanti dentini quanti un piccolo squaletto. Tutti facevano le foto in bianco e nero non perché fossero degli artisti, ma per il semplice motivo che quelle a colori erano piuttosto costose e poi, detto fra di noi, non venivano nemmeno un granché.

            Qualche ricco borghese iniziò poi ad impugnare delle cineprese per riprendere le fasi salienti dell’assalto, ma solo quelle veramente topiche, ciò ancora una volta per il risvolto economico della cosa e per il fatto che la pellicola durava circa per tre minuti al massimo; per di più la qualità delle immagini poco si discostava dai primi tentativi dei fratelli Lumière!

            Insomma avete capito, nei primi anni ’60 video rarissimi e fotografie solo in occasione di prime comunioni, matrimoni e gruppi scolastici …proprio come non oggi!

            In questo clima immaginatevi quando con cadenza mensile arrivava a casa il giornalino cartaceo della Federazione: corsa alla cassetta, frenesia di consultazione, svenimento assicurato se, uno su diecimila, figuravi in una foto se eri arrivato almeno in una finale nazionale; roba da portare il giornalino in classe e da ostentazione con parenti ed amici.

            Poi la redazione fu chiusa, ma il cambio, come ben sapete, è stato senz’altro vantaggiosissimo: un bel sito su internet, facebook e quant’altro per una distribuzione più abbondante di gloria visiva per tutti, democraticamente anche per quelli eliminati al primo turno; come sarebbe piaciuto al nostro amato barone di Coubertin!

            Poi, per chi se le merita, interviste, notorietà e visibilità sempre più in crescita: TV nazionali, TV regionali e numerosissime allocazioni su internet.

 

 

Immagini

            Oggi viviamo di immagini: quelle che produciamo noi e mandiamo agli altri tramite i social e quelli che, forse per vendetta, gli altri mandano a noi.

            Una valanga di immagini, fisse o nella forma dinamica dei video: meno male che c’è la memoria eidetica, così non dobbiamo faticare più di tanto a ricordare le cose.

            E alle nostre gare dell’epoca? Forse ad un paio, forse a tre, a cui ho partecipato c’era un fotografo, diciamo ufficiale; girava tra le pedane e poi scompariva, tornava appena era riuscito in tempo record a sviluppare la pellicola e a stampare le fotografie, che poi appendeva a dei fili con dei fermagli; qualcuno comprava qualcosa, ma onestamente le foto non erano certo di grande qualità. La consolazione era che non dovevi perdere tempo a scegliere quella migliore, se comparivi anche in una sola andava già di lusso.

            Qualche volta il comitato organizzatore, molto generosamente, prendeva una busta e inviava le fotografie a coloro di cui conosceva nome e cognome, informandosi presso la Federazione sull’indirizzo; tutto in barba alla privacy circa la quale dobbiamo oggi dare la deroga ad ogni piè sospinto.

            E dire che, non tanto le immagini, quanto i video sono degli strumenti didattici della massima importanza, in quanto consentono agli schermitori di vedersi in azione sulla pedana e trarne delle indicazioni per migliorare sia il proprio assetto di guardia che il modo di tirare i vari colpi.

            A questo proposito mi torna in mente che quasi sempre nelle sale c’era un grosso specchio; gli occhi dell’avversario, lo aveva ribattezzato un mio maestro, che ci invitava ad uno ad uno a metterci in guardia e a correggere le nostre immancabili imperfezioni; un altro, più spiritoso, ci chiamava e diceva: Specchio, specchio delle mie brame, chi è lo schermitore più bello del reame?…era la tecnologia dell’epoca!

 

 

I media

            Abbiamo appena parlato di fotografie e di video, ebbene queste fanno letteralmente il giro del mondo quasi motu proprio; non c’è più bisogno del cartaceo dei giornali e dei giornaletti; il tuo computer è una finestra sul mondo, con vista sul mondo – scherma. E’ tutta una pletora di siti, account e similari che rimbalzano alla velocità della luce, notizie corredate da fotografie alla Hamilton e video degni del Leone d’oro di Venezia; approfitto per ricordarvi che c’è anche il mio sito passionescherma.it, dove c’è di tutto, soprattutto passione!

            E nei decenni precedenti ad internet come andavano le cose per le cronache del nostro mondo?

            La televisione, a parte che inizialmente aveva solo un canale, non trovava certo il tempo di parlare della scherma, era un miracolo che se vincevi un’Olimpiade citassero almeno il nome e cognome.

            C’era solo una speranza: la rosea, ovvero la celeberrima Gazzetta dello Sport. Però dovevamo accontentarci delle ultime pagine e gli articoli difficilmente avevano una superficie maggiore di un francobollo espresso: quasi sempre poi le notizie consistevano nella trascrizione nuda e cruda della classifica finale della gara, col condimento di una decina di parole che in fin dei conti non dicevano proprio un bel nulla. Mia madre, come credo molte altre, il lunedì andava dal giornalaio e febbrilmente andava alla ricerca del mini articolo e felicità era trovare il mio nome e cognome.

            Invero, se le gare venivano disputate in qualche capoluogo di provincia quindi né in una grossa città come Milano né in un paesino di montagna, c’era l’alta probabilità che la gara fosse assurta ad evento e quindi degno di citazione sul quotidiano locale. Ebbene, sempre le mamme, all’edicola compravano questi quotidiani di città lontane.

            Al giornalino cartaceo autoreferenziale della Federazione abbiamo già dedicato un intero capitoletto, ma come fare a non ritornarci sopra: era l’unica eco alle nostre piccole – grandi imprese sportive; lì sì che trovavi non solo le classifiche, ma anche commenti e considerazioni sulle prestazioni.

            Ne ho conservate alcune copie, quelle ovviamente sulle quali appare il mio nome; qualche giorno fa mia moglie Elena ha mostrato qualche giornaletto ai nostri nipotini, cinque per la cronaca; ma, nonna, i giornali prima li stampavano su carta gialla?, ha chiesto uno di loro; no, ha risposto mia moglie, il fatto è che non invecchiano solo i nonni, ma anche i giornali!

 

 

Oggettistica varia

 

Tesserino della Federazione

            Un rettangolino di cartoncino color giallo paglierino, con i dati battuti a macchina e la firma autografa del Presidente, come si fa a dimenticare il primo tesserino che certificava l’appartenenza alla Federazione Italiana Scherma! E non credo che abbia fatto battere forte solo il mio cuore di dodicenne: un senso di appartenenza che ancora oggi, dopo sessant’anni, pur lontano dalle pedane ancora mi tiene avvinto.

            Sul retro c’era tutto un insieme di caselline dove diligentemente, anno dopo anno, dovevamo attaccare un bollino relativo alla stagione agonistica in corso; in effetti perché rifare tutto ex novo?! Bastava solo un nuovo piccolissimo rettangolino di carta e niente spreco, come ormai ci siamo invece abituati a fare in tutti i campi senza rendercene più conto.

            Poi è arrivata la plastica, o quello che è, e siamo diventati ad un certo punto tutti moderni e alle gare si fa come entrando sul posto di lavoro o con le prime carte di credito, si striscia la tesserina; del resto tutto più comodo e veloce rispetto al vecchio metodo di dare a voce la presenza alla direzione di gara.

            Almeno la tessera di cartone si usurava, mentre oggi la tesserina indistruttibile te la cambiano ogni anno (vedi il commento sull’usa e getta di poche righe sopra).

 

 

Distintivo della Federazione

            Questa è un’eccezione rispetto a tutto quello che vi ho e vi sto ancora narrando della storia del mondo – scherma: il distintivo è sempre stato uguale.

            Ma volete sapere quanto è piccolo il mondo?! Ebbene, il marchio di fabbrica sul lato posteriore testimonia in modo inconfutabile che si tratta di un prodotto della fabbrica di mio zio Luigi, zio acquisito tramite la sorella di mia madre, Paola.

            Un unico neo per i nostri primi tempi di schermitori – ragazzi: come ben si vede dall’immagine il distintivo per poter essere alloggiato e ostentato aveva bisogno dell’asola di una giacca, capo di vestiario abbastanza raro per la nostra giovane età, giusto la Prima Comunione o un matrimonio a cui andare.

            Ma mio zio provvide intelligentemente con l’attuale modo di attacco tramite spillo:          e tutti i ragazzi ora possono orgogliosamente esporlo anche su una maglietta o una felpa.

 

 

Cinghino per maschera di sciabola

            Nella parte dedicata all’equipaggiamento individuale vi ho già parlato della maschera apposita per la sciabola, caratterizzata da una specie di tettino di cuoio fissato sulla sua sommità.

            Ebbene i più risparmiosi o quelli che, tirando saltuariamente in questa specialità, non volevano comprare due maschere, avevano a disposizione una vera volpata tecnica, cioè un cinghino con fibbia da fissare tutto intorno alla maschera stessa con lo scopo di farla durare di più.

            

 

Gomitiera per sciabolatori

            Attrezzatura ancor più rara, vera delizia dell’antiquariato schermistico: in pratica una specie di piccola calotta di duro cuoio dotata di cinghietto, che, fissata appunto al gomito, ne preservava l’incolumità per tema  di sciabolate un po’ troppo violente.

            I più, malignamente, sostenevano che lo sciabolatore aveva poco coraggio, altri sostenevano invece che faceva solo moda. Un mio maestro tagliò corto: uno schermitore valido deve parare tutti colpi!

 

 

Cinghietto ferma impugnatura

            Io personalmente non l’ho mai usato, ma testimonio di averlo visto più di una volta.

            Il problema nasceva dal fatto che l’impugnatura cosiddetta italiana, lo abbiamo detto ed anche fatto vedere in altre pagine di questo lavoro, aveva un problemino non indifferente: dopo cinque minuti che lo tenevi in mano, il dito medio cominciava ad essere letteralmente torturato da uno dei due archetti e quindi ne soffriva la presa sull’arma.

            Serviva un aiutino e molti, tra i quali ricordo il mio amico Alberico di Brescia, utilizzavano una lunga benda a mo’ di ferma manico, girando, rigirando e girando ancora per varie volte il tutto attorno al polso.

            Altri, più frettolosi o forse più organizzati, possedevano un corto cinghietto di vera pelle, che svolgeva questa funzione di serrare il manico alla mano; non so quale potere di angolare il polso conservassero, ma a loro piaceva così.

           

 

Conchiglia

            Manufatto destinato ai solo maschietti in quanto aveva la funzione di proteggere i genitali dalle puntate, soprattutto quelle della più rigida lama di spada.

            Invero di uso raro e quasi occultato per pudore anche negli spogliatoi da chi lo indossava; il solito maestro si appellava al solito concetto: uno schermitore valido deve parare tutti colpi!

 

 

 

Coppette

            Per par condicio, devo citare, anche se l’ho già fatto in altra parte di questo lavoro, le coppette metalliche aventi la funzione di tutelare dai colpi il seno delle schermitrici.

 

 

Premi alle gare

            La scherma sotto questo aspetto è sempre stata alquanto generosa: coppe, medaglie e quant’altro hanno sempre gratificato i risultati dei partecipanti.

            Probabilmente la cosa è stata possibile anche per il fatto che le gare non erano poi così numerose, per cui non occorrevano grandi quantità di oro, argento e bronzo.

            Scherzi a parte una cosa va subito detta: alle gare si partecipava senza pagare direttamente alcuna quota, o meglio l’iscrizione alle gare nazionali era a carico delle varie Società, che, d’altra parte, poi avevano un boomerang di ricompensa economica in funzione di una classifica generale finale dopo ogni anno agonistico, il cosiddetto Gran Premio delle Società.

            Ai cosiddetti regionali o agli sporadici tornei organizzati dalle maggiori Società si partecipava liberamente, senza alcun obolo in denaro; c’era solo l’eventualità che, se dopo esserti iscritto ad una gara non ti presentavi senza aver dato notizia entro il termine stabilito, dovevi poi pagare una doverosa multa, comunque di modestissima entità.

            Nonostante la gratuità, era prevista quasi sempre una medaglia, ciondolo o ammennicolo quale ricordo di partecipazione: un pensiero veramente gentile in quanto, in genere, le medaglie al valore e le coppe degli Dei, riempite da Ebe e da Ganimede, erano di stretta competenza solo dei finalisti; in tal modo invece tutti avevano un pur piccolo strumento proustiano per facilitare il ricordo della gara; devo dire che qualche medaglia era anche di pregevole conio, lo sto verificando personalmente dopo decenni di loro invecchiamento.

            Poi fu scoperta una magia capitalistica: gli atleti versano una quota di partecipazione – l’organizzazione si fa carico delle spese di varia natura (affitto del luogo di gara – arbitri – direzione di torneo – acquisto dei premi …luce, acqua e gas!) – se si è esperti e bravi, il Club riesce poi anche a fare la cosiddetta cresta e mettere in cassaforte qualcosa per finanziare la propria attività di sala.

            Indubbiamente, battute a parte, questa opportunità ha consentito nel tempo di tessere un nutrito programma di gare, che è andato a soddisfare le golosità agonistiche degli atleti, soprattutto di quelli di più giovane età.

            A differenza dell’estero dove lo hanno fatto da sempre, ora ha preso piede anche in Italia da qualche anno il costume di accompagnare le solite coppe e medaglie anche con oggettistica varia; talvolta anche bottiglie di vino e generi alimentari, questi ultimi soprattutto in auge alle gare master; comunque vale il detto a caval donato, non si guarda in bocca!

            E, a chiusura del capitoletto, come fare a non menzionare cosa accadeva nelle prime edizioni del  Gran Premio Giovanissimi?!

            Ai vincitori delle varie categorie e specialità: titolo, coppa, medaglia d’oro della Federazione e …corso estivo gratuito a Zocca per i ragazzi e a Pievepelago per le ragazze. Zocca, la mamma di tutti gli allenamenti estivi di questi ultimi tempi.

            Mangiare tutti insieme (le mense scolastiche ancora non avevano preso piede), dormire in camerate di una ventina di letti l’una (altro che tristi camerette a due soli letti), fare scherma (soprattutto tirare in liberi assalti non con i soliti compagni di sala) per mezza giornata e nell’altra metà imparare a nuotare o a giocare a tennis. Riuscite ad immaginare qualcosa di più entusiasmante per un ragazzo della metà degli anni ’60?! Ricordi indelebili da far da appendice a La ricerca del tempo perduto.

            Oggi ci sono tanti di quegli allenamenti estivi che la difficoltà risiede nello sceglierne uno: i vari club, in parallelo all’organizzazione delle gare, cercano anche in questo caso di trovare qualche ulteriore introito per le loro casse; felicità sì, ma oggi si presta anche attenzione al valore aggiunto della preparazione atletico – schermistica.

 

 

I  bi – arma

            Oggi forse meno, ma prima erano molto numerosi gli schermitori che si cimentavano in due specialità, solo due perché una precisa norma federale vietava  di tirare in tutte e tre le armi nello stesso anno agonistico.

            I motivi erano vari: innanzitutto per la già ricordata scarsità di competizioni, poi per il fatto che alcuni schermitori erano assetati di gloria agonistica più di altri e infine per lo stimolo esercitato dalle Società che tramite più gare aspiravano ad una migliore classifica nell’annuale Gran Premio a loro riservato.

            Indubbiamente ogni schermitore amava più un’arma rispetto alle altre oppure era costretto in una sala piccola ad allenarsi in una che invece gli piaceva meno: le gare rappresentavano ovviamente una doppia opportunità.

            Quello che è interessante alla nostra prospettiva storica è l’abbinamento che veniva fatto tra le tre specialità.

            Inizialmente prevaleva di gran lunga il fiorettista – sciabolatore, relegando quindi gli spadisti ad una diversa dimensione.

            A parte il meridiano dove si collocava la sala, la cosa si spiegava in questi termini: prevaleva la presunta forma mentis dello schermitore rispetto alla tecnica schermistica. In altri termini si pensava che l’essere dei “convenzionali” fosse determinante per l’abbinamento di due armi, appunto il fioretto e la sciabola; mentre altra cosa fosse essere dei tiratori basati prevalentemente sull’anticipo temporale del colpo del colpo.

            Poi la scherma si è velocizzata e la segnalazione automatica del colpo ha sdoganato statisticamente anche nelle armi convenzionali le uscite in tempo, prima sia meno rilevabili visivamente, sia meno tollerate esteticamente dai buongustai; il diaframma era caduto.

            Il nuovo binomio fu fioretto – spada: in effetti le due tecniche di base erano molto uguali tra di loro; si colpiva solo di punta, le parate erano simili se non proprio uguali e così via. Toccò alla sciabola essere relegata come diversa: in effetti particolare è la postura di guardia, particolari sono i colpi di taglio e di controtaglio, le parate hanno coordinate spaziali completamente diverse e così via.

            Ci fu un periodo di transizioni in cui spesso in un assalto di fioretto si faceva per lo più spada ed in uno di spada invece fioretto.

            Oggi, direi fortunatamente, le specialità hanno assunto delle configurazioni molto più specifiche in relazione alle loro peculiarità tecniche e regolamentari.

 

 

Gli assalti accademici

            Siamo arrivati a un qualcosa che è un contraltare al comune sentire di oggi, quindi mi impegnerò al massimo per descriverlo al meglio.

            Chi più di uno schermitore sa che l’importante è vincere: se vuoi la gloria in palio devi battere l’avversario che hai davanti.

            Questo non può essere messo in dubbio, ma nell’assalto accademico, detto anche semplicemente accademia, sì.

            E cosa avviene? Avviene che, c’è in questa dimensione un valore più importante e pregnante della semplice sopraffazione, c’è l’arte o se preferite la scienza schermistica: non è più importante solo toccare l’avversario in tutti i modi possibili, o meglio, lo è ancora, ma facendolo anche con stile.

            Punto di partenza una guardia impeccabile, come da pag. 15 di un certo trattato di scherma, una fulminante botta dritta al petto dell’avversario (pag. 21), una pulita parata di quarta con risposta di cavazione (pag.25), un arresto neanche all’avambraccio, ma addirittura con angolazione alla mano (pag.32)   …avete capito: il tentativo comunque di una riproduzione quanto più fedele è possibile della teoria schermistica.

            La situazione non è quella di tirare di scherma in un’arena di gladiatori, ma di pennellare stoccate per far vedere di cosa si è capaci con un’arma in mano: di conseguenza si battono le mani non tanto e solo se si vede un colpo andare a segno, ma soprattutto per la qualità del gesto tecnico che lo realizza.

            Piccolo trucco: io ho avuto personalmente la fortuna di essere convocato più volte a disputare questi assalti accademici di fronte alle più svariate platee; l’importante era mettersi d’accordo con l’avversario e pianificare un brogliaccio con le stoccate più appariscenti e spettacolari, da realizzare ovviamente con alternanza di colpi vincenti da ciascuna delle due parti.

            Le stoccate non erano conteggiate, appunto a sottolineare la dimensione particolare dello scontro; poi, come d’uso, l’arbitro chiamava le ultime tre stoccate ed era in queste che ci disputavamo la pur effimera vittoria; ma l’attenzione restava sempre al rispetto dei canoni.

            In queste situazioni avverti chiaramente che non sei più tu sulla pedana di fronte al pubblico, sei invece il rappresentante del più antico e del più nobile degli sport, come mi ripeteva molto poco disinteressatamente uno dei miei maestri: fai vedere cosa è la scherma!

 

 

Premio per lo stile

            Quasi come un’appendice dell’ultimo argomento trattato vorrei citare un’altra usanza andata completamente in disuso: il premio allo stile.

            Qui non si trattava di partecipare ad un accademia, ma di essere in possesso di quella che nei tempi andati veniva denominata una scherma pulita: gli incaricati andavano in giro per le pedane sulle quali si disputava la gara e tenevano d’occhio appunto gli schermitori che richiamavano nel loro tirare più fedelmente i canoni classici, perché a fine gara c’era in palio un premio speciale per lo stile.

            Oggi, tutti incentrati sui valori pragmatici e non solo nella scherma ma anche nella Società Civile, ci sembra strano che si dia importanza anche all’estetica di un qualcosa: dobbiamo invece riuscire a qualsiasi costo a raggiungere un certo risultato.

            Ma per capire l’importanza dello stile nella fattispecie-scherma è doveroso fare un breve ragionamento: i trattati nel tempo non hanno teorizzato posture e colpi per far diventare bello ed elegante lo schermitore durante il combattimento sulla pedana; tutto il contrario, teorizzando una guardia stabilizzata sul baricentro del corpo hanno indicato la sua migliore posizione per renderlo più dinamico e reattivo, descrivendo una minuziosa cavazione tramite una spirale avanzata per svincolarsi da un legamento dell’avversario hanno indicato la traiettoria spaziale più breve e quindi più veloce per giungere a bersaglio, indicando le precise coordinate spaziali per eseguire una certa parata hanno gettato le basi per la più pronta e vincente risposta …e così via.

            Ne consegue che l’ossequio ai canoni mette lo schermitore nelle condizioni ideali per duellare; poi ovviamente interviene il limite umano e quindi un piede sta un po’ storto, le spalle non sono precisamente alla stessa altezza e sul manico si applica una forza muscolare superflua  …e così via.

            Per chi sa di scherma è questa la battaglia che ogni schermitore combatte con se stesso, prima ancora di incrociare il suo ferro con l’avversario: ecco a cosa servono le interminabili lezioni con il proprio maestro, che fa bene a rimproverarti perché è proprio vero, lo schermitore può sempre fare di meglio.

            Se vi capita, guardate in azione un campione, uno che ha vinto qualcosa di importante: anche chi non capisce nulla di scherma intuisce che ha qualcosa in più rispetto agli altri, basta guardarlo in guardia e vedergli tirare qualche colpo.

            Ovviamente il vincitore di una competizione deve essere quello che  …vince; ma, secondo il mio parere, non sarebbe disdicevole riprendere a dare anche un premio per lo stile, non fosse altro per comunicare soprattutto ai più giovani che esistono anche altri valori di riferimento oltre a quelli meramente pragmatici.

           

 

Dieta dello schermitore

            Negli anni post-post guerra ovviamente nessuno parlava di dieta, i problemi erano purtroppo per molti ancora di natura opposta.

            Comunque, probabilmente da oltre oceano la ricetta era già pronta: mai pastasciutta, solo bistecche al sangue da far invidia a Dracula in persona.

            Ma ancor prima del solido parlerei del liquido; in effetti le gare sembrava che fossero organizzate nel deserto: niente acqua in giro, tranne quella degli spogliatoi, notoriamente calda e veramente schifosa. Sarà perché le bottiglie di plastica ancora non avevano invaso il mondo e ci si peritava a portare alle gare le bottiglie di pericoloso vetro  o ci si vergognava a portare le borracce, sta comunque il fatto che non c’erano liquidi di sorta in giro.

            I maligni avrebbero potuto osservare che alle gare c’erano solo quattro gatti ed anche chi vinceva non doveva sudare le famose sette camicie; inoltre che le gare erano pochissime ed in genere si svolgevano non nei mesi caldi. Già, e se uno assumeva la lecita droga dell’epoca, cioè le zollette di zucchero dello zuccherificio Eridania?

            Poi non solo arrivò la plastica con l’acqua, ma arrivarono anche bibite, bibitine, energetici e chissà cos’altro.

            Ma torniamo al solido: io avevo la mamma laureata in Farmacia e mi aveva consigliato appunto lo zucchero appena citato; io di natura sono anche goloso e quindi il gioco era fatto. Ma la bistecca, soprattutto al sangue, l’ho dovuta trangugiare quasi ad occhi chiusi per anni.

            Poi una rivoluzione culturale (tardiva) superiore a quella cinese: Ma siete pazzi a dare la bistecca ai ragazzi …è necessario vedere quanto tempo ha lo schermitore prima di essere richiamato in pedana.

            Era la verità e portava con sé una cosa che da italiano verace mi riempì di gioia: per brevi tempi digestivi era addirittura consigliata la pastasciutta, magari non carbonara o amatriciana, ma pur sempre pastasciutta.

            Oggi, finalmente molto scientificamente, ci sono integratori e similari a disposizione: e questo, direi, non solo e tanto per la resa in gara, ma anche per il rispetto della fisiologia dell’atleta.

            Poi ci sarebbe, a latere, anche il delicato argomento delle sostanze dopanti, ma per fortuna questo tema esula dagli scopi di questo mio lavoro e, fortunatamente, posso evitarlo. Mi permetto, solo ad indice di quello che penso a riguardo, ricordare l’eroe omerico Ulisse: simbolo dell’uomo che tutto vuole provare e conoscere, pure il canto delle sirene senza cera negli orecchi, ma niente polvere bianca dei Lotofagi, che non solo rapisce l’uomo dalla realtà, ma che arreca anche danni irreparabili al suo corpo.

 

 

Evoluzione della tecnica schermistica

            Nella vita tutto cambia; e non volete che cambi qualcosa anche nel modo di tirare di scherma in sessant’anni?!

            Prima di entrare nello specifico, cioè nel tecnico, è interessante, credo, individuare le cause prime di questi cambiamenti, che in qualche caso sono stati veramente epocali.

            Li riassumerei così: adozione totale della segnalazione automatica delle stoccate, marcato aumento della prestazione fisica dello schermitore, cambio di mentalità tattica, utilizzo di nuovi materiali, indirizzi di arbitraggio.

            Il primo argomento è alquanto ovvio: una cosa è portare una stoccata che deve essere percepita visivamente dalla giuria, un’altra invece è quella fatta rilevare da un apposito sensore. Il colpo per essere visto non può essere ultraveloce e deve tra l’altro colpire bersagli come si dice bene in vista: altrimenti non ti attribuiscono la stoccata. Quando invece i limiti percettivi umani non scendono in campo e ci si affida ad una tecnologia ad hoc (circuiti elettrici che si chiudono o che si aprono), puoi anche essere Flashman.

            Di conseguenza, tecnicamente, i colpi possono abbandonare le pur convenienti traiettorie rettilinee e cercarne altre, tipo quelle che la geometria definisce spezzate miste (leggasi fuetto); ciò nel tentativo di rendere più difficoltosa la difesa nel suo lavoro di intercettamento tramite una normale parata col ferro.

            Comunque resta anche il “vecchio” e questa nuova tipologia di portare il colpo produce un importantissimo effetto tattico: quello di ampliare a dismisura le possibili tipologie di attacco a disposizione di chi si risolve a prendere l’iniziativa.

            A questo punto non posso esimermi dall’affrontare uno specifico tema riguardo la sciabola: quando le stoccate erano a vista, sussisteva in questa specialità il cosiddetto bersaglio non valido e, se l’attacco ci finiva sopra, questo non portava ovviamente all’aggiudicazione del colpo, ma almeno produceva il vantaggioso effetto di chiudere la ricostruzione convenzionale del fraseggio, annichilendo quindi la reazione dell’attaccato.

            Oggi, come ben sappiamo tutti, un colpo di sciabola di attacco portato fuori bersaglio valido non è segnalato, non interrompe alcunché e quindi chi ha commesso questo errore è piena preda dell’avversario. In questo caso il non colpire validamente viene pagato a caro prezzo e la precisione del colpo assume quindi una rilevanza ancor più determinante nella gestione tecnico – tattica del match.

            Indubbiamente la Federazione Internazionale ha ben valutato la situazione e, magari in attesa di una prossima ed auspicabile applicazione tecnologica in merito, ha dato la precedenza all’altro valore in palio, ovvero alla certezza circa la materialità della stoccata.

            Di fatto è successo che ora i bersagli, diciamo bassi, sono alquanto a rischio, perché basta un minimo innalzamento tramite un salto dello schermitore che subisce l’attacco per portare la sua linea d’attacco su un suo bersaglio non valido e quindi non oggetto di segnalazione alcuna. Tatticamente quindi i colpi sono staticamente indirizzati con più favore verso i bersagli alti.

            Passiamo ora ad analizzare, come accennato in precedenza, un altro fattore evoluzionistico delle tattica schermistica: un marcato aumento della prestazione fisica.

            In precedenza il baricentro dello scontro sulla pedana coincideva con il lavoro tecnico del braccio armato; orbene non è che oggi quest’ultimo non continui a svolgere la sua importante funzione, ma diversa è la propulsione atletica che si è riusciti a dare all’attacco. In effetti si è passati da una guardia abbastanza acquattata sulle gambe che conferiva appunto al braccio armato una maggiore stabilità e quindi precisione di punta, ad una guardia, caratterizzata da continui balzelli, clamorosamente più agile e propulsiva per lo spostamento in avanti in combutta con un braccio armato non in linea, ma in perenne movimento quasi acrobatico. In effetti meno indotte e prevedibili sono le traiettorie dei colpi, più cresce la difficoltà da parte della difesa di riuscire ad intercettarle.

            Per riuscire ad ottenere questo tipo di prestazione lo schermitore ha dovuto incrementare la sua capacità di produrre diciamo una sua fisicità: partendo dall’incremento della sua forza muscolare esplosiva, si è poi giunti doverosamente alla resistenza alla fatica per poter continuare ad attingere energia in modo continuativo.

            Dobbiamo ora affrontare un altro argomento a mio parere connesso con l’evoluzione della tecnica schermistica: cambiamento di mentalità tattica.

            E’ doverosamente necessario premettere una pur ovvia considerazione: le combinazioni tra le possibili meccaniche tra i ferri e le loro reciproche posizioni sono numerosissime, per cui, per chi conosce questi colpi e riproducendosi le opportune condizioni, ancor oggi sono applicabili, non so, il “filo sottomesso”, il “copertino” o l”appuntata”; ovviamente in ottica statistica questa tipologia di azioni sarà trascurabile, addirittura trascurabilissima.

            Quello che volevo cercare di dire è che in Italia, ma anche indubbiamente all’estero, c’è voluto il suo tempo per passare da una concezione tecnica di un certo tipo, quella della scherma lineare, a quella di una scherma più funambolica: si tratta di mentalità.

            Come già accennato poco sopra in breve, una scherma in linea, contenuta in un ristretto volume conico nel rapporto tra le due lame, tendeva a ricorrere, allorché non poteva sfruttare le azioni semplici basate sulla velocità, ad una fine tessitura o meglio ricamo tramite finte e doppie finte, semplici e circolate in una vasta e complicata successione.

             Trovate nuove traiettorie nella difesa avversaria, le finte, finte e finte ancora sono diventate lunghe, rischiose e quindi obsolete e si è giustamente optato per una  semplicità meccanica del colpo. Buone alleate di queste scelte, come abbiamo già evidenziato in un precedente capitolo, sono state la maggior componente fisica utilizzata soprattutto nell’esplosione dell’attacco ed il fatto che la segnalazione automatica del colpo induceva sempre più ad osare le uscite in tempo, prima mal viste, sia otticamente ma anche culturalmente dal presidente di giuria, cui spettava la ricostruzione del fraseggio.

            Invero in questa evoluzione, o meglio trasformazione della mentalità dello schermitore, come abbiamo appena constatato sono confluite varie cause e concause spesso tra loro sinergiche.

            Siamo arrivati ora a considerare l’influenza sulla tecnica da attribuire all’utilizzo di nuovi materiali adottati nell’attrezzatura dello schermitore e ripetiamo i concetti già espressi altrove.

            Il discorso s’incentra sull’utilizzo dell’acciaio maraging usato per forgiare le lame, soprattutto di fioretto, ma anche di spada; in effetti nel tempo si è operato in questo settore nell’ottica di implementare la sicurezza dello schermitore in caso di rottura della lama stessa.

            Precedentemente le lame erano di differente lega e presentavano, soprattutto quelle di spada, una marcata rigidità dovuta anche alla loro sezione triangolare; il nuovo materiale invece ha subito messo in evidenza un’eccellente flessibilità, che, osservata dai più acuti esperti, ha reso possibile un nuovo modo tramite il quale poter portare la stoccata sul bersaglio: il colpo di fuetto.

            La meccanica si basa sul caricare nel polso un’angolazione tale che, ribaltata con veloce energia, provochi alla lama un discreto movimento oscillatorio dall’indietro in avanti.

             Nella spada succede in particolare che la coccia, utilizzata dallo schermitore come un mini scudo a protezione della mano e della prima parte dell’avambraccio, mentre è efficace in opposizione ai colpi lineari, nulla invece può con un rapido e preciso colpo di fuetto che, se ben eseguito, viola facilmente la sua configurazione semisferica.

            Affrontiamo ora in ultimo i mutamenti relativi agli indirizzi di arbitraggio.

            In tante discipline sportive si è sempre evidenziato il problema dell’interpretazione uniforme delle regole che soprassiedono al confronto tra gli atleti: le regole scritte talvolta devono necessariamente derogare all’arbitro un ambito di discrezionalità.

            Sotto questo aspetto la scherma, sia sufficiente pensare alla ricostruzione del fraseggio al fine dell’attribuzione della stoccata nel fioretto e nella sciabola,  ha sempre esposto il fianco a  diatribe con conseguenti endemiche contestazioni.

            Come abbiamo visto in altra parte di questo racconto, il presidente di giuria aveva sia il compito di interpretare la Convenzione schermistica, sia quello della materialità della stoccata; dire che in pedana si affermava sempre la verità potrebbe essere pretenzioso, diciamo che, naturalmente buona fede sempre presupposta, una certa parte di stoccate si svolgevano in condizioni situazionali tecniche un po’ umbratili e di conseguenza la statistica le rubricava come abbastanza dubbie.

            Le cose in effetti non sono molto semplici: l’attacco, come ben sappiamo, ha la precedenza, ma esso deve rispettare certe pre-condizioni, cioè lo schermitore deve avere il braccio armato naturalmente disteso e la sua punta/lama deve minacciare un bersaglio valido – la deambulazione in avanti del corpo senza portare un attacco non deve essere spacciata per un attacco – i movimenti del braccio armato che attacca devono essere messi in debita relazione con quelli dell’avversario (ricerca del ferro e sua elusione come uscita in tempo).

            Venendosi ad incrementare in modo esponenziale la velocità in pedana sia di spostamento che di realizzazione del colpo, sono venute a complicarsi non poco le percezioni dell’arbitro che deve riordinare convenzionalmente l’accaduto. Tanto è che la scherma ha importato, scimmiottando il calcio che l’aveva scoperta da decenni, la moviola. Indubbiamente è un buon supporto tecnico all’arbitraggio, ma purtroppo ha la caratteristica di bloccare il combattimento e certamente non lo si può fare in modo troppo ricorrente; non ultimo non è da sottovalutare psicologicamente il caso in cui l’arbitro debba tornare sui suoi passi sconfessato più di una volta dalle immagini rallentate.

            Poi non dobbiamo tacere una tendenza tattica attualmente statisticamente ricorrente sulle pedane: abbiamo già detto che le uscite in tempo venivano raramente utilizzate in quanto poco visibili agli occhi dei giurati e quale ribaltamento statistico invece avvenne quando a “vedere” furono gli infallibili sensori. In altre parole il fraseggio attacco – parata e risposta – controparata e risposta è sempre più raro rispetto all’attacco sull’attacco, per cui l’arbitro è chiamato quasi ricorrentemente a dirimere questioni abbastanza ingarbugliate tecnicamente.

            Ma oltre la ricostruzione dell’azione ci sono altre situazioni in cui l’arbitro è coinvolto soggettivamente: tipo l’istante in cui dover dare l’alt per un corpo a corpo o altra situazione prevista dalle norme, oppure valutare se una azione è da considerare “du tac au tac”, se una stoccata è messa a segno dopo il superamento dell’avversario, se sussiste un’infrazione per utilizzo del braccio armato o similari.

            Negli anni ’60 rispetto ad oggi, chiudendo gli occhi, vedo sulle pedane come dei bradipi: sì c’era un affondo sparato o un dirompente passo avanti affondo a balestra, una frecciata terra – aria, ma sicuramente non c’era la frenesia e il dinamismo di questi giorni.

            Una cosa è comunque sicura: chi dirige un incontro oggi non può più essere uno schermitore pur valente e con un esamino fatto in fretta e furia; chi arbitra oggi deve essere un professionista formato attraverso corsi di specializzazione. E in effetti è questo il programma che le varie federazioni ormai stanno portando avanti da qualche decennio.

 

           

Il touché

            Ho lasciato artatamente questo argomento per ultimo, perché, come si dice, dulcis in fundo.

            Avverto subito che questo è un seme che, lanciato, può finire, come bene dice lo stesso Vangelo, tra i sassi o tra gli spini e quindi non attecchisce, ma, se cade nella terra fertile, allora fiorisce.

            Non me ne voglia il Calcio, ma per farmi capire ho bisogno di una similitudine alla Virgilio tanto per intendersi: quando nel corso della partita il pallone esce, spesso più giocatori delle due diverse squadre alzano il braccio, gesto che vuol significare che la palla l’ha mandata fuori l’altra squadra ergo la rimessa è nostra; ma va!, direbbe il comico Ezio Greggio.

            Ecco, nella scherma avviene tutto il contrario: il touché, in sintesi, è un invito all’arbitro di non scomodarsi, perché io riconosco di avere torto e quindi assegna pure la stoccata al mio avversario; non è un harakiri schermistico, è semplicemente la vittoria di una persona su se stessa.

            Ci sarebbe tanto bisogno di touché nel mondo e non solo sulle pedane di scherma!

 

 

Commiato

            Mio malgrado devo scendere dalla Macchina del tempo, come fa anche il personaggio del magnifico libro di H.G.Wels dallo stesso titolo.

            Sono un po’ frastornato tra lo ieri, che ho rivisitato assieme a voi, e l’oggi: sessant’anni non sono pochi, ma quante trasformazioni del mondo – scherma!

            Uno della mia generazione o giù di lì potrebbe dire: Ma come fanno oggi a …; invece un giovane di oggi potrebbe altrettanto bene dire: Ma come facevano quelli a …

            Il segreto ovvio è che ognuno è figlio della sua epoca; a dire il vero si potrebbe compilare una lista di cose che fortunatamente sono cambiate, ma ce ne sarebbero probabilmente altre di cui è un peccato che se ne siano perse invece le tracce.

            Per trarmi d’impiccio tirerei opportunamente in ballo il Manzoni: Ai posteri l’ardua sentenza.

            Credo che avere la coscienza della trasformazione storica sia comunque importante, sia per conoscere e vivere meglio il presente, sia per impostare un futuro sempre migliore per il nostro Movimento, che, trovandosi nella Società Civile, ne risente tutti i suoi continui cambiamenti.

            E’ in questo senso, che nel limite delle mie possibilità, o cercato di rievocare sessanta anni della storia della nostra disciplina: quindi un lavoro non indirizzato solo a qualche vecchietto ancora arzillo e nemmeno all’ultima generazione che ha la fortuna di calcare ancora la pedana, ma un lavoro dedicato a chi ama la Scherma.