Introduzione
Scrivere di scherma non è un’impresa molto difficile soprattutto per il fatto che la nostra disciplina è praticamente sconfinata: si spazia in prima battuta dalla tecnica, per poi arrivare alla tattica e alla strategia; c’è la preparazione atletica, prima della lezione e del libero assalto; c’è il match alle gare; e di tutto questo c’è l’ottica didattica; ci sono da decantare le virtù dello schermitore, c’è da parlare del suo equipaggiamento, del Regolamento e della Convenzione schermistica con annesso l’arbitro; c’è la sua storia con tutte le sue evoluzioni e doverosi cambiamenti; c’è il mondo sala e ci sono le trasferte …e così via.
Un giorno ho preso la penna in mano (falso! Perché utilizzo il computer) e non mi ha fermato più nessuno: sono arrivato al 101° articolo e ora posso permettermi una piccola pausa di riflessione.
Scrivendo, ho ricordato e ho cercato di approfondire tanti temi che mi ero limitato a vivere volta per volta quasi inconsapevolmente sia da allievo e da agonista, sia da insegnante.
E’ proprio vero! La scherma non solo è un mondo, ma un vero e proprio universo: anche con la celebre navicella che viaggiasse alla velocità della luce ci vorrebbe tutto il suo tempo.
Chi volesse seguirmi in questa prima parte del mio viaggio è invitato a salire.
Maestro Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2021
Argomenti tecnici
Indice
1 Scherma e azioni ausiliarie
2 Scherma e braccio non armato
3 Scherma e bersagli
4 Scherma e costruzione della velocità
5 Scherma e difesa
6 Scherma e ferro su ferro
7 Scherma e finta
8 Scherma e finta in tempo
9 Scherma e impugnatura
10 Scherma e lama
11 Scherma e legamento
12 Scherma e misura
13 Scherma e portamento dell’arma
14 Scherma e saluto con l’arma
15 Scherma e spostamento sulla pedana
16 Scherma e trucchi sulla pedana
17 Scherma e uscite in tempo
18 Scherma e velocità
19 Scherma e velocità – bis
Scherma e azioni ausiliarie
Esperita la lettura di un trattato di scherma relativamente alle azioni semplici di attacco e a quelle composte, la sensazione, anche da parte di un neofita, è quella che manchi ancora qualcosa; saranno magari gli appariscenti duelli visti nei migliori film di cappa e spada a far sorgere dei dubbi, ma si tratta solo di aspettare qualche pagina.
In effetti, ad una certa pagina X di un certo trattato Y, campeggia il titolo “Azioni ausiliarie”.
E’ presto detto.
La parte del leone nelle azioni di attacco la fanno quelle (ed è giusto così) più teorizzabili e facilmente raggruppabili in categorie di sistema.
Si parte da tre posizioni spaziali teoriche del braccio armato dell’avversario e si costruisce tutto un dedalo logico che i ferri dei contendenti possono percorrere.
Ecco quindi le azioni semplici di attacco, che trovano la loro ragion d’essere solo in se stesse, estromettendo dalla loro meccanica l’avversario; ed ecco le azioni composte, che, tramite l’indispensabile finta, coinvolgono invece l’antagonista nella danza delle lame.
Ma questi colpi non riescono ad esaurire tutta la potenziale tipologia dei rapporti tra i due ferri; ecco quindi che i trattati raggruppano insieme, in una specie di pot-pourri tecnico, tutte le altre possibilità relazionali; ed in effetti, lessicalmente, ausiliario significa di supporto, di aiuto a latere; le altre categorie di colpi, non a caso, vengono invece annoverate come azioni fondamentali.
Sovvertendo l’usuale elencazione dei trattati, che appare del tutto casuale, cerco invece di raggruppare le azioni ausiliarie in un certo ordine logico.
Una prima serie la individuerei nel fatto che il colpo prende spunto da un’erronea o inusuale postura dell’avversario oppure da una sua particolare attività; in pratica è proprio l’antagonista a suggerire direttamente come opporsi validamente al suo atteggiamento. Ecco allora: tirare di quarta bassa, effettuare una battuta di quarta falsa, eseguire un filo sottomesso ed effettuare una ripigliata (o ripresa d’attacco).
Esaminiamo questi colpi da vicino, ad uno ad uno.
1 Tirare di quarta bassa: in questo caso, osservando l’avversario, si constata che quest’ultimo invita, lega o para di quarta posizionando il suo pugno armato non all’altezza dell’addome bensì tendendo ad alzarlo verso il petto. Questo suo errore ci induce ad indirizzare il nostro colpo d’attacco o di risposta non sul bersaglio infuori al petto che risulterebbe parzialmente coperto, bensì al fianco lasciato scoperto, il tutto per di più mantenendo il comodo pugno di quarta.
2 Battuta di quarta falsa: in questo secondo caso ci rendiamo conto che l’avversario tiene stabilmente la sua lama sulla linea bassa del fianco. Grazie a questa particolare postura, se vogliamo effettuare una battuta sul suo ferro, possiamo farlo in senso orizzontale da destra verso sinistra.
3 Filo sottomesso: se il nostro avversario ha legato il nostro ferro, ma ci accorgiamo che lo ha fatto in modo impreciso perché errato rispetto ai gradi della lama oppure perché debole o perché non sufficiente a garantire la linea corrispondente, abbiamo a disposizione un meccanismo per ribaltare la situazione a nostro vantaggio. Eco che il filo sottomesso si esegue forzando repentinamente e senza mai lasciare il contatto tra i ferri il legamento imperfetto, si riconquista in tal modo la linea e infine si vibra il nostro colpo con opportuna opposizione di pugno sul bersaglio antagonista che all’inizio pareva tutelato.
4 Ripigliata, detta anche ripresa d’attacco: in quest’ultimo caso verifichiamo che il nostro avversario è solito parare, ma poi indugia a rispondere o addirittura non lo fa affatto. In questa situazione abbiamo la possibilità di effettuare un seconda azione di offesa, partendo direttamente dal nostro affondo; se vibriamo il colpo sul bersaglio opposto alla parata senza risposta, i trattati lo denominano secondo colpo, se invece, spezzando il nostro polso, lo indirizziamo allo stesso bersaglio, lo denominano rimessa.
Ritorniamo ora allo schema iniziale della azioni ausiliarie ed esaminiamo un secondo gruppo di colpi, che trovano la loro ragion d’essere in una serie di interventi sul ferro avversario che si differenziano dalla battuta ordinaria per due motivi ben precisi: il contatto tra i ferri non si risolve in un brevissimo e secco urto e, in secondo luogo, le traiettorie spaziali sono diverse da quelle lineari delle battute semplici o quelle circolari delle battute di contro. Esaminiamo ora: la battuta falsa, lo sforzo e colpo dritto, l’intrecciata, la battuta di passaggio, il copertino e i disarmi.
5 Battuta falsa: è quella che si effettua quando si è sotto un legamento dell’avversario e si batte nel senso opposto ad esso.
6 Sforzo e colpo dritto: si esegue partendo da un proprio legamento, facendo scorrere la propria lama su gradi deboli di quella avversaria tramite un’idonea pressione (la cosiddetta battuta di potenza dei vecchi trattati) e tirando infine il colpo dritto.
7 Intrecciata: è una battuta che si esegue, dopo un movimento di svincolo, in senso opposto al legamento di partenza, limitatamente a quello di terza e a quello di quarta, sia proprio che dell’avversario.
8 Battuta di passaggio: sono quei contatti con la lama avversaria ottenuti strisciando con movimento dall’avanti all’indietro oppure al di sopra o al disotto. L’effetto provocato è analogo alla battuta semplice seguita da finta, ma con l’evidente vantaggio di effettuare un movimento in meno.
9 Copertino: l’esecuzione prevede di far strisciare con pugno di seconda il forte della propria lama sul medio e sul debole di quella avversaria; subito dopo il pugno gira in quarta e con dovuta opposizione si vibra la botta dritta al petto antagonista. Il nome della stoccata deriva dal primo movimento che va letteralmente a coprire la lama avversaria.
10 Disarmi: in questo caso il meccanismo è quello di intervenire sulla lama con una certa intensità con il fine non tanto di far saltare il manico dalla mano dell’avversario (che fa tanto film di cappa e spada), quanto piuttosto quello di fargli perdere momentaneamente il pieno controllo dell’arma.
Ne sono state teorizzate due tipologie.
Verticale (nei vecchi trattati denominato battuta atterrando): con il pugno di terza e accennata flessione del braccio armato si effettua un’energica battuta strisciando sulla lama avversaria in senso verticale verso il basso e si vibra il colpo dritto al petto antagonista.
Spirale (nei vecchi trattati denominato guadagno): a) spirale a sinistra: dal proprio legamento di terza, tramite un energico movimento semirotatorio a sinistra, si imprime una forza divergente al ferro antagonista e si dirige il colpo al suo bersaglio interno; b) spirale a destra: dal proprio legamento di quarta, tramite un energico movimento semirotatorio a destra, si imprime una forza divergente al ferro antagonista e si dirige il colpo al suo bersaglio al fianco.
Dopo questa lunga e variegata serie di colpi siamo finalmente “usciti a riveder le stelle”: in effetti le azioni statisticamente utilizzate durante i match appartengono ad una ristretta cerchia.
Le cosiddette azioni ausiliare sono di rara applicazione, soprattutto per l’attuale modo complessivo di portare i colpi, che è stato sempre più condizionato dalla difficoltà di poter trovare il ferro dell’avversario, tenuto opportunamente lontano dal raggio di azione di quello antagonista. Tali azioni hanno soprattutto la funzione di completare i teorici rapporti tra le lame che si fronteggiano sulla pedana, concorrendo quindi alla completezza sistematica di ogni buon trattato.
Tuttavia il conoscerle, magari da schermitore maturo, non danneggia l’atleta, ma anzi lo arricchisce culturalmente dal punto di vista del possesso globale della scienza schermistica; tra l’altro, in linea teorica, le azioni ausiliarie sono quelle maggiormente personalizzabili e possono quindi costituire un prezioso stimolo alla costruzione di un proprio personale colpo.
Il match con l’avversario impegna lo schermitore nella sua globalità fisica e mentale: tutto ciò che riesce a gettare sul piatto della bilancia è utile ..anche una desueta azione ausiliaria.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel marzo del 2019
Scherma e braccio non armato
Voglio subito che sappiate che non sono né geloso, né invidioso; del resto come potrei farlo nei confronti del mio fratello gemello.
Avrei potuto benissimo esserci io al suo posto: bastava che la lateralità del mio io fosse ribaltata ed ecco che le parti sarebbero ora invertite; del resto i mancini oggi non vengono più avversati come nel passato e quindi potrei avere la mia parte di gloria. Ma la vita è così ed è da intelligenti adattarsi.
Però consentitemi un piccolo appunto agli stesori dei trattati di scherma: d’accordo che il braccio armato (che bell’aggettivo!) ha moltissimi compiti come battere – fare cavazioni e circolate in attacco e difendere i propri bersagli in difesa, ma ci sono anche io e di me si parla, se ricordo bene, solo una volta, per di più en passant.
Ma questo non corrisponde alla realtà; credetemi!
Menenio Agrippa, senatore dell’antica Roma, forse non faceva scherma, ma aveva già capito una cosa molto importante: un’entità non è una cosa a sé stante rispetto alle singole parti che la costituiscono, ma solo la composizione di tutte le loro funzioni. Quindi in questa sottile concezione della realtà non esistono il più importante, il meno importante o l’importante così così, ma conta l’unità che riescono ad esprimere collettivamente nel loro insieme.
Quindi, patrizio certamente non sono; ma almeno datemi la dignità plebea, che è sempre meglio di nulla!
A supporto di questa tesi, mia appello al Tribunale dei liberi schermitori e mi affido alle premurose cure del maestro Gardenti, che spero riesca spiegare in schermese ciò che più si approssima alla verità.
Beh! Una laurea in Giurisprudenza in effetti ce l’ho e quindi sto al gioco e inizio volentieri la mia arringa.
Signori …della pedana, il mio compito non è sovvertire la realtà, bensì quello di cercare di farla percepire nella sua interezza, affinché sia dato a Cesare quel che è di Cesare; e null’altro.
Avete sentito la deposizione dei tre schermitori: tutti, dico tutti, hanno confermato la loro grande sottovalutazione del braccio non armato; come se esso non fosse altro che un inutile orpello di chi combatte sulla pedana.
Il culmine è stato toccato quando, interrogati sul comportamento del braccio meno nobile, invece di parlarne con parole veraci, si è fatto solo espresso riferimento al Regolamento, nella parte in cui si vieta il suo intervento nel match, gettando in tal modo ombre inammissibili sul suo comportamento durante il match. Lo sappiamo tutti che l’imputato deve restare completamente estraneo al dialogo tra i ferri dei due contendenti e non deve nemmeno frapporsi tra la punta antagonista ed i propri bersagli al fine di falsare il giudizio della stoccata. Ma non possiamo qui abbracciare a priori la cultura del sospetto prima ancora che si verifichi l’atto illecito; e a questo proposito invoco, ovviamente, la presunzione di innocenza.
D’altra parte, se mai si dovesse macchiare di alcunché, c’è la garanzia della presenza dell’arbitro, che è lì pronto ad applicare le previste giuste sanzioni.
Ma, sino ad allora, chiedo che sia evitato ogni riferimento alla possibile condotta deviante: sarebbe solo e soltanto un ignobile processo alle intenzioni.
Quindi chiedo formalmente che non venga associata ex abrupto alcuna allocuzione di questo genere al mio difeso, il braccio non armato.
Parimenti chiedo che vengano messi agli atti questi cinque trattati di scherma, sorteggiati tra gli altri.
Questi scritti costituiscono la prova documentale incontrovertibile di come il mio cliente venga poco o niente considerato: in essi è facilmente verificabile come l’argomento braccio non armato venga liquidato, nel migliore dei casi, da non più di una decina scarsa di parole. Esso “svolge funzioni di equilibrio e dà slancio all’affondo”. Tutto qui!
Francamente non possiamo accettare questa situazione ed ecco perché ora passeremo ad illustrare i vari punti della nostra linea difensiva.
Ora cedo la parola al nostro perito di parte (che sarei sempre io nelle vesti di maestro di scherma).
Credo che la materia vada innanzitutto affrontata da un punto di vista grandangolare, diciamo di ampio respiro tecnico.
Lo schermitore, quando incontra l’avversario sulla pedana, mette sul suo piatto tutte le proprie capacità e facoltà, in una parola tutto se stesso. Così facendo, credo che esso venga a configurare una specie di sistema, appunto un sistema-schermitore, dove ogni parte del suo essere fisico e psichico contribuisce, all’occasione, ad un qualche aspetto o situazione particolare del combattimento.
Sotto questo punto di vista quindi, al di là di pur differenti apporti qualitativi e quantitativi per il fine ultimo che è notoriamente la vittoria, nessuna parte corporea o mentale può arbitrariamente essere esclusa da una giusta considerazione. Anzi, è proprio vero il contrario: tanto più tutto il corpo parteciperà alla “battaglia”, tanto più lo schermitore avrà probabilità di uscirne vittorioso.
Detto questo, passiamo ora al dettaglio, evidenziando il prezioso supporto che può dare il braccio armato.
E’ vero, è stato scritto sui trattati che svolge funzioni di equilibrio, ma, se non si scende al dettaglio, sembra che siano solo parole di circostanza, spese solo per cortesia.
In questo, certo non aiuta la postura di guardia attualmente in voga: nessuno o quantomeno pochissimi arcuano il braccio armato come nelle illustrazioni dei trattati con il fine di equilibrare la postura nel suo complesso.
Questa non è certo la sede opportuna per uno studio comparato tra i diversi tipi di guardia che si sono avvicendati nel tempo, ma una cosa è incontrovertibile: quando, dopo l’affondo, lo schermitore torna in guardia, è il braccio dietro che svolge una insostituibile funzione primaria di traino all’indietro, aiutando tutto il corpo a transitare dai diversi equilibri fisici caratteristici della prodotta postura di affondo a quelli originali della guardia. E, tenuto debito conto, di quanti attacchi improduttivi si fanno statisticamente durante un intero match, appare subito evidente quanto importante sia il ritorno in guardia in modi e in tempi ottimali.
Ebbene in questa meccanica il braccio non armato svolge un ruolo decisivo, magari non visibilmente appariscente e da modesto “portatore d’acqua”, ma, ripeto, decisivo.
Ma continuiamo.
I trattati accennano anche alla sua funzione di spinta durante la produzione dell’affondo.
Questo è verissimo, lo sa (perché lo percepisce fisicamente) ogni schermitore: il braccio armato comincia ad allungarsi, il corpo si sbilancia leggermente in avanti e, senza soluzione di continuità tra braccio armato e gamba avanti, si proietta in avanti; l’ultima dose pur minima di energia è aggiunta dal braccio dietro che si distende …ma nessuno lo vede, nessuno se ne accorge, perché ovviamente tutti guardano in avanti, alla punta o alla lama che costituisce l’apice del sistema-schermitore, quella che, se va tutto bene, si prende tutta la gloria e gli applausi. Sì, la spinta è importante, perché talvolta un pizzico di energia ci proietta in avanti magari di un micron ed è proprio quello che manca per arrivare sul bersaglio.
Ma, signori giurati, nessuno ha capito che ruolo importante ha il braccio non armato nella qualità della produzione stessa dell’affondo?
Esso raddrizza e allinea le spalle; sì quelle spalle che nella postura di guardia sono leggermente inclinate rispetto alla linea direttrice.
Mi sapete dire cosa succederebbe se il mio cliente non svolgesse questa importante funzione geometrica?! Certo, il peso del busto graverebbe all’interno della postura di affondo con le gravissime controindicazioni che conoscete bene: sbilanciamento all’interno, spazio percorso in avanti minore di quello potenziale, alterazione della linea d’attacco e grosse difficoltà, anzi grossissime, nel ritorno in guardia.
E questo vi sembra di poco conto?! Mettete tutto ciò in relazione alla modestia e alla discrezione di colui che sto difendendo.
Ma non è finita qui!
Ditemi pure voi: statisticamente quanti corpo a corpo si verificano oggigiorno?Tanti, vero?!
Ebbene, quando si tratta di portare verso il basso il pugno armato al fine di spezzare il segmento del braccio e poter recuperare spazialità per tentare una rimessa, non vi siete forse accorti che è soprattutto il braccio non armato, che, slanciandosi veementemente verso l’alto, consente all’altro di abbassarsi?
E nell’inquartata, la nota uscita in tempo, il meccanismo ovviamente cambia, ma chi è che tende a defilare verso l’esterno della propria guardia il corpo, affinché la punta dell’avversario indirizzata verso il nostro bersaglio interno trovi solo l’aria?!
Anche in questi casi si tratta di duro e qualificato lavoro svolto solo e soltanto per consentire ad altri di raccogliere i frutti e con essi la gloria. Nascosto e generoso altruismo, ancora una volta.
Siamo quasi arrivati alla fine delle mie asserzioni, Signori della Corte.
Da una parte considerazioni di natura oggettiva, dall’altra totale mancanza di volontà di protagonismo.
Ma proprio ora desidero fornirvi la prova assoluta, la prova che non si può disconoscere; la prova che spero definitivamente vi faccia capire la vera essenza del braccio non armato.
Cosa prevede il Regolamento nel caso in cui uno schermitore si ferisca al braccio armato e, su verifica medica, non possa continuare? Sì, lo sapete: può decidere, mutando ovviamente l’equipaggiamento, di continuare a combattere sulla pedana utilizzando l’altro braccio, proprio l’imputato di questo specialissimo processo. Lui è lì, fedele, sempre pronto ad intervenire al primo cenno; andando tra l’altro a sfidare quelli sicuramente più preparati di lui.
Avete capito ora chi è il braccio non armato e quanto importante sia nell’economia dell’assalto?! Allora allenatelo ed usatelo, perché è sicuramente un’arma aggiunta.
Avete capito di non aver affidato al primo venuto lo stemma del vostro club o addirittura i colori del vostro paese?! Un portabandiera più fedele non lo si potrebbe trovare.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel marzo del 2019
PS Forse in questo articolo ho rotto un po’ troppo gli schemi tradizionali, ma vi confesso che, scrivendolo, mi sono divertito e spesso mi sono messo a ridere (cosa che spero facciate anche voi).
Scherma e bersagli
Salve, ragazzi, io sono il fine ultimo di tutto il vostro gran daffare in sala, sono la sperata meta finale delle vostre stoccate, se volete la gloria dovete riuscire a toccarmi: mi presento, sono il vostro bersaglio.
Nell’estenuante gioco d’acchiappino che le vostre lame conducono su ogni pedana dovete raggiungermi per forza e, tranne nella sciabola dove basta una semplice carezza, nel fioretto e nella spada dovete anche riuscire a farmi sentire la vostra forza, 501 grammi o 751 minimo, a seconda dei casi; lo pretende il Regolamento.
Mi corre l’obbligo di comunicarvi che ho formale delega di parlare a nome di tutti i miei colleghi: in effetti rappresento quelli avanzati, come ad esempio la mano e la prima parte dell’avambraccio; rappresento quelli un po’ nascosti tipo il fianco e la stessa schiena, anche se al giorno d’oggi con le stoccate che corrono nessuno è al riparo da nulla; rappresento anche il piede e in genere la gamba avanti e questo, visto che sono validi solo nella specialità della spada, per il principio della tutela delle minoranze; sempre nella spada mi è stato chiesto di far sentire la voce del materiale, tipo il passante ed i suoi attacchi, che a tutti gli effetti assurgono al ruolo di bersaglio valido; parlo, soprattutto, per i bersagli interni e nella sciabola la testa assieme alle sue due figure, che sono quelli più tartassati ed esposti di sempre.
Sono qui per ribaltare la vostra ottica: voi vi affaccendate dalla vostra parte, ma provate a considerare la nostra.
Noi siamo lì, inermi, completamente affidati alle buone cure dello schermitore cui apparteniamo e da dietro si vede benissimo l’inizio dell’azione dell’avversario e con un po’ di attenzione si intuisce quasi sempre quali sono le sue intenzioni.
Ciccio vai indietro, stai lontano (Ciccio è il nome confidenziale con cui chiamiamo affettuosamente il nostro schermitore); Ciccio preparati anche a parare perché la stoccata sta arrivando …e per noi son botte! Ciccio non ci ha preso per un pelo, stai attento che tra un po’ ci riprova.
Bravo Ciccio, lo abbiamo colpito noi; forza. E’ no, Ciccio, se fai così perdiamo.
Inutile dire che il nostro rapporto preferenziale lo abbiamo con il braccio armato: è lui il nostro paladino diretto, il nostro difensore.
Il dialogo con lui è costante.
Ehi! Stiamo tirando di spada, non lo scordare: la coccia è la più ampia tra le varie armi proprio perché deve aiutare a proteggere la mano; attento, non vedi che sta tirando un’angolazione sotto?! Proteggimi meglio, coprimi.
Non alzare troppo l’avambraccio per tirare la sciabolata, altrimenti proprio qui mi becco il tempo al braccio del tuo avversario.
D’accordo io cerco di spostare il piede perché ci siamo accorti che ci sta tirando sopra, ma mi raccomando, tu allineati e cerca di beccarlo con un colpo d’arresto, così impara a prenderci in giro.
No, no; non ti spostare in parata da quella parte; non vedi che il movimento non sembra essere conclusivo e quasi sicuramente si tratta di una finta; aspetta ancora una frazione di secondo e sapremo la verità.
Nel precedente attacco mi ha beccato perché tu hai parato semplice; ora, se lo rifà, stai attento a parare di contro così gli rompiamo le famose uova nel paniere.
Ma non vedi che il tuo avversario attacca con un sacco di finte e per di più lo fa con la punta per aria; senti, tanto sono io quello che si espone, vagli addosso e bloccalo con un’uscita in tempo e stiamo a vedere cosa succede.
E si potrebbe continuare a lungo, coprendo tutto lo spettro delle azioni contemplate dai trattati di scherma: chi meglio di me, che sono il bersaglio, credete che le conosca meglio; sapete, è puro istinto di conservazione!
D’altra parte capisco che è necessario che ci sia qualcuno che rischia, che si sacrifichi nella speranza di raccogliere un po’ di gloria, diciamo, letteralmente, uno che si esponga: e quello sono io.
Talvolta, anche se raramente, penso al mio corrispondente che è al di là delle due lame e che condivide il mio stesso status; con questo mio fratello lontano faccio un gioco strano: vince chi non risulta toccato, in una specie di ciapa no da tressette.
Pensate alla tensione a cui siamo sottoposti nelle armi convenzionali: spesso, anzi spessissimo, c’è la registrazione di entrambe le stoccate giunte a segno e quindi con il fiato sospeso osserviamo la gestualità dell’arbitro e ascoltiamo la sua ricostruzione dell’azione schermistica, in attesa del verdetto finale. E non siamo stupidi e il più delle volte sappiamo benissimo all’istante se abbiamo ragione o torto; ma poi il nostro Ciccio si fa trasportare e recita la sua parte nel tentativo di influenzare a suo vantaggio il giudizio, come se una maggiore quantità di decibel o una postura particolare del corpo fossero sufficienti a ribaltare la realtà. Non vi dico poi quando si ricorre alla moviola: allora sì che il tempo non passa mai e lo stato emozionale sale alle stelle, tutti poi superconcentrati sulla gestualità dell’arbitro a cui spetta dirimere la questione.
E in tutto questo trambusto trepitativo, sin dall’inizio delle ostilità sportive sulla pedana, a noi bersagli è richiesto il massimo rispetto della forma e dobbiamo essere, come si dice, di tutto punto: le dimensioni dei giubbetti metallizzati che ci ricoprono devono essere perfette, cioè non troppo ristrette, ma neanche troppo abbondanti; inoltre la superficie deve essere anch’essa perfetta, cioè senza sporco e ossidazioni per essere conducente al massimo. E, come ben sapete, negli ultimi anni accanto alle giubbe ricoprenti il tronco del corpo, ora ci dobbiamo occupare anche di sezioni di gorgiera e del dorso dei guanti; insomma passanti da tutte le parti, che spesso si staccano ed quindi vanno tenuti sotto controllo.
Che invidia dei nostri cugini della spada: essi sfidano, come dire, a bersaglio nudo la punta avversaria e non hanno orpelli elettrici di sorte e, coraggiosamente, si offrono in maniera diretta alle stoccate.
E sono anche molto democratici, nel senso che ogni singola parte di loro è uguale a tutte le altre: colpisci qui o lì è sempre valido; e sono anche talmente arditi che, come anche sopra ricordato, ampliano la loro superficie finanche al materiale dello schermitore, tipo passante e prese di coccia; sono proprio coraggiosi, non c’è che dire.
Noi invece, nel fioretto e nella sciabola, siamo un po’ classisti: ci distinguiamo in bersagli validi e non validi; dove i primi sono naturalmente i migliori, quelli più puri e degni della massima considerazione, mentre gli altri sono dei minus, tollerati a mala pena e con i quali preferiamo non mescolarci.
Nel fioretto concediamo a questi ultimi solo un minimo di dignità e di valore come agli iloti, che pur da greci, erano considerati schiavi per natura: in effetti, se la stoccata dell’avversario li raggiunge, non può produrre effetti positivi proprio per la riconosciuta scadente loro qualità; tutt’al più, e comunque a ben pensarci non è cosa di poco conto, produce l’effetto di estinguere l’azione portata a termine contro di essi, una specie di stop tecnico alla belligeranza della controparte; l’arbitro dà l’alt e si ricomincia dal preciso punto dove c’era stata l’interruzione.
Nella sciabola la condizione dei nostri cugini bersagli non validi è peggiore, assimilabile solo a quella dei paria, i celebri intoccabili della società indiana. In effetti, se l’attacco dell’avversario approda su di essi, tiratori e arbitro tutti fanno finta di nulla e il colpo, pur se nella realtà arriva, non produce nessun risultato; e questa situazione, indubbiamente legata agli attuali limiti della tecnologia, grava non poco e dannosamente sulla presunta natura pragmatica della nostra disciplina.
Tornare al vecchio metodo, quello della sciabola non elettrificata con gli assessori al posto dei sensori, capiamo benissimo che non è più possibile: la materialità della stoccata, se pur limitata al bersaglio valido, è troppo importante per la regolare e attendibile conduzione del match nella specialità super veloce della scherma. Eppure le sceneggiate dei nostri Cicci erano impagabili rappresentazioni sceniche di alta qualità, roba da Actors studio di New York; per non parlare poi delle talvolta cervellotiche ricostruzione delle azioni da parte del presidente di giuria, il cui pomposo nome derivava anche dal tipo del suo impegno professionale: i tocca, non tocca, tocca ma in bersaglio non valido, mi astengo, mi astengo sul bersaglio, degli assessori avevano una difficoltà di comprensione molto prossime alla Teoria della Relatività, naturalmente quella Semplice.
Ma la storia ha sentenziato, è giusto così: in pedana i marziani invece degli attori tragici.
Infine, una confessione: anche noi, come tutti altri, abbiamo le cose di cui vergognarsi e non poco; parlo delle sostituzioni di bersaglio, sacrosantamente sanzionate dal Regolamento, di cui i nostri Cicci si macchiano. E’ una vergogna, una cosa che scredita sino alla radice la figura nobile dello schermitore: diecimila volte meglio perdere con dignità che vincere una volta slealmente.
Ecco, ora sono felice: avevo tutte queste cose da farvi presente e sono riuscito a raccontarvele tutte; noi non siamo solo passive zone del vostro corpo, ma abbiamo anche un’anima e soprattutto una dignità.
Onore a tutti i bersagli del mondo.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio 2019
Scherma e costruzione della velocità
E’ sicuramente superfluo ricordare l’importanza che la velocità riveste nella prestazione dello schermitore sulla pedana.
Il tuo maestro sulla pedana ti vuole più veloce di un fulmine; se poi è un naturalista più veloce di un colibrì oppure, se amante della formula 1, più veloce di una Ferrari o di una Mercedes (a seconda dei gusti o della nazionalità); magari se è un collezionista di trenini, pretende da te di sfrecciare come Un Freccia Rossa o, se di formazione classica, di superare in corsa Achille, notoriamente il piè veloce. Einstein dice qualcosa a qualcuno?!
Cominciamo col ricordare subito una cosa fondamentale, aiutandoci con una similitudine: se un veicolo entra in curva oltre una certa velocità, sicuramente sbanda e finisce fuori strada. Traduzione in schermese: oltre una certa soglia di velocità, ogni azioni schermistica tende a degenerare, facendo perdere progressivamente sia la progressione del colpo, sia la precisione di punta. Da qui una necessità imperiosa nella costruzione della velocità schermistica: una continua analisi e verifica della qualità del gesto tecnico; altrimenti, non riuscendo a toccare con la nostra azione, si darebbe un imperdonabile vantaggio all’avversario.
Ciò debitamente premesso, è importante fare un’altra considerazione, questa di carattere squisitamente teorico-tecnico: la dottrina schermistica, nell’elaborazione della casistica delle varie azioni, separa nettamente le azioni semplici dalle azioni composte, ravvisando solo nelle prime la necessità di sorprendere, appunto in velocità, la difesa dell’avversario.
Nell’immaginario collettivo è la botta dritta il colpo che più degli altri significa anticipare la reazione del difensore o almeno renderla tardiva, incompiuta e quindi inutile. Poco cambia nella battuta e colpo, se non che si ricorre alla deviazione del ferro antagonista tramite il proprio; oppure nella cavazione, che muta, rispetto alla botta dritta, solo il punto di partenza della lama; oppure ancora al filo, che si differenzia solo perché la stoccata è tirata strisciando opportunamente sul ferro avversario. Meccaniche diverse e tragitti diversi, ma un comune denominatore: fare velocemente, il più velocemente possibile.
Ma quest’ultimo rigo ci induce ad un altro ragionamento, anche questo della massima importanza: la velocità di uno schermitore, ovvero la sua possibilità di eseguire un gesto nel più breve spazio di tempo possibile, non è un valore assoluto, ma solo relativo. In altri termini la durata dell’azione non viene cronometrata in sé per sé, ma solo messa in relazione a quella dell’avversario che la subisce. Ne consegue che una velocità può essere sufficiente a battere un avversario, ma assolutamente insufficiente a superare un altro.
A questo proposito, come ben sappiamo, la Teoria schermistica offre, appunto ai meno veloci, un appropriato rimedio tecnico: l’azione composta, che utilizza opportunamente la finta come elemento destabilizzante per una presunta maggiore velocità di difesa rispetto a quella esprimibile tramite un attacco semplice.
Ecco che in tal modo la velocità perde un po’ del suo pathos, della sua grande importanza presunta e diventa, o meglio resta, un elemento sì importante per uno schermitore, ma comunque non assoluto o fondamentale, almeno entro una certa misura. Lo schermitore accorto, in effetti, previa conoscenza delle caratteristiche dell’avversario, utilizza la sua velocità pura solo e soltanto quando ne intravede la necessità, affidandosi altrimenti alle altre tipologie di colpo presenti nei manuali.
Un errore che si potrebbe commettere, intrattenendosi sulla velocità, sarebbe quello di relazionarla solo rispetto alla condizione fisica dello schermitore: indubbiamente una giusta preparazione atletica mette a disposizione uno stato muscolare idoneo alla produzione di certi gesti fisici oppure, prolungandosi lo sforzo nel tempo, può garantire un maggior numero di energie a disposizione. Il supporto fisico è importantissimo, soprattutto con la tipologia della scherma che si pratica oggi sulle pedane ed anche in relazione alla tipologia della formula di gara utilizzata; ma non è tutto, costituisce solo una tessera del mosaico intitolato preparazione dell’atleta.
In effetti ci sono altri, diciamo, esaltatori della velocità che non vanno assolutamente trascurati: parlo di taluni escamotage tecnici e parlo di traiettorie spaziali.
Circa i primi è doveroso ricordare sia la ricerca della giusta misura, sia la scelta del tempo, sia il contropiede.
Prima di sferrare un attacco semplice è molto importante stringere la misura almeno quanto è concesso dall’avversario. In effetti minore è lo spazio da percorrere per giungere a bersaglio e, a parità di velocità, minore è il tempo impiegato per toccare. Sempre in questo ambito: piede dietro che si accosta a quello avanti prima della partenza in affondo, il celebre raddoppio dei trattati, ed ecco che l’attacco acquista ovviamente in lunghezza ed anticipo del colpo.
Ha grande importanza anche la scelta del tempo, cioè l’esecuzione dell’attacco nel momento meno opportuno per l’avversario di subirlo, ad esempio quando deambula ordinariamente; chiarifichiamo subito: la velocità dello schermitore resta costante rispetto alle sue capacità, è piuttosto l’ambientazione temporale che viene ad esaltarne indirettamente le qualità e si ottiene lo stesso risultato che ricerca la velocità, cioè sorprendere l’antagonista.
Infine è necessario citare il meccanismo del contropiede, dove, notoriamente, l’attaccante sferra la sua iniziativa quando l’avversario, essendo occupato muscolarmente nel ritorno in guardia, ha minori capacità difensive. Anche in questo caso, come accade per la scelta del tempo, la velocità dell’attaccante rimane costante, ma è il rapporto tra le posizioni posturali dei due combattenti che favorisce l’attacco.
Un altra grande esaltatrice della velocità è la scelta delle traiettorie per giungere a bersaglio. A questo proposito dobbiamo scomodare nuovamente, come abbiamo fatto poco sopra, la considerazione che, percorrendo a pari velocità, una distanza minore, minore sarà il tempo impiegato a percorrerla. Ecco perché viene consigliata dai trattati una cavazione con traiettoria spirale più stretta rispetto ad una con traiettoria più larga, ecco perché nel tirare una botta dritta il colpo arriva prima se parte dal braccio armato in linea rispetto a se partisse da un invito di seconda.
Tutto quello su cui abbiamo sin qui disquisito vale sia per l’attacco che per la difesa, cioè sia quando lo schermitore prende un’iniziativa, sia quando viceversa si pone il problema di contrapporsi a quella dell’avversario.
Per completezza dobbiamo fare un’ultima considerazione nell’ambito della difesa: come abbiamo visto che accade per l’attacco, così anche nella difesa esiste un esaltatore della velocità, la prontezza di riflessi di chi subisce l’attacco. Invero più tardi si attiva il meccanismo difensivo, sia esso basato sulla misura, sul ferro o in combinata tra loro, più tardi esso si realizzerà e quindi avrà minori probabilità di successo. Ricordiamo a questo proposito che certi valori tecnici sono tra loro interconnessi: in effetti, registrando opportunamente la misura, è possibile adattarsi alla velocità dell’avversario e modulare il match, almeno per le azioni semplici, a nostro vantaggio.
In sintesi: esser rapidi sulla pedana non è poi così semplice, almeno se la maturità dello schermitore non si ferma al valore epidermico della velocità; e la velocità è alla base del concetto di attacco semplice, quello che, essendo composto dal minor numero possibile di movimenti, risulta il meno esposto all’ampiezza del ventaglio difensivo dell’attaccato; per cui, non essere rapidi, limita non poco, per questa ragione, le probabilità di successo nel match.
Quindi per uno schermitore la ricerca della massima velocità, detto alla kant, è un imperativo categorico.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nell’ottobre del 2019
Scherma e difesa
Con questo articolo intendo chiudere la speciale trilogia dedicata prima al rapporto attacco/difesa, poi all’attacco e quindi, infine, alla difesa,
Vorrei esordire sottolineando il contrasto tra comune sentire e teoria schermistica allorché si parli di attacco e di difesa: invero nel primo caso il concetto di attacco spesso si percepisce come una prevaricazione, spesso pretestuosa e belligerante, mentre la difesa è vista e partecipata come legittima resistenza ad una colpevole aggressione; in sintesi condanna del primo e condivisione della seconda.
Nella tecnica schermistica non vige questa opposta valutazione di intenti: attacco e difesa sono due versanti paritetici dai quali si può partire al fine di prevaricare chi ci sta di fronte, quindi equanime ne è la considerazione; anzi, se proprio vogliamo dire tutto il vero, sconsiderato può essere definito talvolta un attacco portato senza eccessiva riflessione e quindi probabilmente non redditizio, mai una difesa.
Precisata questa sottile distonia tra linguaggio e tecnica schermistica, addentriamoci nella materia.
Una valida difesa si propone due scopi: uno immediato e condizionante, uno eventuale ma comunque doveroso.
Il primo consiste ovviamente nel neutralizzare il colpo d’attacco dell’avversario, altrimenti la difesa avrebbe totalmente fallito il suo compito e la frase schermistica non avrebbe più un suo seguito.
Il secondo consiste invece nella stoccata di rimando indirizzata sull’avversario ed ecco perché appunto prende il nome di risposta; una specie di vendetta dell’attaccato sull’attaccante.
Passiamo ora ad esaminare quali tipologie di difesa può mettere in campo colui che si difende.
Inutile ricordare l’importanza del mantenimento da parte sua di una misura a lui consona, che gli permetta cioè di avere tempo a sufficienza per percepire l’attacco e per approntare una difesa acconcia. Questa è senz’alto una pre-condizione che favorisce non poco il felice esito di una difesa.
Tecnicamente i trattati parlano di una difesa di misura, di una difesa col ferro e di una difesa mista.
La prima consiste nello sfruttare, potendolo fare, un arretramento tale da portarsi fuori della gittata dell’attacco; diciamo che ottempera solo al primo scopo di cui abbiamo parlato poco sopra, cioè non tende a risolvere il fraseggio schermistico, ma solo a dirimerlo nel tempo.
La seconda è quella col ferro, il cui meccanismo si basa sull’utilizzo appunto della propria lama per deviare, dopo averla intercettata, quella dell’avversario che sta per giungere a bersaglio; questo tipo d’intervento tende ad essere applicato soprattutto nelle armi convenzionali, per il fatto che, come sappiamo, la Convenzione attribuisce la precedenza nella ricostruzione dell’azione ai fini dell’attribuzione della stoccata.
La lama che difende può entrare in relazione con quella che attacca con diversi tipi di contatto temporale e diversi tipi di traiettoria.
Per quanto riguarda la durata del contatto, esso può ridursi ad una veloce percussione e in questo caso la parata è definita di battuta o di picco; in tal modo si condiziona la propria risposta che ovviamente non può che essere a ferro libero. Se invece il contatto è sensibilmente più duraturo nel tempo, la parata è definita di tasto o di appoggio e la risposta che ne può scaturire, oltre che a ferro libero, può essere anche di filo.
Per quanto riguarda le traiettorie la teoria schermistica, partendo da quattro posizioni stereotipe corrispondenti ai quattro bersagli canonici del tronco, prevede un ampio campionario di movimenti spaziali: le parate semplici, che spostano la lama in linea retta verso la linea di attacco sopravveniente – le parate di contro, che, tramite un movimento circolare della lama attorno a quella avversaria, la trasportano sulla linea di attacco opposta a quella originaria – le parate di mezza contro, che tramite un movimento semicircolare si spostano da una certa posizione iniziale ad un’altra opposta (ad esempio dalla 2ª alla 4ª, dalla 3ª alla 1ª, dalla 4ªalla 2ª) – le parate di ceduta, che possono essere eseguite con un apposito meccanismo solo nel caso che l’attacco avvenga di filo (ad esempio la ceduta di 4ª in contrapposizione al filo di seconda e alla fianco nata di seconda, la ceduta di 3ª in contrapposizione alla fianco nata interna).
Torniamo ora alla tripartizione del tipo di difesa: dopo quella di misura e quella col ferro, parliamo della difesa mista.
Come preavverte la stessa terminologia, in questa fattispecie si tratta di difendersi utilizzando in modo congiunto sia l’arretramento, sia la parata. L’utilizzo di questa modalità è suggerito e imposto dal tasso di irruenza e di spazialità con cui l’avversario realizza il suo attacco; in questo caso il difensore cerca di erigere un combinato disposto di due barriere di natura diversa.
Dopo la meccanica difensiva non possiamo non parlare della risposta, che, come abbiamo già avuto l’occasione di dire, è la ghiotta opportunità che una buona difesa concede al difensore stesso.
L’avversario ha profuso idee, meccanismi tecnici e prestazione fisica, ma non è arrivato sul bersaglio; e per sviluppare l’attacco nella sua parte finale si è necessariamente allungato in affondo o, peggio ancora, si è sbilanciato in una focosa frecciata. Quindi il rapporto posturale tra due contendenti è a tutto favore del difensore, che, in linea di massima, dovrebbe aver conservato una sufficiente e comoda postura di guardia; per di più la sua lama ha appena dominato quella dell’attaccante, deviandola dai propri bersagli: è il momento più opportuno di colpirlo di rimando, sia con una azione diretta, sia con un’azione di finta. Ora o mai più, perché ovviamente l’antagonista che non è riuscito ad arrivare sul bersaglio in caso di affondo cerca di riguadagnare la più confortevole e sicura postura di guardia, se invece ha utilizzato la frecciata fugge oltrepassando l’attaccato.
Ogni volta che ad un attacco non andato a buon fine non si approfitta per lanciare una risposta, aumentano statisticamente le possibilità a vantaggio dell’avversario; quindi è molto sconveniente non cercare di castigare ogni volta l’audacia dell’attaccante.
Per chiudere il discorso tecnica difensiva è ora necessario parlare di una tipologia di difesa alquanto bislacca, almeno per i non addetti ai lavori: l’uscita in tempo.
L’espressione richiama letteralmente non poco l’immagine di chi è chiuso nel proprio castello (la guardia) e, vedendo che il nemico sta sferrando un attacco, determina di eseguire una sortita basandosi sulla sorpresa (appunto un’uscita in tempo).
Il concetto è molto ardito, ma estremamente razionale: non mi affido alla parata che probabilmente ai già messo in preventivo, mi rendo conto del tipo di attacco che stai per sferrare, costruisco proprio sulle sue caratteristiche il mio colpo, lo applico con estrema decisione al fine di non farlo giungere a compimento.
Si tratti di sottrarre il proprio bersaglio con una schivata (inquartata o passata sotto), si tratti di anticipare la tua azione di un tempo tecnico o temporalmente (colpo d’arresto), si tratti di occupare per primo la linea sulla quale intendi portare il tuo attacco (contrazione), si tratti di eludere la tua ricerca del mio ferro (cavazione o circolata in tempo), si tratti di altri meccanismi similari (appuntata o imbroccata), il mio scopo è quello depotenzializzare il tuo attacco. In un modo un po’ insolito, ma io mi sto difendendo.
Congedato il rapporto tra attacco e risposta, sposterei l’attenzione su un concetto che non è detto che appaia del tutto ovvio.
Può venirci il dubbio di associare la difesa a un comportamento di passività nei confronti con l’avversario; ma questo non è detto, almeno non è detto per tutti i casi. E’ vero che spesso l’attacco coglie di sorpresa lo schermitore, ma altre volte, per scelta tecnica, può essere lo stesso schermitore, che magari si sente super sicuro in difesa, a cedere volontariamente l’iniziativa all’antagonista e ad attirarlo in una vera e propria trappola difensiva (in gergo si dice aspettare in parata). Ecco quindi che la difesa può avere un risvolto strategico.
Un’altra situazione a cui pensare è quella in cui uno dei due contendenti si trovi in vantaggio di due o più stoccate all’approssimarsi della fine del tempo regolamentare del match. Anche in questo caso la modalità difensiva può essere utilizzata strategicamente: si applica la difesa di misura sino a quando ce lo concede lo spazio utile che abbiamo alle spalle e intanto il tempo scorre. Oppure, se attaccando si prendono un paio di stoccate e non si intravedono altre strade opportune, non è forse il caso di mettersi in difesa (chiudersi, sempre in gergo) e confidare che accada qualcosa di meglio?! Poi si vedrà.
In conclusione, lo abbiamo già detto, la difesa non vuol dire subire e basta; le situazioni sulla pedana vanno oculatamente vagliate caso per caso, arma per arma, tipo di avversario per tipo di avversario. Pensare che la difesa coincida magari solo nella parata e risposta, per uno schermitore anche minimamente evoluto, è un errore assolutamente da evitare.
Inoltre la tecnica schermistica è un vero e proprio dedalo di logica tendente a risolvere a tavolino ogni circostanza che si può venire a configurare tra le lame dei contendenti; quando l’avvio delle ostilità da parte di uno dei due comincia a far oscillare l’ideale pendolo tra attacco e difesa, dopo diventa tutto consequenziale: una difesa può diventare attacco e una controdifesa un contrattacco …e questo in teoria, meravigliosamente, sino all’infinito.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio 2019
Scherma e Ferro su ferro
Non credo che ci siano dubbi sull’importanza per ogni schermitore di avere, come si dice, un buon portamento dell’arma: quando l’uomo ricorre ad un attrezzo, qualunque esso sia, è fondamentale per il miglior rendimento possibile che quest’ultimo diventi quasi un’appendice del proprio corpo, una protesi viva e sensibile.
I principi dei trattati e i consigli pazienti e paterni dei maestri rappresentano solo il punto di partenza per avere un buon rapporto con l’arma bianca che s’impugna; il cammino che lo schermitore deve intraprendere è molto lungo prima di poter sviluppare nelle dita e ancor prima complessivamente nella mano quella sensibilità indispensabile al miglior uso del proprio ferro. L’originario eccesso di forza impiegato, soprattutto da bambino, sul manico, deve diventare col tempo solo adeguato supporto ed anche l’uso indifferenziato di questa forza deve mutare a seconda delle situazioni, per realizzare ciò che in gergo viene definita la stretta in tempo.
E’ solo la pratica ricorrente che, volta per volta, consente allo schermitore di migliorare il rapporto, tramite il manico, con la sua lama e soprattutto con la sua punta; quindi sono le lezioni con il maestro, gli esercizi con i compagni di sala e, soprattutto, gli assalti ad impratichirlo in questo aspetto tecnico.
La teoria schermistica offre specifiche opportunità in questa ottica: cambio di legamento, trasporto e riporto, sono il letterale a b c in questo settore.
La scherma, come si dice, in linea è un bel pezzo che non si vede più sulle pedane: in effetti, soprattutto nelle armi convenzionali, l’evoluzione della tecnica si è indirizzata verso altri lidi; la velocizzazione dei movimenti ha comportato il fatto di non concedere il ferro all’avversario e di utilizzare al minimo, soprattutto in attacco, il contatto tra i due ferri.
Quindi le meccaniche appena sopra esposte vengono attualmente utilizzate solo per indirizzare e addestrare il portamento del ferro degli allievi; esaminiamole ora nei particolari.
Cambiamento di legamento, il nome già dice tutto: abbiamo imprigionato il ferro dell’avversario secondo le giuste modalità, quindi utilizzando la cosiddetta parte forte della nostra lama e insistendo su quella medio-debole di quella dell’avversario; ora si tratta di mutare il tipo di legamento, quindi cambiandone la direzione; giocoforza dobbiamo abbandonare il contatto con il ferro antagonista e, facendo una circonduzione sopra – sotto – a sinistra o a destra, subitaneamente ripristinarlo appunto dal lato opposto.
Questo tipo di meccanismo allena lo schermitore per quanto riguarda le traiettorie: esse devono essere geometricamente al risparmio ovvero non devono allontanarsi troppo dalla lama dell’avversario; simultaneamente devono essere precise, nel senso di rispettare all’arrivo la stessa priorità di gradi vantaggiosi di partenza; le traiettorie devono essere anche eseguite il più velocemente possibile, per ridurre al minimo l’istante in cui il contatto tra i ferri viene meno, ciò al fine di non consentire libertà di movimento all’antagonista. Le linee, notoriamente sono quattro, e quindi gli spostamenti, pur in simmetria, sono alquanto variabili. Scioltezza di movimenti, applicazione minima di forza, direzione, precisione e velocizzazione del gesto sono gli obiettivi di questo tipo di attività.
Trasporto: qui le possibilità di movimento diminuiscono drasticamente in quanto il meccanismo si basa sul concetto di non abbandonare mai il contatto tra la propria lama e quella dell’avversario; in modo indotto, quindi, si potrà solo passare dal proprio legamento di quarta a quello di seconda e viceversa oppure da quello di terza a quello di prima e viceversa.
Lo schermitore in questi casi allenerà soprattutto la sensibilità del suo polso armato, che, a seconda delle situazioni spaziali, dovrà fare perno su se stesso; l’applicazione della forza dovrà essere ridotta al minimo in quanto il dominio sarà esclusivamente affidato ai gradi della propria lama e all’utilizzo in coacervo di lama e coccia; allenerà la traiettoria nel senso di percorrere economicamente in linea retta il trasferimento da una postura all’altra; in parallelo allenerà anche la direzione, nel senso di posizionarsi secondo il pieno rispetto delle coordinate spaziali presenti al di sopra dei suoi propri quattro bersagli, senza eccedere in lontananza o in vicinanza.
Anche in questo caso, scioltezza dei movimenti, applicazione minima della forza, direzione, precisione e velocizzazione del gesto saranno gli obiettivi di questo tipo di attività.
Riporto: ultimo della serie e, francamente, il meno utilizzato; in questo caso tutto si riduce, partendo da un proprio legamento, ad avvitare il proprio pugno armato, tramite un suo giro completo, attorno alla lama dell’avversario; l’applicazione della forza è pressoché al minimo, in quanto il meccanismo è garantito, come nel trasporto, dall’ottimale rapporto di dominio del nostro ferro rispetto a quello antagonista, sempre con l’aiuto della nostra coccia.
In questa situazione l’allenamento che si persegue è solo quello posizionale, ovvero quello riferito al mantenimento delle medesime coordinate spaziali al di sopra dei propri rispettivi bersagli.
Una doverosa nota conclusiva: anche se, come ho appena sopra detto, i contatti tra le lame dei fiorettisti sono diventati sempre più rari, il trasporto, fatto seguire da un subitaneo filo, può costituire un valido colpo d’attacco (le cosiddette fianconate); questo perché, avvitandosi la lama velocemente sull’altra, concede a quest’ultima ben poche possibilità di svincolarsi.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’aprile del 2019
Scherma e Finta
Quando siamo piccoli ci dicono di non dire mai le bugie e i deterrenti sono i soliti: le bugie hanno le gambe corte …ti si allunga il naso come a Pinocchio e similari.
Tu quindi ti adegui: cresci trasparente come un parabrezza ben pulito, hai pochissimi segreti comunque del tutto trascurabili, sei un libro aperto anche se ancora non sai leggere.
Poi un giorno ci pensa lo sport a proiettarti nella realtà: tra gli altri, un coach di pallacanestro, un allenatore di pallavolo o un maestro di scherma ad un certo punto ti parlano della …finta.
Finta?! Ma non avevano detto che le bugie non si dicono mai! E nello sport non si deve sempre essere corretti?!
Comunque grandissima invenzione la finta! Le stoccate diventano come …un “giallo”: devi leggere l’ultima pagina (aspettare che il colpo arrivi sul bersaglio) per scoprire chi è il colpevole (la natura della stoccata). E la scherma di conseguenza diventa sempre più appassionante a praticarla, ad insegnarla o solo anche a scriverne.
La finta è un vero e proprio salto di qualità esistenziale: in effetti, se la teoria schermistica contemplasse solo le azioni semplici di offesa (notoriamente la botta dritta, la cavazione, la battuta e colpo, il filo) lo sviluppo degli assalti sulla pedana alla ricerca della stoccata vincente sarebbe oltremodo monotono e la sfida si limiterebbe solo su alcuni aspetti della tecnica: la misura, la scelta di tempo, la velocità.
Come ben sappiamo questi ultimi costituiscono gli elementi fondamentali della scherma, in altre parole l’ideale spartito sul quale vengono eseguite le varie azioni. Ma la finta dischiude nuove modalità e numerosi altri percorsi per la lama che vuole giungere a bersaglio.
La necessità dell’utilizzo della finta è dovuta al fatto che il rapporto tra le velocità di esecuzione dei movimenti tra i due contendenti è paritario o addirittura è in rimarchevole vantaggio a favore di uno dei due: quindi si rende necessaria la ricerca di una metodologia di colpo che aggiri questa situazione di svantaggio.
Ecco che la filosofia del colpo, aggirando il concetto di velocità, si racchiude nel principio che, mentre nelle azioni semplici appunto con la velocità si vuole sorprendere la difesa dell’avversario e precedere temporalmente la sua compiuta esecuzione, nelle azioni con finta invece l’avversario viene coinvolto compiutamente nello sviluppo geometrico della stoccata. In effetti la sua superiore velocità è indotta a svilupparsi e ad esaurirsi in una direzione fittizia: il ferro, ingannato dalla finta del colpo ad allontanarsi dall’ideale sito di presidio del sottostante bersaglio, va alla ricerca del nulla.
Questo escamotage tecnico ha il pregio, sicuramente per l’attaccante e meno per l’attaccato, di moltiplicare a dismisura la tipologia di azioni: in effetti ogni azione semplice di attacco può essere fintata.
Dunque la finta null’altro è che la simulazione di un colpo; ma nulla produrrebbe la finta in se stessa, se non fosse inserita in un rigoroso meccanismo esecutivo. Esaminiamone i vari elementi e momenti.
Il presupposto dell’utilizzo della finta, come già evidenziato, risiede soprattutto nella necessità di non scendere in un terreno favorevole all’avversario, appunto la sua temuta velocità esecutiva della parata; tuttavia la finta può essere anche scelta per variare la natura della successione delle stoccate e rispondere , tra l’altro, ad un’esigenza tattica o puramente edonistica dell’attaccante.
La finta in sé consiste in uno spostamento del proprio ferro, magari unitamente a quello di tutto il corpo, al fine di conferire maggiore veridicità al gesto, ferro che va ad avvicinarsi e a minacciare una specifica superficie di bersaglio, paventandone il raggiungimento.
La finta di attacco, come effetto desiderato indotto, produce una o più contromosse anche in simultanea dell’avversario: – uno spostamento della sua lama per intercettare e deviare il colpo dell’attaccante tramite la cosiddetta “parata” – l’esecuzione di un arretramento unito ad una parata – l’attuazione di una cosiddetta “uscita in tempo” al fine di utilizzare le caratteristiche spazio-temporali dell’attaccante per non essere colpiti e simultaneamente colpirlo.
E’ dallo studio della tipologia di reazione dell’avversario che prende corpo la meccanica dell’azione con finta, anzi direi più specificatamente dalla reazione spontanea e quindi automatica dell’avversario; in effetti nulla garantisce che a parità di tipo di finta l’avversario risponda notoriamente e meccanicamente sempre e comunque allo stesso modo. Quindi i concetti di misura e scelta del tempo nel caso della finta non servono a sorpassare direttamente la difesa dell’avversario, ma comunque si devono utilizzare al meglio per conferire il maggior tasso possibile di veridicità alla finta in modo da scatenare la sua automatica e prevista reazione difensiva.
Quindi, verificato come si comporta l’avversario, si deve procedere al rinvenimento degli idonei strumenti della tecnica schermistica per controbattere alle sue mosse da noi indotte.
Come appena sopra accennato: – se si difende con la parata, il nostro ferro deve eludere questo tentativo d’intercettazione – se oltre che parare arretra, oltre la predetta elusione dobbiamo anche avanzare per restare a misura – se esce in tempo, è necessario effettuare un controtempo.
Questi gli schemi in generale, poi, ovviamente è necessario, scendere al particolare.
Nel caso di una parata: siccome l’avversario può eseguire diverse tipologie di parata (semplice, di contro e di mezza contro) è necessario conoscere prima dell’esecuzione dell’attacco con finta l’esatta configurazione di questa parata; esatta, perché notoriamente una parata semplice o di mezza contro si elude solo con una cavazione, invece una di contro solo con una circolata; in caso contrario la parata intercetta spazialmente il colpo.
Nel caso di un’uscita in tempo: siccome l’avversario può scegliere tra diverse tipologie di uscita in tempo, è necessario conoscerne la natura per essere pronti a controbattere a nostra volta o con una presa di ferro o addirittura con una nostra uscita in tempo.
La meccanica della finta semplice può poi estendersi alla doppia finta, ovvero ad una rapida successione di due parate consecutive; e siccome le parate possono essere sia semplici che di contro, di conseguenza si possono configurare quattro diverse tipologie di successioni: due parate semplici, due parate di contro, la prima semplice e la seconda di contro, la prima di contro e la seconda semplice. Ne consegue che, in caso di azioni di doppia finta, l’attaccante anche in questo caso debba necessariamente conoscere la natura delle due parate in successione, pena l’intercettazione del suo colpo. A questo proposito, anche se in teoria le finte e le parate potrebbero proseguire sino all’infinito, i trattati di scherma sono soliti spingersi solo alla doppia finta; ciò per il semplice motivo che un attacco troppo prolungato con tante finte nel tempo suggerirebbe di per sé l’ovvia contraria del colpo d’arresto.
Tutto quanto detto concerne la meccanica del o dei colpi fintati; resta ora da affrontare l’argomento della tempistica.
Riassumendo in schema lo svolgimento di un colpo con finta: esecuzione della finta, attesa della reazione difensiva, sua elusione, raggiungimento finale del bersaglio.
Pur soggetto ai giusti presupposti di misura e scelta del tempo, l’inizio dell’attacco con finta è assolutamente a discrezione dell’attaccante; invece le successive fasi, per la felice conclusione della stoccata, si devono necessariamente dipanare secondo una precisa tempistica esecutiva legata a differenti fattori.
In effetti dopo l’esecuzione della finta l’attaccante deve ovviamente attendere i tempi di reazione ad essa e sintonizzare temporalmente i movimenti tecnici della sua elusione a quelli della parata dell’avversario (in questa fase dunque la velocità dell’azione di finta sarà relativa); solo dopo la mancata intercettazione del suo ferro, quando cioè la parata dell’avversario non avrà prodotto lo sperato effetto difensivo, l’attaccante potrà andare finalmente a bersaglio secondo le sua massime possibilità (in questa fase la velocità dell’azione sarà quindi assoluta).
In sintesi, per tutto quanto espresso, l’azione con finta conferma la sua grande importanza nella capacità di gestite tecnicamente lo svolgimento di un match; tuttavia non sono da nascondere le insidie alle quali deve statisticamente sottostare soprattutto colui che ne abusa: l’avversario può avvedersene e reagire opportunamente.
Innanzitutto quest’ultimo può variare la tipologia di parata, facendo quindi saltare lo schema che l’attaccante si era prefigurato tramite un buon scandaglio; in secondo luogo, tutti i tempi tecnici devoluti alla finta di un colpo costituiscono altrettante golose opportunità per chi subisce l’attacco per uscire in tempo tramite il colpo d’arresto.
Comunque il grande valore tecnico della finta risiede soprattutto nel dubbio amletico che assale colui che subisce un attacco: sarà semplice o con finta?
M° Stefano Gardenti
Firenze nel marzo 2019
Scherma e finta in tempo
Mettiamo subito in chiaro una cosa: con la finta in tempo siamo ai confini della galassia tecnica della nostra disciplina. In effetti questa tipologia di colpo è, di solito, l’ultimo argomento trattato da un trattato (gioco di parole cercato e trovato!).
Se con una fantasiosissima navicella spaziale potessimo sorvolare le pagine di un libro di tecnica schermistica, vedremmo scorrere sotto di noi, dopo le parti dedicate ai cosiddetti fondamentali, tutta la serie di azioni di attacco sia semplice che composto, tutta la difesa con le parate di ogni genere, tutta la fantastica serie di uscite in tempo e ovviamente subito dopo il controtempo; infine, come oggetto più lontano dalla botta dritta, ecco che avremmo potuto osservare, alquanto diafana, appunto la finta in tempo. Oltre il nulla.
Avventuriamoci con coraggio nell’argomento partendo dal concetto di tecnica schermistica più semplice: in attacco una bella botta dritta (uno di quei colpi che raramente si tirano in un match!) oppure in difesa una secca e repentina risposta dopo una parata ad hoc. Niente di più solitario ed essenziale: tac e via!
Già le cose si complicano con azioni composte: qui, come ben sappiamo, lo schermitore non può far tutto da solo, ma deve necessariamente coinvolgere il suo avversario. Il trucco è capire la tipologia di parata a cui quest’ultimo ricorre istintivamente ed il gioco dovrebbe esser fatto. Il meccanismo diventa maggiormente arduo quando, già nei piani, è prevista l’elusione non di una sola, ma bensì di due parate antagoniste: non solo la cabala delle parate ora diventa duplice, ma si complica anche terribilmente la stessa meccanica del colpo, roba da robot da cucina! Due cavazioni, una cavazione e una circolata, una circolata e una cavazione, due circolate: roba da nervi d’acciaio, puntualità di un orologio svizzero dei migliori e manualità da amanuense. Io, le stoccate andate a segno con questa tipologia, le farei valere il doppio!
Poi ci sono le uscite in tempo: anche qui tempistica da appuntamento tra navicelle spaziali e soprattutto determinazione da killer professionista (brutta immagine, perdonatemi). Comunque qui la tecnica, magari tranne la contrazione e l’imbroccata, è essenziale e la filosofia, soprattutto nelle armi convenzionali, è quella de “la va o la spacca!”. Tutto si brucia nell’attimo fuggente.
Con il controtempo i trattati diventano pirandelliani: io ti attacco, perché ho capito che tu attacchi il mio attacco, quindi io ti attacco difendendomi dal tuo colpo ti colpisco tramite la mia difesa.
Calma e sangue freddo; ricorriamo ad uno scherma per capire il meccanismo di natura luciferina: io sono A e il mio avversario, guarda caso, è B.
Prima fase: A, che ha fatto tutto il ragionamento sopradescritto, prende l’iniziativa e fa una determinata mossa; seconda fase: B si aspettava questa mossa e attua un certo comportamento; terza fase: A, che aveva predeterminato questo comportamento, lo neutralizza idoneamente; quarta fase: A finalmente, spianatasi la strada tecnicamente, va al sospirato bersaglio.
Ecco un esempio pratico mutuato dalla specialità della spada: A, che ha intuito che B tende ad effettuare un colpo d’arresto, finge un colpo al piede; B abbocca e allinea il suo braccio armato con l’intenzione appunto di arrestare; A, che non aspettava altro, tra le tante opzioni tecniche che ha, esegue una presa di ferro in terza; infine A esegue un filo al bersaglio esterno. Verrebbe da dire, “Amen”.
Ma eccoci giunti, dopo lungo ed estenuante cammino, alla nostra meta: la finta in tempo.
Il lungo fil rouge che collega gli sviluppi del fraseggio schermistico arriva all’ultima sua tappa; intendiamoci bene, quest’affermazione non ha valore assoluto, bensì solo relativo, in quanto il dialogo tra le due lame concorrenti può in linea teorica continuare all’infinito. Ricordo a questo proposito che in un romanzo di cappa e spada, “Il maestro di scherma” di Arturo Pérez-Reverte, è espresso appunto questo concetto di scambio illimitato nel tempo delle stoccate tra i due avversari: solo un errore di uno dei due spalanca il suo bersaglio alla stoccata dell’altro e la magica serie dei colpi si conclude.
Ma torniamo alla tecnica e con l’aiuto di una guida indiana scelta stendiamo lo schema di una finta in tempo con i soliti protagonisti A e B. Ma facciamo prima un riassuntino più pirandelliano di quello di prima per intuire la filosofia del colpo: Io so che tu sai che io eseguo un’uscita in tempo, quindi, per annullare il controtempo che esegui, non devo eseguire tale uscita in tempo, ma solo fingerla; naturalmente, per conoscenza da scandaglio o da precedente storico, devo essere a conoscenza del tipo di meccanismo che intendi applicare nel tuo controtempo.
Ecco finalmente lo schema. Prima fase: io sono A e devo attendere che B dia inizio al suo finto attacco; seconda fase: B realizza questo finto attacco; terza fase: io devo solo fingere di eseguire la mia uscita in tempo; quarta fase: B deve mettere in atto il suo controtempo come da copione; quinta fase: devo realizzare al momento opportuno il meccanismo di elusione di tale controtempo; sesta fase: ora e solo ora ho l’opportunità di raggiungere il bersaglio.
Anche in questo caso avvaliamoci di un esempio pratico per supportare una teoria così complessa. Utilizzerei gli estremi di quello precedente che abbiamo analizzato circa il controtempo; solo che in questo caso dobbiamo ribaltare l’ottica: non siamo più colui che deve attaccare un avversario che esce in tempo, ma, appunto posponendoci, siamo colui che si vede attaccare da un avversario che applica il controtempo. Quindi: io sono A e devo attendere che il mio collega spadista mi faccia la finta al piede; da B quale sono devo allineare il mio braccio armato a mo’ di colpo di arresto, magari ad un bersaglio avanzato; B, tutto soddisfatto, cerca di imprigionare la mia lama tramite una presa di ferro di contro di terza; esattamente nello stesso istante io devo eseguire una circolata per far andare a vuoto il tentativo del mio antagonista; scampato il pericolo di intercettazione del mio ferro, se tutto è andato nel modo giusto, devo solo portare il colpo sul bersaglio lasciato incustodito.
Non c’è che dire: un’azione manzoniana (lunga appunto come i periodi dei Promessi Sposi), un’attesa da far scappare la pazienza anche a Giobbe, un intreccio di lame da golfino fatto a maglia!
Non so quante volte nella propria carriera uno schermitore abbia l’effettiva possibilità di tirare un colpo del genere; tra l’altro è facile da comprendere come tale possibilità sia condizionata dal fatto che i due schermitori che si affrontano sulla pedana siano entrambi in possesso di un’elevatissima capacità tecnica.
Per di più l’evoluzione che tutte e tre le specialità hanno avuto negli ultimi decenni, dando sempre più maggiore spazio alla componente atletica della prestazione, ha sfoltito parecchio le tipologie delle azioni teorizzate sui trattati: sotto questo aspetto, non a torto, si preferiscono oggi quei colpi di rapida esecuzione, quindi basati soprattutto e maggiormente sulla velocità. Metaforicamente possiamo dire che ai fraseggi lunghi e complessi, un po’ come quelli di natura manzoniana di cui abbiamo fatto cenno poco sopra, oggi sono molto più proficue le affermazioni brevi e stentoree; in schermese: mentre tu vai a caccia di farfalle con la tua lama con cerchi e mezzi cerchi, io ti sparo (brutto verbo per uno schermitore!) un bel colpo d’arresto.
Ma vi prego, se questo è vero (ed è vero), a suo tempo comunque insegniamo, colleghi, o facciamoci insegnare, amici schermitori, la finta in tempo.
Questo colpo è un po’ come l’impugnatura del fioretto italiano: oggi sono nelle soffitte delle sale di scherma, ma chi più di loro ne evoca l’estetica!
Ma poi che magia: magia intellettiva per poter ideare un colpo così complesso, magia esecutiva per rispettare necessariamente tempi e traiettorie dei ferri, magia caratteriale per avere il coraggio di tirare …l’ultima stoccata dei trattati; dopo la finta in tempo nient’altro.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e impugnatura
Non vi è alcun dubbio che l’arma che lo schermitore impugna sia un attrezzo: siamo lontanissimi dal femore che Guardalaluna, la grande scimmia del film 2001 Odissea nello spazio, brandisce per colpire e frantumare lo scheletro a cui si è accostato; siamo meno lontani dal famoso spadone a due mani che il ragazzo Artù riesce ad estrarre dalla viva roccia; siamo coevi con il fioretto – la spada e la sciabola normalizzati dal Regolamento per il materiale della Federazione Internazionale; ma tutti questi manufatti che hanno cambiato struttura, peso e forma non hanno mai mutato la loro funzione di veri e propri attrezzi da utilizzare in combattimento, ovvero in situazioni di reale e materiale scontro fisico per imporre la propria egemonia.
Poi l’etimologia del termine scherma, che richiama un concetto di protezione e di riparo, in tempi storici è stata scelta per cercare di edulcorare almeno in parte la situazione veramente incresciosa della brutale tenzone. Quindi la scherma si dovrebbe utilizzare solo per difendersi! E la storia (talvolta ingannevole) si ripete: chi attacca per primo è il cattivo di turno; poi, molto naturalmente, da aggrediti si può anche poi ideare e realizzare un attacco, ci mancherebbe altro! Ma lo possiamo fare solo perché siamo stati provocati e messi in pericolo dagli altri. Forse sarebbe meglio denominare la nostra disciplina “za, za”, come la definiscono i miei nipoti ancora molto piccoli.
Ma ritorniamo in carreggiata! Sì, le armi sono veri e propri attrezzi come un martello, delle tenaglie o una lima. In pratica l’arma è un utensile idoneo a svolgere un certo lavoro (nel nostro caso, menar fendenti e puntate) e, ovviamente, è necessario imparare ad usarlo al meglio.
Il primo aspetto su cui focalizzare la nostra attenzione è quello riguardante il modo con cui entrare in relazione con esso, detto più semplicemente, come impugnarlo. Ad esempio, per l’uso migliore, un martello va impugnato il più lontano possibile dalla sua testa di ferro; altrimenti si riesce comunque a battere magari un chiodo, ma non si riesce a sviluppare tutta la potenza e la precisione possibile.
Questo accade altresì nell’impugnare un’arma bianca e diciamo subito una cosa che è molto importante per il neofita: anche se la nostra mano si relaziona in modo perfetto e rispetta tutti i canoni teorici al riguardo, sarà solo il suo uso nel tempo a consentirci di poterla sfruttare al meglio. In altre parole il cosiddetto maneggio dell’arma è soprattutto un lento, puntiglioso e faticoso percorso esperienziale.
Comunque prima di scendere al dettaglio delle posture delle dita e del palmo della mano, cerchiamo di individuare le funzionalità di cui deve poter disporre la nostra arma per poter entrare in competizione al meglio con quella dell’avversario.
Innanzitutto deve possedere la maggior mobilità possibile, cioè, a seconda delle situazioni, deve potersi spostare molto rapidamente nello spazio che separa i due contendenti.
In secondo luogo l’arma, in rapporto a quella dell’avversario, deve potersi traslare con precisione quasi millimetrica da un preciso punto di partenza ad un altrettanto preciso punto di arrivo, individuato, a seconda delle situazioni, come bersaglio, come ricerca del ferro avversario o come tentativo di sua elusione.
In terzo luogo la lama deve rispettare quelle traiettorie di spostamento in tal modo da ossequiare precisi dettami geometrici utilitaristici (soprattutto nella specialità della spada con la sua ossessione di anticipare il colpo dell’avversario).
Infine il ferro deve possedere un notevole tasso di precisione, soprattutto ovviamente nei colpi di punta, dove, oltre il raggiungimento del bersaglio, devono esserci i presupposti per poter esercitare una pressione che vinca la resistenza della molla ai fini della segnalazione della stoccata.
Per poter ossequiare tutte queste esigenze funzionali è di facile intuizione capire come la relazione tra il braccio armato e soprattutto la sua parte terminale, ovvero la mano dello schermitore, debba essere informato alla massima leggerezza possibile nel rapporto con l’attrezzo-arma, per garantire appunto velocità e destrezza; in effetti ogni applicazione di forza muscolare eccessiva comporta rigidità e, di conseguenza, un significativo ritardo motorio esecutivo e un importante impaccio nei movimenti, in specie quelli fini.
A questo proposito la teoria schermistica nel suo insieme evidenzia un concetto fondamentale: l’arma è la parte apicale di tutto il sistema-schermitore e la lama è la risultante fisica finale di idonee posture e accurati movimenti tecnici.
Laonde per cui, se già ogni squilibrio fisico e mancato rispetto dei canoni della tecnica riducono statisticamente la possibilità di toccare l’avversario, il fatto di non impugnare opportunamente un’arma, senza alcun dubbio, viene a costituire un elemento oltremodo condizionante per il buon esito del colpo.
Scendiamo ora nel particolare; l’arma, come ben sappiamo, è composta da tre parti: la lama, la coccia ed il manico. Ognuna di queste parti svolge un ruolo specifico nelle disavventure che portano alla stoccata (la lama nel suo rapporto di contrapposizione a quella dell’avversario e la coccia utilizzata come supporto allo stesso ferro); ma, per debito di titolo, concentriamo la nostra attenzione sul manico.
Quest’ultimo rappresenta la parte dell’attrezzo che entra in relazione con il corpo dello schermitore, nella fattispecie la sua mano; è qui che si realizza il concetto di impugnatura, ovvero di stretta relazione funzionale tra soggetto animato e oggetto inanimato. Ed ecco che appare in tutta la sua evidenza l’importanza della struttura, ovvero della forma del manico in rapporto alla morfologia dell’arto umano; lo scopo è quello di costituire quanto più è possibile una specie di continuum tra braccio armato e attrezzo nel suo complesso.
A questo punto è necessario introdurre alcune osservazioni di carattere storico, almeno limitatamente alle armi bianche sportive, per capire come l’ottimale rapporto tra mano e attrezzo sia potuto mutare sia in relazione alla sua funzionalità, sia in relazione al luogo, sia in relazione al divenire del tempo.
Per quello che riguarda la funzionalità, emblematico è il caso della specialità della sciabola: per il fatto che lo sciabolatore statisticamente ricorra, in quanto più conveniente, più al taglio della lama piuttosto che alla sua punta, la forma del manico non è mai sostanzialmente mutata nel tempo. Da subito è stata realizzata l’unica impugnatura utilizzabile in questa ottica, cioè quella che potesse consentire al polso la massima capacità di circonduzione appunto in funzione del grande ventaglio realizzabile spazialmente nei colpi d’attacco e, di conseguenza, di quelli relativi necessari alla difesa. Il colpo di punta nella sciabola è teorizzato, ma di rara esecuzione; per di più esige l’utilizzo del cosiddetto pugno di seconda, che quindi costringe lo sciabolatore a far compiere al suo braccio armato una certa evoluzione spaziale.
Per quello che riguarda la relazione al luogo: differentemente che nella sciabola, nelle specialità dove si colpisce univocamente di punta, le possibilità di conformare la struttura del manico dell’arma si sono rivelate storicamente molteplici. E a questo proposito è subito necessario fare un’interessante osservazione: l’opzione scelta per le caratteristiche del manico ha portato logicamente a privilegiare, tra tutte le azioni complessivamente elaborate dalla teoria schermistica, certe tipologie di colpi più facilmente realizzabili impugnando l’arma in un certo modo piuttosto che un altro, come esemplificherò qui di seguito.
Ecco che territorialmente si sono affermate vari tipi di scuola, in primis quella italiana e quella francese.
La prima aveva concepito il cosiddetto manico italiano, caratterizzato dal ricasso (in pratica la continuazione pur appiattita della lama dopo essere passata attraverso la coccia), dal gavigliano (un segmento perpendicolare al ricasso) e da due archetti (ciascuno congiungente il gavigliano e l’interno coccia a mo’ di supporto). Lo scopo principale era quello di consentire a tre dita della mano di governare in esclusiva le evoluzioni della lama: l’indice supportava dal basso, il pollice serrava dall’alto, il medio concorreva all’equilibrio laterale; le rimanenti due dita, l’anulare ed il mignolo, offrivano un ulteriore e comunque non fondamentale supporto. Ovviamente in tal modo i movimenti della lama e soprattutto quelli della punta potevano essere calibrati tendenzialmente al millimetro; questo con indubbi vantaggi specialmente nei movimenti di svincolo e in quelli di elusione della ricerca del ferro operata dall’avversario, cioè nelle cavazioni e nelle circolate. Un altro effetto era quello di escludere o comunque limitare al massimo l’uso della forza fisica nel gioco del braccio armato: ciò era garantito dalla presa precaria della mano su questo tipo di manico.
Invero come tutte le medaglie, anche tale tipo di manico aveva le sue evidenti controindicazioni: la mano, come ben si capisce dalle specificazioni poco sopra elencate, in pratica si teneva abbarbicata sul manico non potendo significativamente esprimere su di esso alcuna forza; tanto che, per ovviare a questo difetto, molti utilizzavano appositi cinghietti o fasce per tenere maggiormente serrato il manico alla mano; ciò causava un’ulteriore controindicazione: il polso, oltremodo ingabbiato, non poteva spezzarsi agilmente alla ricerca di un giusto angolo sia in attacco che in difesa.
Quando, diciamo dalla metà degli anni sessanta, la componente tecnica della conduzione dell’assalto è stata affiancata e poi sorpassata da quella atletica, è stata decretata la fine del manico di tipo italiano, che è diventato obsoleto per i motivi già sopra accennati: la debole presa fisica sul manico, l’impedimento all’angolazione del polso tanto utile nei sempre più frequenti corpo a corpo, l’inutilità di movimenti stretti della lama che invece tendeva per vari motivi a percorrere traiettorie sempre più allargate (soprattutto nel fioretto). E il manico cosiddetto italiano ora è solo un cimelio da bacheca.
La seconda scuola territoriale legata al manico è quella francese (se uso il modo indicativo presente significa che è, se pur parzialmente, ancora in vita: in questo caso la mano deve far presa senza alcun tipo di appiglio in quanto il manico è costituito solo da un semplice segmento, talvolta pur leggermente sagomato. In questo caso la mano è molto più libera rispetto ad esempio al manico italiano: liberando dalla presa l’anulare ed il mignolo, il polso diventa molto snodabile e può facilmente eseguire quelle che in gergo schermistico vengono denominate angolazioni e opposizioni di pugno da sfruttare anche in occasione dei corpo a corpo. In questo caso la controindicazione maggiore è costituita dal fatto che la presa a piena mano, aggravata dalla mancanza di qualsiasi sporgenza utile, spinge lo schermitore a serrare indiscriminatamente le sue dita e, potendo incrementare oltre il dovuto l’utilizzo della forza fisica, può quindi andare a nocumento della gestione della lama in termini di velocità e di precisione (quindi in modo diametralmente opposto a quella consequenziale al manico italiano).
L’utilizzo del manico francese nella specialità del fioretto è andato progressivamente rarefacendosi (anche in terra di Francia!); comunque in generale appare meno sorpassato tecnicamente di quello italiano.
Qui, come per la sciabola, è necessario fare un discorso particolare per la specialità della spada: la caratteristica del manico francese, quella appunto di non avere specifici alloggiamenti per le dita (da cui l’altra denominazione “manico liscio”), rende possibile impugnare il manico nella sua parte terminale, allungando di conseguenza (e non di poco) la lunghezza complessiva del proprio braccio armato. La controindicazione (una controindicazione almeno c’è sempre!) è alquanto ovvia: si aumenta la difficoltà di presa sul manico e si peggiora significativamente la gestione della mobilità complessiva dell’arma, sbaricentrandone la postura. In altre parole si baratta una lunghezza maggiore (tanto utile nella spada) con una più disagevole maneggevolezza complessiva dell’attrezzo.
Attenzione però: lo schermitore, a seconda delle contingenze, può variare l’impugnatura a mano piena con quella allungata e viceversa, innestando tra l’altro una variabile tecnico-tattica temporale per complicare la vita all’avversario; ovviamente privilegerà la maggior presa per le azioni sul ferro e quella minore per le azioni a ferro libero.
Siamo infine giunti all’influenza del tempo sul tipo di manico: inesorabilmente il fluire del tempo attacca anche la nostra disciplina, rendendo obsolete azioni e materiali.
Attualmente il manico che domina il palcoscenico è quello anatomico o ortopedico che dir si voglia, ovvero un manico che, come il lessico suggerisce, è modellato sulla morfologia della mano, che quindi trova degli alloggiamenti ideali, anzi fatti proprio su misura, per ciascun dito della mano.
La presa sull’arma, se confrontata agli altri manici storici, risulta sicuramente più naturale e soprattutto comoda, quindi niente posture artefatte e minor affaticamento dei muscoli della mano; situazioni che sicuramente vanno a tutto vantaggio dei neofiti, soprattutto se molto giovani.
Tuttavia esiste anche per questo tipo di manico una potenziale controindicazione: proprio il fatto della comodità posturale, se non controbilanciato dai suggerimenti del maestro, induce di per sé ad un uso indifferenziato delle dita della mano, che ovviamente comporta un maneggio meno fine e preciso dell’intera lama; osservazione questa valida soprattutto per la specialità della spada dove, per necessità indotta delle regole di combattimento, l’economia spaziale negli spostamenti e nei movimenti risulta essenziale.
Anche se molto meno diffusi, doverosamente dobbiamo ricordare anche i cosiddetti manici misti, ovvero manici ibridi a mezza strada tra anatomico e francese, realizzati nel tentativo di poter fruire maggiormente solo dei vantaggi di ciascun tipo di manico, tendendo ad eliminarne le controindicazioni.
Un altro concetto molto importante, comune indiscriminatamente ad ogni tipologia di manico, è quello di un’applicazione differenziata nel tempo della forza muscolare della mano. Abbiamo già ampiamente spiegato che l’arma va impugnata senza soverchia forza; tuttavia questa forza, senza comunque eccedere, va incrementata in occasione di alcune circostanze al fine di continuare a mantenerne il migliore maneggio: in effetti quando la nostra lama entra in contatto con quella dell’avversario (soprattutto in caso di sua battuta o di nostro legamento) o anche quando essa impatta sul sospirato bersaglio antagonista (soprattutto in caso di puntata), è necessario controbilanciare le maggiori forze cui è soggetta. Quindi la forza applicata dalla mano sul manico non sarà costante nel corso dell’assalto, ma varierà secondo le varie contingenze tecniche. I trattati denominano questo incremento di forza come “stretta in tempo”.
Voglio concludere l’argomento sviluppando un tema solo accennato in precedenza: il miglior utilizzo del braccio armato, più di ogni altro gesto tecnico allenato specificatamente, si raggiunge solo dopo anni di esercizio e soprattutto di utilizzo esperienziale quotidiano sulla pedana.
In effetti la congiunzione tra il corpo dello schermitore e l’arma che è un attrezzo inanimato, congiunzione che si realizza attraverso il contatto mano-impugnatura, rappresenta il momento topico per la prestazione di combattimento. Solo con l’andar del tempo la pratica d’uso connetterà al meglio l’uomo e l’attrezzo, il quale, alla fine, diventerà una vera e propria appendice del corpo dello schermitore, che tramite questa arriverà anche a trasferire la propria sensibilità tattile dalle dita della mano alla stessa lama, quello che gli specialisti denominano sentiment du fer.
E invero la lama dell’avversario parla e può tradire le sue intenzioni: entrando in relazione con essa tramite il nostro ferro, quando le nostre capacità schermistiche si saranno evolute, riusciremo tramite leggere pressioni, resistenze o tentativi elusivi a intuire a cosa si sta preparando, riusciremo a leggere il futuro e, di conseguenza, ad elaborare la contraria che ci apparirà come più opportuna. …e non sono solo parole!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’ottobre 2018
Scherma e lama
Nei film e nei libri di cappa e spada per riconoscere le buone doti di spadaccino, spesso lo si denomina come “una buona lama”.
Ecco che tutta l’attenzione di quel complesso attrezzo che è un’arma bianca viene focalizzata solo su una sua parte, appunto la sua lama. Come di un bel paio di scarpe nessuno si sogna di giudicare la suola o di una bella giacca la fodera, così coccia e manico è come se non ci fossero; eppure, a differenza della suola e della fodera, queste due parti dell’arma bianca sono in bellissima vista.
Questo atteggiamento, comunque, è di facile comprensione: tutta l’attenzione viene incentrata solo su ciò che è più appariscente, su ciò che è più immediato.
Eppure, come ho avuto occasione di precisare in un precedente articolo, la lama si può muovere e lavorare al meglio solo in rapporto al manico; e del resto la funzione della coccia è essenziale non solo in prima istanza nel proteggere fisicamente la mano dai colpi dell’avversario, ma anche talvolta in funzione di appoggio al lavoro del ferro (ecco un sinonimo, magari un po’ meno pomposo, di lama!). Quindi un fioretto, una spada o una sciabola, sono un qualcosa che supera la mera somma delle parti da cui sono composti: l’arma viene a costituire un’unità funzionale complessa, dipendente dalla qualità di utilizzo armonizzato di tutte le sue singole parti.
Dato a Cesare quel che è di Cesare, guardiamo pure la nostra lama.
Nel segmento che fuoriesce dalla coccia si evidenziano due parti fisiche ben distinte: la sua parte più avanzata rappresentata dalla punta del segmento stesso e la sua estensione laterale, cioè il cosiddetto taglio.
La punta ha solo la funzione di portare il colpo sul bersaglio antagonista, addirittura in esclusiva (per Convenzione) nelle specialità del fioretto e della spada; il taglio invece, oltre che avere la possibilità di colpire (per Convenzione) nella specialità della sciabola, ha anche la funzione di interloquire con il ferro di quest’ultimo.
Nel primo caso la punta viene a costituire solo il punto apicale di tutto il sistema – schermitore, punto in relazione al quale vengono a convergere funzionalmente tutte le posture fisiche generali (la guardia) e particolari (braccio e pugno armato), la misura idonea colpire, l’azione tecnica prescelta per sorpassare la difesa antagonista; in altre parole essa non svolge ruoli specifici attivi.
Nel secondo caso invece alla lama è demandata l’attività più impegnativa e complessa dello schermitore: quella di entrare in rapporto e in contrasto con il ferro avversario e questo in un duplice impiego, sferrare un attacco o, al contrario, neutralizzarlo.
Invero la configurazione geometrica di due assaltanti in pedana è costituita simmetricamente da due corpi dietro le loro armi, separati da un certo tipo di misura.
Comunque prodromico allo sviluppo di un attacco è un cosiddetto atteggiamento fondamentale che lo schermitore può assumere nei confronti del suo antagonista, il legamento; in questo caso, notoriamente, una lama cerca di entrare in contatto con l’altra in tal modo da dominarla fisicamente per un apprezzabile lasso di tempo. L’interesse in questo caso è duplice: utilizzare la posizione di preminenza effettiva per farne il punto di partenza per una propria determinazione d’attacco (magari un filo) e fruire, almeno nel fioretto e nella sciabola, di una priorità convenzionale nella ricostruzione per l’attribuzione della stoccata.
Per quanto riguarda l’attacco, ciascuna lama prima di poter arrivare a bersaglio deve necessariamente transitare da una zona presidiata dal ferro antagonista, il quale ovviamente si pone il proposito di proteggerlo. Ed è proprio dal tipo di rapporto che l’attaccante si ripropone di instaurare con il ferro del difensore che si originano le note tipologie di azioni di attacco: azioni semplici e azioni con finta.
Nelle prime la lama interviene attivamente in caso di cavazione per svincolarsi da un legamento avversario, di battuta e colpo per scoprire un determinato bersaglio spostando il ferro antagonista, di filo per utilizzare, partendo da un proprio legamento, per tenere sotto controllo la lama avversaria che viene anzi utilizzata a mo’ di binario. In queste situazioni il nostro ferro interviene fisicamente su quello antagonista con lo scopo di annichilire la difesa, impedendogli una realizzazione compiuta. Di rilievo sono anche le cosiddette azioni ausiliarie, che, a complemento delle azioni fondamentali d’attacco, prevedono sul ferro avversario interventi di varia natura fisica: così il filo sottomesso, i disarmi, le intrecciate, le battute false, il copertino, lo sforzo, la battuta di quarta falsa.
Nelle seconde, cioè nelle azioni con finta, la lama, dopo avere effettuato una o più finte (intervenendo fisicamente sul ferro come nelle azioni semplici sopraelencate oppure affidandosi alla sola finta a ferro libero), deve porsi poi il problema di evitare, attraverso il meccanismo della cavazione o della circolata, la o le reazioni difensive provocate dalla o dalle finte stesse.
Tornando alla seconda funzionalità sopraccennata, quella di neutralizzare un attacco avversario: in questo caso la lama si prefigge di deviare il colpo sopravveniente attuando una difesa col ferro, cioè intercettando la lama avversaria e intervenendo su di essa attivamente in modo utile pochi istanti prima del raggiungimento del bersaglio prescelto.
La teoria schermistica contempla anche la possibilità di difendersi tramite un’uscita in tempo ovvero realizzando una situazione tramite la quale non solo si riesca a neutralizzare l’offensiva antagonista, ma, costruendo proprio su di essa specifici meccanismi tecnici, si riesca anche a portare in simultanea il nostro colpo su chi attacca: così la contrazione, l’appuntata, l’imbroccata.
Con questo abbiamo concluso l’illustrazione delle categorie di colpi che la teoria schermistica contempla in caso di contatto tra le lame dei due contendenti.
Interessante è ora prendere in considerazione la descrizione delle meccaniche applicative tramite le quali i due ferri antagonisti possono rapportarsi fisicamente tra di loro.
La partenza non può essere che quella di riconoscere all’attrezzo arma bianca (e quindi si badi bene, non alla sola lama, ma allo strumento nella sua totalità, estesa anche alla totalità del braccio armato) la potenziale dignità di leva fisica di 3° grado. Perché potenziale? Perché, come vedremo tra breve, è solo rapportandosi in un certo modo con il ferro avversario che si può realizzare, appunto, una leva di tipo vantaggioso. E’ fuorviante e certamente non esaustivo il suddividere la lama nelle celebri tre porzioni, debole forte e medio, come se le virtù fisiche risiedessero magicamente nella lama stessa; questa versione può adattarsi per i neofiti di giovanissima età, ma, diventando ragazzi di scuola secondaria di primo grado (le vecchie Medie), è consigliabile ritornare sull’argomento e specificare la nozione di leva, interagendo tra l’altro con gli insegnamenti che in parallelo vengono impartiti a scuola.
Ma torniamo al concetto di leva: la leva è una macchina semplice che trasforma l’energia; essa è costituita da un’asta rigida capace di muoversi attorno a un punto fisso chiamato fulcro. Se due forze vengono applicate, la potenza e la resistenza, in funzione della loro disposizione spaziale assieme al fulcro, possono determinare varie situazioni; in particolare si chiama braccio della potenza la distanza tra il fulcro e il punto di applicazione della potenza e braccio della resistenza la distanza tra il fulcro e il punto di applicazione della resistenza.
L’arma impugnata configura una leva di terzo genere in quanto la potenza (la forza motrice) è tra il fulcro e la forza resistente: il braccio della potenza è quella porzione di “guardia” compresa tra l’estremità del manico che tocca la coccia e la parte finale del manico stesso; il braccio della resistenza è tutta la lunghezza dell’arma, dalla punta alla fine del manico; il fulcro ha sede nella parte finale del manico. Il punto di applicazione della potenza ha sede dove la coccia incontra il manico. Or dunque, per la legge di equilibrio della leva: il prodotto del braccio della potenza per la potenza deve essere uguale al prodotto del braccio della resistenza per la resistenza. Quindi l’arma impugnata (risultando una leva) diventa tanto più vantaggiosa quanto più si accorcia il braccio della resistenza, ovvero quanto più la parte della nostra lama vicino alla nostra coccia si appoggia alla lama dell’avversario sulla parte di essa più lontana dalla sua coccia.
Applicazioni pratiche: a) un legamento, cioè un contatto con il ferro antagonista che perduri per un apprezzabile lasso di tempo, per sortire l’effetto di dominarlo realmente, deve utilizzare la parte di lama che esce dalla propria coccia (il cosiddetto “forte”) e appoggiarsi alla parte di lama avversaria vicina alla punta (il cosiddetto “debole”); b) una parata di tasto (quella caratterizzata da un certo soffermarsi nel contatto tra ferri) per sortire al meglio l’effetto desiderato di intercettare la lama avversaria e deviarla dalla traiettoria utile, deve rispettare i medesimi canoni del legamento.
Ma il contatto tra le lame dei due contendenti, oltre che prolungarsi per qualche pur veloce istante, può anche concretizzarsi in una rapida ed istantanea percussione del ferro antagonista con lo scopo di allontanarlo spazialmente: è questo il caso della battuta nelle sue molteplici applicazioni in attacco (battuta semplice o di contro, intrecciata, falsa) e in difesa nella realizzazione della cosiddetta parata di picco.
In tutti questi casi cambia la meccanica operativa della lama sull’altra lama: al fine di conseguire il maggior effetto fisico possibile, si tratterà di utilizzare il “medio –forte” della propria lama sul “medio – debole” di quella avversaria; in effetti, affinché la percussione abbia efficacia, è necessario che incontri un certo tipo di resistenza, che la parte debole antagonista (come nel caso del legamento) non garantirebbe, tendendo invece solo ad assorbire il colpo. La forza applicata nella battuta, è bene ricordarlo, dovrà essere di misurata violenza, in quanto ogni eccesso sarà, come un boomerang tecnico, risentito negativamente dalla stessa lama percuotente.
Esiste, infine, una terza ed ultima tipologia di rapporto tra le lame dei due contendenti: quella imperniata, dopo l’avvenuto contatto tra i ferri, su una particolare meccanica del polso.
Parlo innanzitutto dell’opposizione di pugno, ovvero di quel particolare angolo tra arma e braccio, ottenuto appunto inclinando la mano armata, che nei colpi di attacco semplice o comunque in quelli finali dell’attacco composto producono il noto effetto fisico del cuneo: in effetti tale postura del ferro, giacendo sulla stessa linea di quello antagonista, induce quest’ultimo tanto più a divergere all’esterno del bersaglio quanto più avanza il proprio ferro; per di più per i colpi di punta tirati ai bersaglio interni viene ad incrementarsi positivamente l’angolo d’impatto sugli stessi, facilitando l’ancoraggio e la successiva necessaria pressione da esercitarsi sulla punta.
Lo stesso tipo di meccanica del colpo è alla base dell’uscita in tempo denominata, appunto, contrazione; in questo caso, com’è noto, l’attaccato deve muoversi incontro al sopravveniente colpo dell’avversario, andandone ad occupare la linea di percorrenza spaziale, ottenendo (o meglio auspicando), tramite l’opposizione di pugno, di deviare la stoccata antagonista e parallelamente toccare l’attaccante.
Il discorso sul rapporto tra lame ci porta anche nella difesa col ferro: per difendersi dal colpo antagonista la teoria schermistica prevede l’utilizzo delle cosiddette parate di ceduta. Il meccanismo si basa anche in questo caso sulla opposizione di pugno, solo che quest’ultima è preceduta al momento opportuno da un movimento che trasla il pugno stesso da una posizione ad un’altra: il tutto nasce esclusivamente da un’azione di filo dell’avversario, all’inizio della quale si deve assecondare il filo stesso per poi assumere, quando la punta antagonista arriva all’altezza della nostra coccia, la posizione a noi vantaggiosa, in quanto i rapporti fisici esistenti tra le lame ad inizio azione si invertono e consentono, tramite un adeguato rapporto di postura angolare, di far deviare il colpo avversario all’esterno del nostro bersaglio, andando in simultanea a colpirlo sul simmetrico bersaglio.
Riassumendo: da tutto ciò che ho cercato di evidenziare, si evince innanzitutto che il rapporto tra le lame risulta alquanto vario, interessando trasversalmente tutti gli ambiti tattici: attacco, difesa e contrattacco.
In secondo luogo appare evidente che lo schermitore limiterebbe oltremodo l’uso dell’attrezzo – arma se lo considerasse solo come trasporto della punta e del taglio ai fini di toccare l’avversario; quindi, giocoforza, è necessario il suo più ampio utilizzo ai fini della realizzazione meccanica della stoccata e ciò in entrambe le due dimensioni convenzionali di scontro: sia quando la Convenzione schermistica premia nel fioretto e nella sciabola colui che “trova ferro” o chi parte da un proprio legamento, concedendogli la priorità nella ricostruzione dell’azione; sia nel pragmatismo della spada quando alcuni interventi sulla lama antagonista, tramite opportune geometrie, non solo portano la stoccata, ma simultaneamente garantiscono dal suo colpo.
Un doveroso cenno va infine fatto anche su alcuni tipi di particolare rapporto tra i ferri: parlo dei cambiamenti di legamento, dei trasporti e dei riporti.
Il cambiamento di legamento si concretizza quando chi già lega la lama decide di cambiare tipo di legamento per andare a quello opposto: la meccanica presuppone un brevissimo abbandono del ferro, un cambiamento di posizione mediante svincolo e subitaneo nuovo legamento; in maniera indotta per le linee, dalla terza alla quarta e viceversa – dalla prima alla seconda e viceversa. Il trasporto è caratterizzato dal fatto che il passaggio da un legamento ad un altro avviene senza che venga mai meno il contatto tra i due ferri; in maniera indotta per le linee, dalla prima alla terza e viceversa – dalla seconda alla quarta e viceversa. Il riporto si realizza quando da un qualsiasi legamento, senza perdere mai il contatto con il ferro antagonista e mediante movimento avvolgente intorno alla sua lama, si ritorna al legamento di partenza. A parte la comune valenza come esercizi per allenare il maneggio dell’arma, il trasporto costituisce una componente essenziale per l’effettuazione delle cosiddette fianconate, quella interna e quella di seconda.
In buona sintesi, saper ben lavorare sul ferro avversario, è sicuramente un buon viatico per affrontare le difficoltà della pedana e, uno schermitore che si voglia definire tale, deve avere nel suo bagaglio tecnico tutte le surricordate meccaniche.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’ottobre 2018
Scherma e legamento
Come è ben noto la tecnica schermistica offre allo schermitore un ampio e vasto campionario di azioni di attacco, le quali, come altrettanto bene sappiamo, vanno poi adattate agli atteggiamenti che l’avversario assume con il suo ferro, alle sue ipotetiche reazioni, alle situazioni che si vengono a creare ed in ultima analisi anche alle scelte dell’attaccante.
Tutto ciò premesso, i due grandi ambiti delle azioni di attacco sono: a ferro libero oppure sul ferro.
Nel primo caso ciò che si ricerca è l’assoluta mancanza di contatto tra i ferri: lo si può fare confidando in una fulminante botta dritta oppure addentrandosi nel giardino all’italiana delle finte dritte e addirittura nelle doppie finte dritte.
Nel secondo caso invece il ferro dell’avversario è oggetto di interventi di varia natura da parte dell’attaccante: c’è l’ambito delle battute con quelle semplici – quelle di contro e quelle di sforzo e c’è l’ambito delle prese di ferro che possono preludere a un colpo al distacco oppure essere il necessario vestibolo per un’azione di filo.
Il tema che ci siamo dati in questo frangente, come da titolo, è quello del legamento.
La stessa terminologia ci aiuta a comprendere l’intima essenza di questo gesto tecnico: l’intento è quello di imprigionare, di tenere sotto controllo, appunto di “legare” la lama dell’avversario, andando a limitarne la sua possibilità di movimento.
Ma attenzione, perché la tecnica schermistica non ha degli enunciati assoluti, ma solo relativi; in parole più semplici non è tutto oro quello che luccica.
In effetti il fatto di dominare il ferro antagonista può apparire come un fattore positivo, ma è altresì necessario considerare a che condizioni si ottiene: il nostro braccio armato, spostandosi verso quello corrispondente dell’avversario, lascia ineluttabilmente scoperto un nostro bersaglio, appunto quello in senso opposto al legamento effettuato; tanto che nei trattati d’epoca il legamento, veniva anche denominato come invito di legamento. E questa è la bellezza della tecnica schermistica, dove ad ogni gesto corrispondono delle opportunità, ma anche delle controindicazioni: tu leghi ed ecco che io posso cavare.
Precisato doverosamente tutto questo, esaminiamo al microscopio il legamento.
Il primo concetto da affermare è quello del valore puramente canonico del legamento; spieghiamoci meglio: nessuno schermitore ovviamente vuole sottostare ad una posizione di conclamato dominio da parte della lama avversaria, per cui, appena essa si configura, il ferro imprigionato ricerca solertemente la sua libertà di movimento. In effetti la vera realtà dinamica del colpo che si va a costruire risiede nella cosiddetta presa di ferro, alla quale segue senza soluzione di continuità la parte finale dell’attacco. In altre parole il legamento è una configurazione tra le lame estremamente fugace, tuttavia fondamentale per il buon esito della successiva meccanica del colpo di qualunque natura essa sia.
Innanzitutto esso è subordinato al fatto che l’avversario conceda il suo ferro, cioè che lo tenga in una qualche postura spaziale raggiungibile; altrimenti nessun rapporto tra le lame è configurabile.
In secondo luogo il tempo di contatto tra le lame deve essere apprezzabile, cioè non risolversi solo in un fugace urto, perché altrimenti si tratterebbe di battuta e non di legamento.
Fondamentale è poi il modo di rapportarsi con il ferro antagonista: la sola aderenza tra le lame può concorrere nelle armi convenzionali ad avere una priorità nella ricostruzione dell’azione, ma questo a noi interessa solo di passaggio.
La nostra attenzione si deve piuttosto incentrare sul meccanismo che mette in condizione la lama di colui che lega di dominare l’altra.
In lezione, per brevità, ci viene detto che il ferro è diviso in tre parti: forte, medio e debole; quindi ne deriva facilmente il concetto che per ben legare dobbiamo utilizzare appunto il nostro forte sul debole dell’avversario.
In effetti per capire la virtù delle parti della lama è necessario scomodare la Fisica con i suoi principi, precisamente nell’ambito delle Leve.
Le leve sono appunto macchine semplici che mettono in relazione tra loro due forze antagoniste: la potenza e la resistenza, che sono distribuite spazialmente su un’asta rispetto ad un punto di appoggio detto fulcro, determinando due segmenti chiamati braccio di potenza e braccio di resistenza; questi ultimi, nella loro diversa distribuzione spaziale, determinano situazioni di vantaggio o di svantaggio.
Ribaltiamo questi concetti nella scherma: innanzitutto è da precisare che non la sola arma, ma l’intero braccio armato costituisce la leva; in particolare il braccio di potenza è rappresentato da quel segmento compreso tra l’estremità inferiore della lama dove entra nella coccia dalla parte della guardia e l’ultimo terzo del manico, nel punto in cui si appoggiano le ultime due dita, l’anulare e il mignolo; il braccio di resistenza è costituito da tutta la lunghezza dell’arma, cioè dalla sua punta all’ultimo terzo di manico indicato appena sopra; il fulcro infine ha sede in quella specifica parte di manico dove si appoggiano l’anulare e il mignolo. Il punto di applicazione della potenza si trova alla base esterna della coccia.
Passiamo ora al rapporto tra le due aste costituite dai due bracci armati: la porzione di lunghezza della guardia, rappresentante il braccio di potenza, moltiplicata per la potenza, deve essere uguale alla lunghezza di tutta l’arma, che costituisce il braccio di resistenza, moltiplicata per la forza opposta dall’avversario. Poiché le due armi hanno le guardie di uguale lunghezza e la potenza di un individuo si può ritenere espressa da un valore medio poco oscillante, il fattore variabile è costituito dalla resistenza opposta dall’avversario, ovvero dal suo ferro. Laonde per cui, per avere un vantaggio di natura fisica, lo schermitore deve far entrare in contatto la parte della propria lama più vicina alla propria coccia (il forte) con la parte della lama avversaria più lontana dalla rispettiva coccia (il debole).
Non so se siamo stati all’altezza del noto divulgatore Piero Angela, comunque spero apprezziate il mio sforzo; ma torniamo con sollievo reciproco al legamento.
Tanto è vero che è importante la qualità fisica del legamento ad onta della forza con cui è realizzato che la teoria schermistica, attenta come sempre, ha teorizzato nelle azioni ausiliarie il filo sottomesso, che non è altro che un ribaltamento di situazione reso possibile appunto dall’imperfezione di un originario legamento.
Ma torniamo ora alle considerazioni generali, concentrando la nostra attenzione sulle opportunità e, all’opposto, sulle controindicazioni di questa relazione creata tra le due lame.
Le opportunità, lo abbiamo accennato nel già detto, risiedono nel fatto che la configurazione di legamento consente: primo – di poter espletare un colpo su un bersaglio che risulta scoperto grazie appunto al legamento e comunque di avere la precedenza nella ricostruzione convenzionale nel fioretto e nella sciabola; secondo – di poter espletare un’azione di filo con gli indubbi vantaggi che essa comporta; terzo – di poter effettuare una fianconata, facendo precedere all’azione di filo un trasporto da un legamento ad un altro, avviluppando ancor più il ferro avversario; quarto – di poter eseguire uno sforzo e colpo dritto, facendo scivolare con forza la propria lama su quella antagonista ; quinto – di fare un’intrecciata, battendo in senso opposto agli originari legamenti dopo aver effettuato un movimento di traslazione del proprio ferro; sesto – di effettuare un disarmo, sia esso verticale o spirale; settimo – di poter eseguire una presa di ferro e colpo nel meccanismo del controtempo quando si riesce ad ottenere l’auspicato allineamento del braccio armato dell’avversario.
Le controindicazioni invece sono: primo – il già sopra accennato fatto che nell’eseguire lo spostamento del braccio armato in direzione del legamento prescelto, necessariamente si deve scoprire il proprio bersaglio sulla linea opposta; secondo – traslando il proprio ferro alla ricerca di quello antagonista, offriamo l’opportunità all’avversario di effettuare, a seconda del tipo del nostro movimento, una cavazione o una circolata in tempo, non solo rendendo vano il nostro spostamento, ma suggerendogli direttamente un’opportuna contraria ai nostri danni.
A prescindere da specifiche configurazioni di assalto, sembrerebbe poter desumere da queste due elencazioni che indubbiamente il legamento offre un ventaglio veramente goloso per lo schermitore; c’è però solo un piccolo grande problema prima da risolvere: lo schermitore, per poter approfittare di questa opportunità tecnica, deve essere in possesso di una discreta meccanicizzazione del gesto in tutto lo spettro delle linee di offesa.
A chiosa delle nostre argomentazioni, va comunque rilevato che nell’attuale modo di condurre il match il legamento, ovvero la presa di ferro, è divenuta sempre più rara, soprattutto in considerazione del fatto che lo schermitore preferisce comunemente non concedere il ferro al proprio avversario, proprio per sottrarlo ai diversi tipi di manipolazione sopra indicati; ciò sempre più anche nella specialità della spada, qui addirittura ad onta del fatto che un braccio armato non allineato in guardia espone oltremodo i propri bersagli avanzati.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2019
Scherma e misura
Se cerchi la colonna portante di tutta la teoria schermistica, la trovi senza alcun dubbio nel concetto di misura.
Sì, lo so, i trattati quando parlano di elementi fondamentali della scherma citano anche la velocità ed il tempo; ma attiro la vostra attenzione sul fatto che questi due ultimi valori sono soggettivi, cioè sono grandezze in cui lo schermitore è chiamato alla migliore espressione personale.
Diversamente la misura è un qualcosa di oggettivo, è una dimensione reale di per sé; è un parametro geometrico che quantifica la distanza tra due precisi punti dello spazio: uno dei due è costituito dalle rispettive punte (o lame) degli schermitori, il secondo dai loro reciproci bersagli, considerati questi ultimi nella parte che risulta più prossima all’avversario.
Questa oggettività si manifesta chiaramente in due situazioni limite: quando cioè gli schermitori si trovano ad un’eccessiva lontananza tra di loro oppure, al contrario, quando la loro vicinanza è minima, diciamo marcatamente inferiore alla lunghezza di un braccio armato.
Nel primo caso lo spazio esistente tra i due schermitori si configura come terra di nessuno e ogni congettura o proposito a suo riguardo si rivela palesemente come inutile in quanto non producente alcun effetto diretto nell’economia dello scontro; nel secondo le conclusioni sono le stesse, ciò al di là di attività come la rimessa o il secondo colpo che non sono eventi teorizzabili in partenza.
Resta quindi un intervallo di spazio tra i due combattenti, pur elasticamente inteso, che rappresenta ciò che è indicato come misura dalla teoria schermistica.
La misura, in altri termini, è lo spazio in cui può svilupparsi fisicamente in modo congruo un certo tipo di azione; una distanza che espone i due avversari alle reciproche azioni e controreazioni. A questo si riferiscono i trattati quando distinguono le tre misure canoniche in stretta, giusta e lunga.
A questa concezione puramente teorica della misura, torno a dire come dimensione spaziale che consente il o i movimenti più o meno complessi dei due bracci armati, si sovrappone la reale dimensione dello scontro, che vede magari in campo diverse caratteristiche dei contendenti: da quelle squisitamente di ordine fisico, a quelle relative alla velocità di percezione, da quelle connesse alla capacità di avvicinamento in attacco e, inversamente, alla capacità di retrocedere.
Ecco che la misura non viene più percepita solo e soltanto come un dato impersonale, una distanza espressa da un oggettivo indice numerico, quanto piuttosto come una personale ricerca della misura più congrua. In altri termini, come attaccante la distanza che si presume di riuscire a coprire per arrivare a toccare un qualche bersaglio dell’avversario; come difensore, all’inverso, la distanza di sicurezza da frapporre all’antagonista per essere in grado di percepire il suo attacco, analizzarlo ed elaborare un’opportuna contraria difensiva.
In tal modo, come era per la velocità ed il tempo, si torna quindi ad un concetto soggettivo di misura.
In effetti, diceva un mio vecchio maestro, il primo scontro è sull’impostazione della misura nel corso del match; chi riesce ad imporre la sua misura, ipoteca seriamente la vittoria finale.
Ma come si lavora sulla misura? In gergo si direbbe accorciare o stringere misura o, al contrario, rompere misura.
Ordinariamente si lavora tramite i passi avanti e indietro patinati, l’affondo, talvolta preceduto da uno o più passi e in ultima analisi con la frecciata, vero e proprio tuffo controllato sull’avversario; ma poi, a corredo, la teoria schermistica sciorina tutta una serie di alternative: in attacco il passo avanti a balestra o saltato che rende più dinamico lo spostamento (anche se si perde notevolmente in precisione di punta), il passo incrociato e la ripigliata basata, com’è noto, sul fatto che il ritorno in guardia è effettuato con il richiamo della gamba dietro guadagnando così spazialità in avanti e, buon ultimo, il raddoppio che, improntandosi sulla congiunzione dei due piedi dello schermitore prima dell’affondo, produce un guadagno geometrico in avanti pari all’ampiezza della primeva guardia; in difesa invece le alternative al passo patinato sono meno numerose e si limitano al passo incrociato e al balzo indietro.
A proposito di salvaguardia della distanza rispetto all’avversario che produce un attacco, è doveroso ricordare che la misura rappresenta un ottimo baluardo difensivo e questo in un duplice senso: innanzitutto perché, arretrando, si riesce sicuramente a smorzare la veemenza della proiezione dell’antagonista in avanti, concedendo di conseguenza maggior tempo e soprattutto spazio per la realizzazione della difesa col ferro, ma poi anche perché, se l’arretramento fosse felicemente parametrato all’attacco stesso, ci si porterebbe fuori della sua gittata senza disturbare il nostro braccio armato.
La presenza nella sciabola e nella spada dei cosiddetti bersagli avanzati, ci induce a richiamare l’attenzione su un fatto molto importante: potendo in tali casi variare il punto di riferimento, per l’appunto tali bersagli avanzati o in alternativa il più lontano tronco del corpo, la misura condiziona direttamente il colpo che si intende tirare. Tanto per fare un esempio: se nella spada parametro la distanza della mia punta al tronco del corpo del mio avversario, per colpire il suo braccio non potrò certo produrre un affondo, ma mi sarà sufficiente l’allungamento del braccio armato. Tanto per farne un altro, perché altrimenti gli sciabolatori sono gelosi: se in questa specialità parametro la distanza della mia lama alla mano del mio antagonista, per colpire tale bersaglio dovrò andare in affondo, ma per colpire il suo tronco, più arretrato spazialmente, dovrò necessariamente eseguire un attacco camminando. In sintesi, ogni misura ha il suo bersaglio; per cui gli spadisti e gli sciabolatori, all’occasione, volendo effettuare un attacco su un certo tipo di bersaglio, dovranno prima registrare la misura rispetto ad esso.
Sin qui abbiamo interloquito sulla giusta misura, presumibilmente percorribile come sappiamo dal nostro affondo, e di quella lunga, che ci costringe invece ad un maggior avvicinamento.
Non ci resta ora che esaminare la terza ed ultima evenienza, quella della stretta o strettissima misura.
In precedenza abbiamo cercato di far chiarezza sul fatto che ogni azione, per potersi felicemente sviluppare, deve avere una sua congrua spazialità, relativa al o ai movimenti di cui essa risulta essere composta.
Ebbene la teoria schermistica, a mio parere veramente omnicomprensiva, riesce ad applicare questo concetto anche al negativo. Mi spiego con un altro esempio: sappiamo della magia per cui un attacco dell’avversario può essere neutralizzato da un attacco dell’attaccato; come avete già immaginato stiamo parlando dell’uscita in tempo. Nella contrazione la spazialità del colpo si basa sul fatto che la misura originaria tra i due schermitori viene erosa non soltanto da chi si muove in avanti per attaccare, ma anche in contemporanea da chi si difende; l’idonea opposizione di pugno eseguita sulla linea d’attacco antagonista rende possibile non solo il nostro colpo sul suo bersaglio, ma fa addirittura divergere quello dell’attacco originario grazie al principio fisico del cuneo. In questo caso la teoria schermistica è riuscita a far proprio anche una situazione di ristrettezza spaziale.
Vorrei chiudere quest’interessante argomento con un episodio della mia vita da allievo.
Un giorno durante una lezione (facevo meglio a star zitto!) d’impulso chiesi al maestro: “Ma a che distanza devo stare dal mio avversario?”. Lui rispose: “Devi stargli vicino tanto da vedere il bianco dei suoi occhi”. Improvvidamente continuai:”Ma maestro, c’è la maschera”… “questo è un dettaglio risolvilo tu”.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2018
Scherma e portamento dell’arma
Lo schermitore, a mio avviso per sua fortuna, nel combattimento non usa le mani come i nostri cuginetti pugilatori, ma impugna un’arma bianca; e questa parola evoca e provoca due emozioni tra loro contrastanti: una di orrore per quello che ha rappresentato nella storia di sopraffazione dell’uomo sull’uomo e una di ammirazione per quello invece che è stato il simbolo della figura del cavaliere, sempre espressione di forza sì, ma in questo caso a tutela del più debole vessato dal prepotente più forte.
Perdonatemi queste poche righe di apertura, mi sono uscite da sole dalla tastiera del computer.
Passiamo ora subito ai fatti.
Da una parte c’è l’uomo e dall’altra c’è un’arma bianca: quando essi si congiungono ecco che si materializza lo schermitore: una parte inanimata entra in relazione con quella animata.
Ma il segreto sta proprio qui, perché l’arma deve diventare un’allonge del corpo, una protesi perfettamente integrata del braccio armato; tutto ciò viene in pratica riassunto dal termine tecnico portamento dell’arma.
Per arrivare a questo risultato sono necessarie due cose.
Innanzitutto la zona di contatto tra mano ed arma, cioè l’impugnatura, deve garantire la miglior presa sia da un punto di vista muscolare che da un punto di vista funzionale.
La storia o meglio la battaglia dei manici portata avanti addirittura da scuole rifacentesi a Nazioni è molto interessante e, se ricordo bene, l’argomento l’abbiamo già affrontato in un precedente articolo; qui si tratta solo di sottolineare quanto importante sia il miglior assetto che la mano deve prendere sull’impugnatura affinché, vecchia battuta dei vecchi maestri di scherma, non si tenga in mano un bastone!
La seconda cosa necessaria è la pazienza; sì la pazienza, in quanto il portamento dell’arma non si ottiene solo attenendosi perfettamente ai consigli del maestro, ma solo con l’esercizio, per di più esercizio continuo: esercizio in lezione, esercizio con i compagni di sala, esercizio contro un bersaglio inanimato fisso o mobile che sia, esercizio durante l’assalto.
Bene; queste dovrebbero essere le regole generali per poter giungere prima o poi, torno a dire con pazienza, a un buon portamento dell’arma.
Ma questo termine cosa indica?
Indica un insieme composito di cose, che si rifà a varie capacità da acquisire da parte del braccio armato dello schermitore.
Innanzitutto la capacità direzionale, ovvero quella relativa alla traslazione del proprio ferro nello spazio antistante i propri bersagli: l’avversario infatti ci costringe spesso ad inseguire le evoluzioni della sua lama, mutando artatamente le sue coordinate, passando molto spesso da una posizione a quella opposta. Questo gioco d’inseguimento va condotto miscelando idoneamente due fattori che sono tra loro in stretto rapporto, velocità e scioltezza.
In secondo luogo c’è la capacità posizionale, cioè l’acquisizione di precisi limiti spaziali negli spostamenti; in altre parole i movimenti della propria lama non devono allontanarsi più del dovuto dai punti di riferimento individuati nei pressi di ogni singolo sottostante bersaglio. Questo, ovviamente, per il principio utilitaristico di muoversi solo per il tratto indispensabile e poter fare in fretta e furia inversione di marcia in presenza di un’azione con finta dell’avversario, che invece ti vuole portare a spasso lontano da dove sferrerà il vero e definitivo attacco. Mentre cerco di spiegare al mio meglio questi non semplici concetti, mi torna prepotentemente alla memoria un rimprovero dei miei maestri: “Stefano, non sbandierare”. Chiaro il concetto?
In terzo luogo c’è la capacità reattiva, che consiste nell’utilizzare la lama come un’antenna sensoriale nei confronti delle iniziative portate sul nostro ferro dall’avversario. In fin dei conti il braccio armato e in specie l’arma vengono a costituire l’avamposto dell’intero sistema-schermitore, avamposto che ha la funzione specifica di intervento subitaneo nei confronti della belligeranza antagonista.
In quarto luogo c’è la capacità meccanica della lama, ovvero quella relativa all’applicazione, nelle varie situazioni, della giusta forza fisica.
Intanto a questo proposito ricordiamo, en passant, il fondamentale concetto della stretta in tempo, che, come sappiamo, regola al meglio la variazione dell’intensità muscolare della mano sul manico rispetto alle varie contingenze quali il raggiungimento del bersaglio o i vari tipi di contatto con la lama antagonista. Un buon portamento dell’arma, nasce ed è supportato solo da un’ottimale applicazione della stretta in tempo.
Ma torniamo alla capacità meccanica della lama, ricordandoci che il braccio armato dello schermitore nella sua totalità cioè braccio e arma, quando entra in contatto con quello dell’avversario configura, se idoneamente impostato, una leva vantaggiosa. Notoriamente un’applicazione della forza, errata dal punto di vista posizionale e/o quantitativo, svilisce nel suo complesso le prestazioni della propria lama nella sua funzionalità globale.
In quinto luogo dobbiamo parlare della capacità di precisione, anche se questo aspetto non è altro che il risultato finale di tutte le altre capacità sopraelencate. Diciamo che la precisione, non essendo appunto una capacità specifica, rappresenta un buon indice per tutte le altre; in altre parole, se dopo esserti sbarazzato in un modo o nell’altro del ferro avversario, non tocchi validamente il bersaglio prefissato, vuol dire che hai sbagliato qualcosa nel portamento dell’arma. E lo schermitore ha bisogno di precisione, soprattutto per l’esiguità della superficie della sua punta, ma in fin dei conti anche per il segmento costituito dalla sua lama.
Siamo alla fine della rassegna che ha avuto il compito specifico di evidenziare tutte quelle capacità e funzionalità che nel loro complesso passano sotto il nome di portamento dell’arma. Abbiamo anzi incluso nella nostra carrellata tecnica anche altre caratteristiche a latere che a nostro parere sono comunque necessarie per rendere esaustiva l’argomentazione.
Vicini al congedo da questo articolo, spero interessante, sento di dover fare un’affermazione: “Non è un mito”.
Mi spiego: solo chi ha o ha avuto la fortuna di frequentare la sala di scherma per un certo numero di anni sa che il sentiment du fer non è un mito; non è una vanagloria da campione, né un’invenzione di uno sbruffone.
E’ vero; la parola francese concorre a creare una certa aura da favola, ma credetemi, il sentiment du fer è quanto di più pragmatico possa esserci: non è altro che sentire l’arma come una parte fisica di noi stessi, nel senso di percepire tattilmente, attraverso il contatto con la lama avversaria, addirittura in anteprima le future intenzioni del nostro avversario.
Ma ricordatevi che al sentiment du fer, il top del top, si arriva solamente dopo un’acquisizione ottimale della capacità di portamento dell’arma.
Provare per credere.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e Saluto con l’arma
Molte discipline sportive, nel preludio dello scontro, contemplano un approccio formale tra i concorrenti e il pubblico presente: così i pugili, magari fissandosi ipnoticamente negli occhi, si danno un colpetto con i guantoni; così nel basket i giocatori propongono il celeberrimo e simpaticissimo cinque; così le ginnaste s’inchinano con grazia e leggerezza.
A scherma, come sappiamo, utilizziamo addirittura il nostro attrezzo, che, pur edulcorato, non è altro che un’arma bianca.
Ed è questo appunto che ci contraddistingue da tutti gli altri: il nostro gesto è un gesto antico, che racchiude molti e diversi significati che si sono stratificati nella storia.
Si legge che il cavaliere cristiano portasse al volto l’arma per poter baciare l’incrocio della lama con il gavigliano, incrocio che stava a simboleggiare la croce del Cristo; un influsso quindi di carattere religioso, che dava un significato molto pregante all’uso della forza vista come attuazione della superiore volontà divina.
Il cavaliere medievale, molto nella letteratura e nella cinematografia ma molto meno nella vita quotidiana, utilizzava il potere derivatogli dall’abilità nell’uso delle armi non per se stesso, ma per la difesa dei deboli, vessati molto spesso da altri che maneggiavano le spade per interesse personale. In questa visione il rispetto dell’avversario diventa assoluto e lo scontro deve essere informato ai più ferrei principi della lealtà: in questa ottica il saluto con l’arma sancisce questo accordo formale e rappresenta, tra l’altro, l’avvio concordato per l’inizio della contesa.
Nei poemi antichi l’eroe saluta e risponde alle ovazioni dei soldati con l’arma sguainata e indirizzata verso l’alto; Giulio Cesare, quando vede le sorti della battaglia volgere al peggio, sguaina il suo gladio e, gettandolo simbolicamente per terra verso il nemico, chiede alla famosa Decima Legio, quella dei veterani, di recuperare l’onore del suo comandante.
L’arma bianca, in specie la spada, già di per sé evoca potere e potenza, basta pensare alla spada di Alessandro Il Macedone impugnata con brama quasi magica dai primi imperatori romani nel suo mausoleo ad Alessandria; basta considerare quali virtù morali deve avere Artù per poter estrarre Excalibur; quanto preziosa sia la spada di Ilo per Ettore o la Durlindana per Orlando.
Capite quale istante magico si crea quindi quando una mano serra l’impugnatura di un’arma bianca e si appresta al suo uso; e non pensiate che questo sia un sentimento, uno stato d’animo legato al passato o solo anche a una particolare sensibilità, magari tendente al retorico.
Pensate alla forza interiore che ognuno dei due sfidanti è sicuro di possedere per trovare il coraggio di competere coram populo su una pedana; pensate a chi gareggia per le prime volte; pensate a chi deve conseguire un certo risultato per ottenere una convocazione in Nazionale o quant’altro; pensate a chi deve confermare un titolo, magari importante; pensate al campione affermato, che comincia purtroppo ad invecchiare.
Quando uno schermitore stringe l’impugnatura della sua arma, qualunque essa sia, è questa la ridda delle sensazioni che, pur inconsciamente, lo animano: la concentrazione tende a depotenziare l’emotività e il saluto con l’arma diventa l’anticamera della verità.
Poi, non a caso dopo la necessaria prima posizione di partenza, la successiva cosa che viene insegnata al futuro schermitore è proprio il saluto: ogni attività, lezione – esercizi – assalto, è contenuta tra due di questi atti formali, che quindi regolano e scandiscono la vita di chi ama l’esercizio delle armi bianche.
E tanta è la carica simbolica di questo gesto che ti dicono di indirizzare la tua arma prima davanti, poi a sinistra e quindi a destra, accompagnando con lo sguardo i vari movimenti; ma, a mio parere, dimenticano di dirti che in quella direzione ci deve essere ameno qualcuno! Invero, se sei sceso in pedana, davanti a te qualcuno ci deve essere per forza, maestro, avversario o compagno per gli esercizi in sala; ma spesso dalle altre due parti o anche da una delle due non c’è proprio nessuno e quindi che fai? Saluti uno che non c’è?! Salutare qualcuno con l’arma è una cosa bellissima, farne invece un puro gesto formale e salutare un muro o una vetrata lo trovo semplicemente assurdo; volevo dire ridicolo, ma confermo assurdo.
Comunque, dopo la prima gara, ognuno capisce da sé che il saluto, almeno come te lo insegnano in sala, non lo puoi certo più fare: ci metti due ore a farlo, mentre magari vedi l’avversario svirgolare poco e sintetizzare i movimenti; quindi torni a casa e ti eserciti ad un tuo saluto personalizzato come fai per la tua firma.
Il saluto con l’arma ha poi la valenza di un test psicologico; spero che ci abbiate fatto caso anche voi e, del resto, ognuno saluta a modo suo. Tutto risiede nello sguardo: c’è chi fa svolazzare la lama e non ti guarda per nulla, c’è chi ti fissa come un ipnotizzatore, c’è chi ti guarda titubante e chi con preoccupazione e così via. A questo proposito la dritta migliore me la dette tanti anni fa uno dei miei primi maestri: Stefano, più temi l’avversario, più lo devi guardare negli occhi durante il saluto; dissimula il tuo stato d’animo e avrai cominciato a mettere la prima pur piccola tessera del mosaico che è la tua vittoria. Divenni quindi un guardatore per necessità.
Il nostro Regolamento comunque va anche oltre: svolazzi di lame sì, ma alla fine del match ci deve anche essere obbligatoriamente una stretta di mano o almeno qualcosa che ci assomigli; e questa è la parte umana del saluto, il bellissimo incontro tra la mano di chi ha perso e di chi ha vinto, il suggello di uno scontro che vale più della firma che è chiesta in calce al foglio di gara.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel settembre del 2019
Scherma e spostamento sulla pedana
Lo spazio costituisce una delle variabili più permeanti e significative della nostra disciplina: subito viene in mente la cosiddetta misura, poi magari la pedana con tutti i suoi luoghi particolari dove si svolge il match, ma c’è anche la spazialità del colpo ovvero la sua ideale dimensione fisica, ci sono le traiettorie percorse dalla punta e dal taglio della lama, c’è la superficie del bersaglio antagonista sulla quale deve pervenire la stoccata. Insomma lo schermitore deve idealmente sempre tenere in mano un metro e talvolta eseguire anche delle misurazioni estremamente accurate come nel caso di una stretta cavazione o di una difesa di sola misura; il guaio è poi che sia l’avversario che lui stesso non stanno mai fermi e quindi è tutto un misurare e rimisurare.
In questa occasione, per ossequiare il titolo, incentriamo la nostra attenzione sul concetto di spostamento sulla pedana. Quest’ultimo può avere differenti finalità: innanzitutto mantenere inalterata la distanza tra i due contendenti, in secondo luogo avvicinarsi all’avversario per poterlo colpire in un suo bersaglio, in terzo luogo cercare di sfuggire all’avvicinamento dell’attaccante. Superfluo comunque ricordare che più veloce e corretto sarà lo spostamento, maggiori saranno le possibilità di portare a buon fine i colpi ideati.
In apertura abbiamo subito accennato alla misura schermistica e, in effetti, essa è continuamente registrata dai due schermitori tramite opposte traslazioni: avanza uno e arretra l’altro e viceversa: lo scopo, notoriamente, è quello di garantirsi in prima battuta una posizione di stallo dalla quale potersi osservare e cogitare conseguentemente la contraria più opportuna, ma è anche quello di nascondere le proprie iniziative d’attacco, cercando poi di sorprendere la difesa dell’antagonista, può essere quello di tergiversare al fine di far trascorrere impunemente il tempo in caso di vantaggio nel punteggio e può essere anche quello di cercare di sospingere l’avversario all’estremità della pedana per metterlo tecnicamente alle corde. Fatto sta che sulla misura si sviluppa un primo scontro tra i due contendenti, magari non troppo appariscente dall’esterno, ma fondamentale anche perché spesso determinato dalle loro diverse potenzialità di spostamento, legate magari al rapporto tra le loro caratteristiche fisiche.
Il meccanismo di questo cambiamento di posizione è quello del passo, uno dei gesti più in economia che si possano attuare sulla pedana e sicuramente quello statisticamente più ricorrente nello spostamento; il passo avanti e, reciprocamente, quello indietro. Notoriamente lo schermitore ha a disposizione varie tipologie di passo: quello patinato, ottenuto con una normale traslazione dei piedi, o quello ottenuto invece ricorrendo alla meccanica del salto, in avanti con la cosiddetta balestra e all’indietro appunto con il salto all’indietro.
Una seconda finalità dello spostamento è quella di cercare di annullare la misura di garanzia esistente in partenza con l’avversario, al fine, appunto avvicinandosi, di poter riuscire a raggiungerlo con un colpo d’attacco; in gergo si direbbe stringere misura.
Sappiamo che per quanto concerne l’attacco la teoria schermistica teorizza varie tipologie di iniziative: quelle semplici che tendono a sorprendere direttamente la difesa dell’avversario e quelle composte che invece coinvolgono quest’ultimo nel meccanismo finta – parata (e) – elusione della parata (e) – colpo finale.
Questo è importante sottolinearlo in quanto il meccanismo di raggiungimento del bersaglio nel caso delle azioni semplici dovrà essere valorizzato al massimo sin da subito: affondo, passo avanti affondo e frecciata dovranno essere espressi alla massima velocità possibile; mentre negli attacchi composti, dovendo attendere i tempi di reazione di parata dell’avversario, l’affondo potrà esplodere solo nella parte finale dell’azione.
Una considerazione a parte merita il cosiddetto attacco in contropiede: in sintesi si tratta di attaccare l’avversario nel preciso istante in cui, dopo aver effettuato un suo attacco infruttuosamente, sta tornando in guardia, quindi nella situazione peggiore per difendersi visto il grosso impegno muscolare profuso. Il meccanismo può essere valorizzato al massimo seguendo questa successione: sull’attacco antagonista, difesa di misura tramite balzo indietro, caricamento delle gambe approfittando appunto del balzo indietro, frecciata.
In appendice di argomento non posso non citare il cosiddetto raddoppio, meccanismo elementare, ma molto proficuo per assicurare al proprio affondo o alla propria frecciata una maggiore e propizia proiezione in avanti: nell’effettuazione del passo in avanti prodromico all’attacco, il piede dietro non si riposiziona a giusta distanza da quello avanti, ma invece gli si accosta, producendo un vantaggio spaziale nello spostamento verso l’avversario pari all’ampiezza della guardia di partenza.
A questo punto, per completare l’articolo, non ci resta che parlare dell’ultima finalità che si può riproporre uno spostamento sulla pedana, cioè quella di sfuggire all’attacco dell’avversario.
Innanzitutto i trattati parlano espressamente di difesa di misura, incentrando quindi sulla sola capacità di arretramento il compito di mandare letteralmente a vuoto l’attacco antagonista; parlano anche di difesa mista, ottenuta sommando alla difesa di misura quella col ferro nei casi in cui l’attacco fosse particolarmente dirompente o quando avesse sorpreso il difensore.
I meccanismi degli spostamenti in parola sono già stati citati nelle righe che precedono: il passo e il balzo indietro. Il primo, sicuramente meno dinamico, assicura al sistema – schermitore di poter arretrare in pieno assetto, mantenendo in condizioni ottimali il braccio armato al fine di poter eventualmente assicurare la miglior difesa possibile col ferro (o nella specialità della spada la migliore precisione di punta nel colpo d’arresto); a proposito, tuttavia, una doverosa osservazione: in presenza non di un solo passo, ma di una veloce successione di passi, progressivamente la potenzialità difensiva può degenerare. Invece il balzo magari si dimostra più incisivo spazialmente, ma tende tuttavia ad influenzare negativamente gli equilibri posturali di chi arretra, limitandone le potenziali capacità difensive.
Per precisione, infine, devo parlare di due ultime situazioni particolari dello spostamento sulla pedana.
La prima relativa allo scarto a sinistra o a destra: in questo caso lo schermitore abbandona artatamente la linea direttrice parallela ai lati della pedana, linea che idealmente lo congiunge all’avversario; in pratica, ove la larghezza della pista ancora glielo consenta, si sposta alla propria sinistra o alla propria destra e questo per motivi tecnici, quali, ad esempio, il cercare di sorprendere l’antagonista transitando da nuove e inconsuete traiettorie di penetrazione in attacco.
La seconda, oltremodo speciale, relativa agli spostamenti che lo schermitore non effettua in avanti e indietro, ma restando sul posto: mi riferisco alle cosiddette schivate, che i trattati precisano in passata sotto e inquartata. In questi casi il corpo dello schermitore resta sostanzialmente sulla stessa parte della pedana, ma, al fine di non essere raggiunto dal colpo dell’avversario, si abbassa nel primo caso e scarta invece verso l’esterno della propria guardia nel secondo; in queste due situazioni l’attaccato costruisce il suo colpo sul colpo dell’attaccante, configurando il concetto di uscita in tempo.
Da tutto quanto detto emerge incontestabilmente che la capacità di spostamento sulla pedana rappresenta per lo schermitore una risorsa di primaria importanza sia in attacco che in difesa, risorsa che quindi va allenata con costanza: idonea preparazione atletica per avere la massima forza esplosiva negli arti inferiori, lezione tecnica per tenere sotto stretto controllo sia determinate posture (piedi, busto e spalle), sia la coordinazione motoria di alcuni movimenti composti (precedenza del braccio armato).
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre 2018
Scherma e “trucchetti” sulla pedana
Un giorno, diciamo tanto tempo fa, un mio maestro (dei tanti che ho avuto la fortuna di avere) mi chiamò in pedana e mi disse che nella lezione mi avrebbe insegnato qualche trucchetto molto utile in pedana.
Ero ancora molto giovane, ma, saranno stati i miei natali di “maledetto toscano” o il fatto che stavo frequentando il liceo scientifico(!), pensai subito: Mah! O sono veramente il coccolino del maestro e questi trucchi li insegna solo a me (e non mi pareva data la mia vita errante imposta dal mestiere di mio padre), oppure li rivela anche a tutti gli altri miei compagni. Allora che trucchi erano?! Tra l’altro, caso voleva che in quello stesso periodo fossi impegnato nello studio della Divina Commedia, neanche a dire proprio nel canto dove Ulisse e Diomede venivano rubricati come consiglieri fraudolenti; non volevo essere considerato come erede del tessitori di inganni per eccellenza!
Tutte mie inutili preoccupazioni, il maestro voleva solo parlarmi di alcune applicazioni della tecnica schermistica, sapute e risapute da tutti, ma, a suo dire, veramente poco utilizzate sulla pedana.
E vediamoli questi famosi trucchetti.
Posto d’onore al cosiddetto raddoppio. Ogni attaccante, quando sviluppa la sua azione, ha due problematiche: la prima è quella di sorpassare la linea difensiva dell’avversario costituita dal suo braccio armato e questo lo risolve in base al tipo di contraria che ha deciso di sviluppare; la seconda problematica riguarda invece il fatto di raggiungere il bersaglio avversario ed è qui che il raddoppio può aiutare l’attaccante. Il raddoppio consiste nel fatto che, prima di sviluppare l’affondo, il piede dietro dello schermitore in guardia si congiunge con quello avanti; il risultato è che la proiezione spaziale in avanti dell’allungo, prodotta in tal modo, risulta più estesa, in quanto alla normale capacità di spostamento in avanti si deve sommare il segmento originario esistente tra i due piedi tenuti nella postura di guardia. Questi 35/40 centimetri circa di maggiore avanzamento garantiscono ovviamente maggiori probabilità di arrivare a toccare l’antagonista. Un’ovvia considerazione: siccome lo schermitore nel corso del match percepisce la capacità di allungo di chi compete con lui e doverosamente cerca di calibrarci sopra la propria misura, il raddoppio va solo usato saltuariamente appunto per sorprenderlo; in effetti, se invece fosse utilizzato in modo continuativo, l’avversario tenderebbe ad allungare precauzionalmente la sua misura.
Un secondo trucchetto lo possiamo rinvenire tra le cosiddette azioni ausiliarie, parliamo della ripresa d’attacco. Può capitare di incontrare un avversario che dopo essere riuscito a parare un nostro colpo sia solito non rispondere (affari suoi!); ebbene in questo caso, se invece di ritornare normalmente in guardia all’indietro, ritorniamo in guardia richiamando invece la gamba dietro in avanti (magari, raddoppiando, come abbiamo appena visto), abbiamo una nuova notevole possibilità propulsiva in avanti, che, questa sì, può finalmente sorprendere il nostro avversario in modo definitivo.
Un altro trucchetto circa lo spostamento sulla pedana ai fini della riduzione della misura, prodromico magari ad una nostra iniziativa d’attacco, ad una nostra uscita in tempo o quant’altro, è ricollegabile sempre alla posizionatura dei piedi dopo l’effettuazione di un passo: in effetti, se si avanza e invece di mantenere inalterata la distanza tra i piedi, li uniamo, allora otteniamo di accorciare la misura e risultiamo (a sua insaputa) momentaneamente a lui più vicini; al contrario, se arretriamo e uniamo i due piedi, allora allunghiamo la misura per gli scopi che ci siamo prefissi.
Eccone un altro: in genere gli schermitori (almeno quelli intelligenti!) rispettano la linea direttrice, cioè quella linea ideale che, ospitando sulla stessa retta i segmenti delle due guardie, facilità la gestione delle loro linee difensive. Ebbene, l’attaccante prima di sviluppare la sua azione, tramite un veloce scarto laterale (a sinistra o a destra), può defilarsi rispetto all’avversario e, partendo da posizioni insolite, può sorprenderlo, procurandosi linee di penetrazione più angolate e insolite, complicando e non poco così facendo l’organizzazione difensiva dell’antagonista.
Un altro ancora: l’attacco in contropiede, preceduto da un salto indietro. Il concetto tecnico è veramente maligno: prendere l’iniziativa nel preciso istante in cui l’avversario, andato a vuoto con un suo attacco, sta riguadagnando la postura di guardia. Dove sta il “trucchetto”? Sta nel fatto che l’attacco di risposta non parte da una postura di guardia che può già esprimere un apprezzabile tasso di energia esplosiva; ma da un maggiore caricamento delle gambe, ottenuto grazie al balzo indietro eseguito sull’attacco primitivo dell’antagonista, balzo che quindi non solo attua una difesa di misura, ma prepara anche l’esplosione del contropiede, a questo punto da eseguire ovviamente tramite una frecciata. Le componenti di questo colpo sono molteplici: la tempistica circa l’esecuzione dell’arretramento, la spazialità utile a sottrarsi all’attacco, il mantenimento dell’allineamento della linea delle spalle, la reattività delle gambe.
Ecco l’ultimo trucco, almeno a mia conoscenza: diciamo una specie di angolazione sotto a genoux. Il termine tecnico, che richiama subito la specialità della spada, indica un colpo indirizzato al polso o all’avambraccio dell’avversario che pur sta coperto in guardia. La tecnica consiste nell’accucciarsi, abbassando in tal modo notevolmente l’altezza del nostro pugno armato; contemporaneamente, allungandolo, si tira il colpo ai bersagli avanzati, appunto sotto, dell’avversario. In caso di mancata stoccata, come velocemente ci si accuccia, così altrettanto velocemente ci si deve rialzare e riguadagnare la postura di guardia, altrimenti saremmo alla completa mercé dell’antagonista.
Questi i trucchetti per quanto concerne l’applicazione della tecnica schermistica; poi ce ne sono altri che sconfinano nella tattica.
Il primo consiste, dopo magari una fase convulsa del match, nel raddrizzare le gambe sollevandosi dalla guardia, ingenerando in tal modo nell’antagonista l’impressione di volersi concedere una breve pausa dall’intensità dello scontro. Invece, subito dopo e alla massima velocità, si produce un attacco semplice di frecciata, confidando al massimo nell’effetto sorpresa. Ovviamente questo tipo di trucco può non può essere giocato ripetutamente, in quanto dopo l’avversario ha mangiato la famosa foglia.
Il secondo trucco è applicabile laddove lo scandaglio dell’avversario sia riuscito a rivelare in modo eclatante le tendenze difensive dell’attaccato. Ad esempio quando su una finta di attacco sul bersaglio interno viene prodotta una vistosa e affannosa parata di quarta; a questo punto chi ha effettuato lo scandaglio ha la lettura sicura delle modalità istintive di difesa del suo avversario. In questa situazione non si può più tornare indietro; il trucco è di imporsi di cambiare modalità difensiva, anzi, in presenza di ulteriori azioni di scandaglio, dobbiamo confermare volontariamente questa nostra tendenza, al fine di convincere sempre più l’avversario delle nostre abitudini difensive. I frutti del trucco si palesano quando finalmente l’antagonista sviluppa il suo attacco impostato con quasi certezza sull’elusione della nostra parata di quarta; ebbene nell’occasione, invece della parata di quarta, dobbiamo eseguire una bella parata di contro di terza, frustrando il tentativo di eludere la nostra difesa col ferro; a noi poi la sospirata risposta e meritata!
C’è un altro trucco, ma più che trucco direi processo psicologico. Siamo nell’ambito del colpo al piede; sappiamo che questa azione è alquanto rischiosa perché per poterla tirare dobbiamo necessariamente abbassare tutto il braccio armato, lasciando completamente scoperto tutto il nostro corpo e ponendoci per di più in una postura totalmente prona rispetto al nostro avversario. Ebbene, se lo sviluppo del match ci porta a toccare appunto il piede del nostro avversario al primo tentativo, appena rimessi in guardia e udito l’a – voi, possiamo (abbastanza tranquillamente )tirare una nuova fulminea botta al piede; in effetti il nostro antagonista avrà ovviamente aggiornato i suoi schemi difensivi prevedendo una nostra successiva botta al suo piede nel prosieguo del match, ma mai se lo aspetterà sull’a –voi, così a ridosso della prima. E un trucco alquanto ardimentoso, ma vi garantisco di persona che può dare i suoi succosi frutti.
In conclusione abbiamo visto che questi “trucchetti” non sono proprio da mago Silvan! Le vittorie, diceva un mio maestro, si ottengono solo col sudore e col sangue (espressione forte, ma che credo renda pienamente la sua idea). Ebbene, se posso permettermi di correggere parzialmente la sua convinzione, devo dirvi che questi “trucchetti” mi hanno procurato parecchie soddisfazioni sulla pedana, soprattutto nei momenti importanti del match. Il principio è che, se i “trucchetti” li conosci, non solo li puoi tentare, ma, appunto per il fatto che li conosci, puoi difenderti meglio quando ad applicarli è l’avversario.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre del 2018
Scherma e uscite in tempo
In questo caso, come vedremo poco appresso, mai definizione letterale fu più pregnante e plasticamente visibile.
Cominciamo dal più ovvio “in tempo”: il significato comune richiama espressamente la necessità di eseguire un qualcosa in un preciso istante, solo ed esclusivamente in quell’attimo, pena il fallimento dell’operato.
Inoltre per la terminologia schermistica un’azione, di qualsiasi natura sia, è in tempo, quando si interviene su di essa nel preciso ed unico istante nel corso del quale l’avversario sta transitando da una determinata postura spaziale ad un’altra diversa.
Quindi, per il fine ultimo che vuol raggiungere un’uscita in tempo, il senso di in tempo si riferisce espressamente alla transizione da un atteggiamento di attesa a quello di inizio di un attacco.
Portiamoci ora al termine “uscita” e, siccome la parola evoca un moto da luogo, cerchiamo di individuare quest’ultimo. A mio parere, senza alcun dubbio, esso indica l’abbandono della più sicura e tutelata posizione di guardia, postura dalla quale l’assediato tenta una sortita, vale a dire un tentativo di sorprendere colui che sta per attaccare, appunto attaccandolo; a questo proposito il nostro compianto va alle tante e inutili sortite dei poveri troiani contro gli achei.
Dopo queste dissertazioni non dovrebbero esserci più soverchi dubbi sul concetto di uscita in tempo: saltare letteralmente addosso, quando meno se lo aspetta, a chi ha preso l’iniziativa d’attacco.
La meccanica di un colpo di tale natura deve necessariamente relazionarsi con la meccanica del colpo d’attacco, che si prefigge non solo di annullare, ma addirittura di ribaltare; insomma roba da Genio Guastatori.
Sotto questo profilo mi sembra che i trattati di scherma si limitino ad una elencazione puramente casuale; io invece cercherei di raggruppare le uscite in tempo in funzione dei presupposti e della natura dei loro interventi.
Una prima serie prende spunto dalla monotonia con cui l’avversario utilizza le sue linee d’attacco: sempre al bersaglio interno oppure sempre al bersaglio interno superiore. Il meccanismo si attua tramite due modalità concomitanti : la prima è quella di schivare il colpo, ossia di defilare il proprio corpo dalla linea d’attacco; la seconda è quella di distendere il proprio braccio armato, indirizzando la punta della propria lama sull’avversario. Fanno parte di questo primo gruppo: l’inquartata e la passata sotto.
- a) Inquartata: nel preciso istante in cui l’antagonista inizia a far percorrere alla propria punta il tratto finale della traiettoria indirizzata al bersaglio interno: 1) si sposta il piede della gamba dietro diagonalmente, profilando il proprio corpo; 2) si allunga in avanti il braccio armato verso il bersaglio antagonista sopravveniente, garantendosi la linea con un’opposizione di pugno in quarta (da cui la denominazione del colpo). Per raggiungere il bersaglio non dobbiamo fare niente, in quanto è lo stesso antagonista che si infilza da solo.
- b) Passata sotto: nel preciso istante in cui l’antagonista inizia a far percorrere alla propria punta il tratto finale della traiettoria indirizzata al bersaglio interno superiore: 1) si porta il proprio corpo al di sotto della linea d’attacco dell’avversario; 2) si allunga in avanti in alto il braccio armato verso il bersaglio antagonista sopravveniente. Inutile dire che questo tipo di colpo è facilitato quando l’altezza dell’avversario è marcatamente superiore; in caso inverso il colpo si complica. Per raggiungere il bersaglio non dobbiamo fare niente, in quanto è lo stesso antagonista che, anche in questo caso, si infilza da solo.
Una seconda serie di uscite in tempo trova la sua ragion d’essere nell’intento di sfuggire ad un’attività che il ferro antagonista vuole portare sul nostro: in questo caso le meccaniche sono di due tipi, sfuggire all’intercettamento oppure sfruttare noti principi di fisica. Ecco: l’elusione in tempo e l’imbroccata.
- c) Elusione in tempo: l’avversario cerca, tramite legamento o battuta, il nostro ferro per lavorarci sopra ed il colpo si attua non facendoci trovare all’appuntamento e, siccome il senso d’intercettamento può essere solo o lineare (semplice) o circolare (di contro), i nostri meccanismi di elusione sono nel primo caso la cavazione e nel secondo la circolata. Esse, ovviamente, devono essere “in tempo”, ovvero anticipare il movimento del ferro antagonista che deve andare completamente a vuoto. Per raggiungere il bersaglio è sufficiente allungare il nostro braccio armato.
- d) Imbroccata: l’avversario, utilizzando un’azione di filo, indirizza il suo colpo al nostro fianco tramite una fianconata esterna (detta anche filo di quarta) o una fianconata di seconda; sul colpo sopravveniente dobbiamo guadagnare i gradi della lama antagonista, opponendo il nostro forte al suo debole, intervenendo con un’opposizione del nostro pugno a destra. Per raggiungere il bersaglio dobbiamo vibrare il nostro colpo dalla stessa nostra guardia, indirizzandolo al fianco dell’avversario.
Le altre quattro rimanenti uscite in tempo hanno solo peculiarità specifiche, per cui le esaminiamo qui di seguito singolarmente: colpo d’arresto, tempo al braccio (caratteristico della sciabola), contrazione, appuntata.
- e) Colpo d’arresto: la terminologia evoca un intervento su un’iniziativa dell’avversario, intervento che ha lo scopo di non far giungere a compimento completo tale intenzione.
Qui è subito necessario fare una distinzione tra spada e armi convenzionali (fioretto e sciabola).
Il colpo di arresto nella spada non è sottoposto ad alcun giudizio se non quello temporale: se anticipa del prescritto intervallo la stoccata dell’avversario, la interdice, nel senso che quest’ultima non viene registrata dal segnalatore; se invece è concomitante nella tolleranza prevista, allora c’è l’unicum nella scherma, ovvero la ripartizione del colpo doppio.
Nel fioretto e nella sciabola le cose cambiano in quanto la Convenzione schermistica detta precise regole: se l’attacco tocca, nel fioretto anche se in bersaglio non valido, non c’è arresto che tenga.
In effetti la meccanica di questa uscita in tempo deve riuscire materialmente a bloccare il ferro avversario impegnato nelle evoluzioni spaziali di un attacco composto, cioè di una o due finte. Per sortire tale effetto il colpo d’arresto deve precedere di un tempo schermistico quello dell’avversario: se l’attacco è composto da una finta, l’arresto (e si dice in primo tempo) si può tirare nella fase del passaggio tra la linea della finta stessa e la linea del colpo definitivo; se invece l’attacco è composto da due finte, l’arresto si può tirare durante ciascuna delle due fasi di transizione che lo compongono (rispettivamente in primo tempo e in secondo tempo). La Convenzione nega invece anche la teorica possibilità di tirare l’arresto sugli attacchi semplici (cioè senza finta) e sulla parte finale delle azioni composte.
- f) Tempo al braccio (colpo peculiare della sciabola): sull’attacco dell’avversario, magari al nostro bersaglio grosso, si può tentare di colpire il suo braccio, che costituisce notoriamente un bersaglio avanzato.
Le regole sono simile a quelle appena esposte per il colpo d’arresto.
- g) Contrazione: qui il concetto è di deviare il colpo dell’avversario utilizzando la propria lama, ricorrendo però ad un intervento alternativo alla parata. In effetti in quest’ultimo caso i tempi di scansione del fraseggio sono due: appunto la parata e susseguentemente la doverosa risposta. Invece nella contrazione il tempo è uno solo. La meccanica è incentrata sull’andare ad occupare preventivamente in avanti la linea finale prescelta dall’avversario per il suo attacco, sortendo l’effetto, tramite un’opportuna opposizione di pugno, di deviare la sua stoccata e colpirlo invece in simultanea, grazie al fatto di avere indirizzato la propria punta su di esso.
- h) Appuntata: la particolarissima applicazione di questa ultima uscita in tempo riguarda il caso in cui ci si renda conto che l’avversario, dopo essere riuscito a parare un nostro attacco, sia solito rispondere di finta.
Il meccanismo si rifà a quello già descritto poco sopra del colpo d’arresto: vistoci parare il colpo, anziché affidarci alla propria controparata, si vibra, restando in affondo, un nuovo colpo allo stesso bersaglio, eseguendo un’opportuna opposizione di pugno; in tal modo sbarreremo fisicamente il passaggio della lama avversaria, anticipandola di un tempo schermistico.
Il nostro cammino tecnico non è stato certo breve, ma siamo finalmente giunti alla fine di questo straordinario excursus tra le uscite in tempo: straordinario perché, ancora una volta se ce n’era bisogno, la teoria schermistica ci ha rivelato con quanta completezza e insieme profondità essa abbia preso in considerazione le tante e diverse situazioni che si possono materializzare nelle vicende di pedana; ma straordinario anche perché ha nel suo complesso trovato nuove ed alternative soluzioni per neutralizzare l’attacco. Attaccare un attacco è veramente un concetto spiazzante e abbastanza ardito, un concetto che rende elettrizzante la nostra disciplina solo scrivendone, come ora sto facendo io. In ultima analisi, un’indubbia complicazione in più per colui che decide di prendere l’iniziativa e andare all’assalto del fortino “guardia”: da questo fortino infatti ci si può attendere non solo una passiva attesa in difesa, ma dobbiamo anche temere e quindi prendere in seria e concreta considerazione anche il fatto di una potenziale sortita; e questo proprio nell’istante in cui siamo noi a portare la minaccia dell’attacco.
Magica Scherma!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e velocità
Un buon vocabolario definisce la velocità come il tasso di cambiamento della posizione di un corpo in funzione del tempo.
Anche per dei razionalisti e cerebrotici come noi schermitori la materia, apparentemente semplice, si complica. Eh sì! Perché non si creda che tutto si riduca a sparare un affondo come una saetta e andare a parare infrangendo il muro del suono.
E cominciamo pure a ricordare che la velocità, assieme alla misura e alla scelta del tempo, costituisce per chi scende in pedana con un’arma bianca un elemento fondamentale: insomma una delle tre colonne sulle quali poggia l’intero sistema della teoria schermistica. Non a caso le prime azioni di attacco che ogni buon trattato esemplifica (definite appunto semplici) sono quelle basate sul concetto di velocità, azioni la cui natura è quella di sorprendere l’avversario a tal punto da non consentirgli di riuscire ad attuare, almeno compiutamente, la propria difesa.
In pratica la velocità consiste nell’eseguire certe attività nel minor tempo possibile, soprattutto in relazione all’avversario che ci troviamo volta per volta di fronte. Da ciò si può subito desumere un concetto, anche se ovvio: fondamentale non è tanto la velocità in sé che ogni schermitore possiede, quanto piuttosto il fatto di metterla in relazione con quella degli altri antagonisti; in effetti contro qualcuno di questi possiamo figurare come delle lumache, mentre rispetto ad altri diventiamo dei ghepardi. Ecco perché, sin dal primo giorno di sala, si cerca di migliorarsi sempre (anche in questo campo) per tutta la propria vita, nella speranza di oltrepassare l’asticella sempre più in alto.
Precisato questo, possiamo incentrare la nostra attenzione sul fatto che esistono vari campi in cui dobbiamo cercare di sviluppare l’auspicata massima velocità. Innanzitutto quello cui si riferiva la definizione citata in esordio: essere veloci significa traslare nello spazio nel minor tempo possibile l’intero nostro corpo o segmenti di esso, cioè ad esempio: sviluppare un attacco, retrocedere per difendersi di misura, eseguire ricerche del ferro avversario con il braccio armato.
Qui appare subito evidente il riferimento alla capacità e alla forza muscolare, da mettersi in relazione al patrimonio genetico, al suo eventuale rafforzamento e al suo doveroso allenamento; in considerazione poi con tutto quello che comporta un certo tipo di costituzione fisica: un brevilineo facilitato nella forza esplosiva, un longilineo rallentato costituzionalmente nei movimenti, un normotipo con un piede di qua e uno di là. Poi tutti comunque a fare i conti con la correttezza delle posture tecniche, quali la guardia e l’affondo, dove il non rispetto dell’equilibrio e del baricentro ottimale costituisce senz’altro una pesante zavorra che inficia il miglior lavoro muscolare, andando ad incidere anche in modo importante sull’espressione globale della velocità; pensiamo ad una guardia con piedi tra loro troppo lontani o non allineati, a gambe poco flesse con scarsa energia potenziale a disposizione o a spalle non defilate e magari inclinate. In conclusione, la forza muscolare per potersi esprimere al meglio deve rispettare certi principi fisici.
Ma anche la geometria è in stretto rapporto con la velocità dello schermitore: le evoluzioni delle lame nello spazio non sono esenti da certe leggi. Ecco che una traiettoria lineare risulta più breve di una non lineare e, di conseguenza, a parità di velocità la lama arriva prima a bersaglio; come del resto una cavazione eseguita con una spirale più stretta risulta più corta di una con una con spirale più ampia; la cosa non è affatto da sottovalutare in specialità come la spada dove, notoriamente, vige il principio della precedenza temporale del colpo. Diversamente, nelle armi convenzionali, proprio per le regole di combattimento relative alla tempistica, il vincolo geometrico risulta meno importante. Questo per quello che concerne le stoccate in attacco, ma gli stessi principi valgono anche per la difesa: ad esempio la risposta dopo una parata che si allontana spazialmente troppo rispetto al bersaglio sottostante, costringendo la lama a partire da un sito più periferico dopo la deviazione del ferro, risulta mano a mano più lenta rispetto a quella eseguita in modo ottimale sopra il bersaglio stesso.
Torniamo ora a parlare di velocità in generale: dopo quella muscolare relazionata alla fisica e alla geometria, dobbiamo ora trattare di altri campi di applicazione.
Fondamentale è la capacità percettiva dello schermitore; se vogliamo utilizzare un termine omnicomprensivo, diciamo i suoi riflessi. Ovviamente tanto più veloce sarà globalmente uno schermitore quanto prima si allerterà per dare inizio subito dopo ad una sua attività di movimento. In questa ottica il campo di applicazione è marcatamente quello difensivo: prima ci si rende conto di un attacco effettivo dell’avversario, meglio si riesce a contenerlo o, quantomeno, a tentare di contenerlo. E anche in questo caso, subito dopo le doti naturali dell’atleta (che comunque possono essere migliorate ed accresciute con appositi allenamenti), riveste una fondamentale importanza ancora la tecnica schermistica quando raccomanda al combattente di mantenere sempre una misura idonea tra sé e l’avversario: in questo frangente la misura, che è spazio, si traduce per l’attaccato in prezioso tempo per organizzare la propria difesa. In appendice voglio fare alcune considerazioni a latere rispetto ai concetti di velocità sin qui esposti.
Innanzitutto circa una tipologia di velocità non tanto legata all’ambito temporale, bensì a quella relativa all’impostazione più idonea da cercare di imporre all’intero incontro. Parlo della rapidità con cui lo schermitore legge le caratteristiche del suo avversario, ovviamente non note antecedentemente, e della velocità con cui trova la o le contrarie più idonee per raggiungere la vittoria nel match. Ovviamente questa mia osservazione viene progressivamente meno quando sulla pedana si affrontano degli schermitori evoluti, in grado di mutare il loro atteggiamento tecnico-tattico in funzione del dipanarsi del match con il relativo punteggio.
Una seconda osservazione può essere fatta circa il cosiddetto “tempo falso”, ovvero il ricorso in modo artato ad una velocità di spostamento minore rispetto a quella massima manifestata in precedenza sulla pedana; in tal modo la controreazione dell’avversario si trova spiazzata e si rivela inappropriata, nel senso di essere portata ad anticipare il proprio movimento rispetto a quello che ci si dovrebbe attendere. A questo proposito, l’esempio classico è quello della risposta lanciata dopo la felice effettuazione di una parata: invece di affidarsi alla propria velocità massima, temendo di cadere sulla contro parata dell’avversario e non volendo ricorrere al meccanismo della risposta di cavazione, si può volontariamente ritardare il colpo, mandando in tal modo a vuoto la contro parata d’istinto prodotta dall’antagonista probabilmente indaffarato anche nel suo affannoso ritorno in guardia.
Una terza osservazione va doverosamente fatta sugli effetti indesiderati che la velocità può produrre sul rendimento ottimale dello schermitore sulla pedana: in effetti sia muscolarmente che tecnicamente si può commettere l’errore di privilegiare i tempi di esecuzione di un determinato gesto a detrimento della sua qualità. Nel primo caso, ad esempio, quando in presenza di un attacco dell’avversario viene effettuato un arretramento troppo repentino che va ad alterare la corretta postura di guardia influendo sull’intero sistema-schermitore, diventa più difficile l’esecuzione di una parata calibrata rispetto al bersaglio che rischia di essere offeso. Nel secondo caso, ad esempio, quando, credendo di realizzare una velocità maggiore nell’effettuazione di una botta dritta, non si rispetta la tempistica tecnica del gesto, che, notoriamente, prevede l’iniziale allungamento del braccio armato seguito senza soluzione di continuità dalla spostamento degli arti inferiori; in tal caso viene progressivamente ad alterarsi la precisione della punta, che, magari in una specialità che li contempla, cerca di raggiungere un bersaglio avanzato dalla ristretta superficie.
La quarta ed ultima osservazione s’incentra sul fatto che non è detto che sulla pedana di scherma valga sempre e comunque l’auspicata applicazione della massima velocità in sé e per sé. Se le azioni di attacco si limitassero a quelle semplici, dove il principio è quello di sorprendere l’avversario, tutti d’accordo …veloci come razzi, comunque ben teleguidati come sopra ricordato; ma la teoria schermistica nel tempo ha anche evidenziato le azioni di attacco con finta, il cui schema, notoriamente, contempla una finta a cura dell’attaccante, una o due parate dell’attaccato, l’elusione di questi tentativi difensivi e infine il sospirato colpo sull’attaccato. Questo vuol dire che, dopo aver provocato la parata avversaria con la sua finta, l’attaccante deve necessariamente attendere i tempi di reazione dell’attaccato, altrimenti, anticipando la sua meccanica di elusione, non riuscirebbe ad evitare poi il ferro antagonista. In questa prima fase dell’azione composta quindi l’attaccante applica doverosamente una velocità non assoluta ma relativa, relativa appunto alla reazione dell’attaccato. Solo dopo essere premeditatamente sfuggito alla ricerca del ferro operata dall’avversario, l’attaccante potrà scatenare la sua massima velocità per andare finalmente a bersaglio.
Sulle pedane siate quindi degli oculati Speedy Gonzales, Superman o Flashman a seconda dei vostri gusti fumettistici; ricordate che la velocità è molto importante sulla pedana, ma non scordate mai che per raggiungerla la strada non è né semplice né corta: formazione e allenamento della forza veloce, conoscenza e rispetto del baricentro fisico del sistema-schermitore, rispetto minuzioso delle tempistiche delle azioni, soprattutto di quelle più complesse. Parimenti non dimenticatevi mai che oltre la velocità esistono altri strumenti tecnici per cercare di prevaricare il vostro avversario di turno sulla pedana, in sala come in gara: mi riferisco soprattutto alle azioni composte, alle uscite in tempo e al controtempo. Non affidatevi troppo alla vostra fisicità; ovviamente utilizzatela al meglio, ma ricordatevi che lo schermitore è soprattutto mente che soprassiede a tutto il corpo, in un rapporto che la biologia ben definisce come simbiosi mutualistica. Permettetemi ora di salutarvi, ovviamente il più velocemente possibile.
M° Stefano Gardenti
a Firenze, nel settembre del 2018
Premessa: tutti possono scrivere articoli, più difficile e trovare qualcuno che ne scriva due sullo stesso argomento a distanza di anni, quasi impossibile trovare uno come me che ne scrive due a breve distanza di tempo!
I concetti sono quasi gli stessi, ma cambiano il ritmo e il modo espressivo …io pubblico anche questo!
La Scherma e la velocità – bis
Vien da pensare: velocità è essere veloce e lo schermitore veloce è uno schermitore vincente.
Niente da eccepire. “Elementare!”, direbbe Sherlock Holmes all’ammirato Watson.
“Proprio elementare!”, direi anch’io; ma sarcasticamente, come spesso usa fare chi è nato, come me, in riva all’Arno.
E’ talmente ovvio che la velocità sia una dote importante per lo schermitore che credo che si possa anche risparmiare il tempo per spiegarne i perché. Ma non illudiamoci: l’argomento non è di quelli superficiali e senz’altro merita di soffermarcisi per qualche riga.
Innanzitutto è da considerare il fatto che non è importante quanto uno schermitore sia veloce in sé nell’esecuzione dei differenti gesti tecnici, quanto piuttosto quanto lo sia in rapporto alla velocità del suo avversario. In effetti uno può essere velocissimo, ma poi in pedana gli si para contro Speedy Gonzales! Oppure uno si considera molto lento e poi deve affrontare una povera tartaruga, per di più zoppa!
Questo, pur ovvio, è un primo importante concetto da evidenziare; e da questo concetto deriva il continuo allenamento, atletico e tecnico, cui lo schermitore volenteroso si deve assoggettare: deve cercare di progredire per tirare fuori da sé la massima velocità possibile, perché non può conoscere quella degli avversari che potrà incontrare sulla pedana.
Comunque questo è il territorio delle cosiddette azioni semplici: la velocità di attacco dell’uno contro la velocità di difesa dell’altro. Non c’è trucco, non c’è inganno …pronti? Via.
Andiamo a caccia di un secondo concetto.
Il corpo dello schermitore, lo sappiamo, lavora soprattutto in due specifici campi: quello della deambulazione e quello delle evoluzioni della propria lama.
Tramite gli arti inferiori si avanza e si arretra per mantenere la misura, poi, all’occasione, si deve far esplodere l’affondo o la frecciata per il nostro attacco oppure, al contrario, si deve cercare di portare repentinamente il corpo fuori della gittata della stoccata dell’avversario. Invece tramite il braccio armato dobbiamo tessere le trame del nostro colpo oppure, ovviamente al contrario, dobbiamo cercare di disfare quelle del nostro antagonista.
A questo proposito i due tipi di attività, il più delle volte, non possono essere indipendenti, anzi devono lavorare di concerto; per cui i loro due potenziali tassi di velocità devono necessariamente accordarsi, sintonizzarsi e fondersi. Due esempi a supporto: il primo relativo ad un attacco semplice di battuta e colpo a misura camminando; il secondo una parata mista di misura e ferro arretrando con balzo indietro per poi attaccare in contropiede. E’ di facile comprensione che le due attività debbano relazionarsi in modo diretto per la migliore esecuzione del colpo; in ciò rispettando il concetto base che il tiratore debba realizzare sulla pedana un sistema-schermitore perfettamente armonizzato.
Servito il secondo concetto, cerchiamo di adocchiarne un altro.
Questa volta vi porto nel complesso mondo delle azioni composte, cioè in quel mondo in cui, come ben sappiamo, l’attaccante non cerca di prevaricare direttamente e subito il suo avversario (come abbiamo visto in precedenza per le azioni di attacco semplice), ma anzi lo coinvolge nel meccanismo della stoccata, sollecitandolo all’effettuazione di una o più parate, che, ovviamente, si prefigura in partenza di eludere.
Frammentiamo la meccanica della stoccata: una sana e veritiera finta, l’attesa della auspicata e prevista dell’attaccato, l’elusione del suo ferro tramite cavazione o circolata, finalmente il colpo sul precongetturato bersaglio antagonista.
Ebbene in questo schema salta subito all’occhio il fatto che l’attaccante non può sempre sviluppare la massima velocità di cui è dotato; questo lo può fare solo nell’ultima parte dell’azione quando si sarà finalmente sbarazzato dell’intervento difensivo del ferro dell’avversario e si porrà il problema di raggiungere al più presto possibile il bersaglio prestabilito; mentre all’esordio del colpo, dopo la finta, dovrà attendere la reazione antagonista, sintonizzando ad essa il movimento elusivo della sua lama. Volendo giocare con le parole, le azioni composte le potremmo anche definire come azioni della doppia velocità e come conoscitori di musica classica come azioni con crescente rossiniano.
Siamo al terzo concetto.
Qui entra in gioco la geometria. Lo schermitore ha perennemente fretta ed è ossessionato dalla nota formula V = S/T: deve sempre cercare di ridurre la durata dei suoi colpi. A tal fine può fattivamente e utilmente intervenire anche sulla grandezza S, perché, riuscendo a ridurla, ridurrebbe ulteriormente anche la grandezza V: infatti T = S/V. In altri termini, può riuscire a velocizzare il suo gesto tecnico, nel senso di durata complessiva, intervenendo non sulla sua prestazione muscolare, bensì sul percorso da compiere.
Ecco un paio di esempi chiarificatori: una cavazione con traiettoria più stretta rispetto alla lama antagonista che origina il legamento giunge prima a bersaglio rispetto ad una traiettoria più ampia. Il colpo finale, dopo una finta espletata a braccio naturalmente disteso ed elusione del ferro avversario, raggiunge prima il bersaglio rispetto alla finta espletata a braccio flesso: in effetti anche in questo caso il percorso finale risulta più breve.
Quarto concetto, relativo agli effetti nocivi della velocità e che quindi tende a ridimensionarla.
Questa volta partiamo dall’esempio per poi risalire al concetto: partecipo al moto GP, tiro la manetta al massimo consentito, sono velocissimo, ma esco alla prima curva! Morale: in certe situazioni non è consigliabile utilizzare l’intero potenziale rispetto alla velocità. A questo proposito ricordo il consiglio/monito dei trattati circa l’utilizzo del passo avanti affondo saltato (o a balestra): l’uso è consigliato se accompagnato da certe tipologie di attacco particolarmente dirompenti e veloci , prima fra tutte quella della battuta e colpo; invece il cosiddetto passo avanti affondo patinato (quello ordinario), sicuramente meno veloce, è consigliato per le azioni che richiedono maggior precisione di punta, come ad esempio le azioni di doppia finta o quelle che finiscono ai più esigui bersagli avanzati, soprattutto a quelli della specialità della spada. Quindi: ciascun schermitore possiede un proprio ideale tasso di velocità da applicare alle diverse tipologie di azione; tramite la lezione con il maestro può ovviamente cercare di innalzarlo (oltre che a mantenerlo), ma sempre avrà un suo personale limite da non oltrepassare senza intaccare la qualità del suo gesto tecnico.
Quinto e ultimo concetto, il tempo falso.
Quasi incredibile a dirsi, ma in questo caso lo schermitore può intervenire a suo pro’ sulla velocità, decrementandola! Sì, avete letto bene, andando più piano!
Sono queste alcune tipologie di successioni di azioni che si avvicendano nel fraseggio schermistico: pensiamo ad esempio ad una controparata eseguita dal nostro avversario. Dopo essersi prodotto in affondo, vistosi parare il colpo, vuole ovviamente ritornare al più presto in guardia per recuperare la sua completa funzionalità e così facendo istintivamente produce una sua controparata il più velocemente possibile, presumendo altrettanta solerzia temporale in chi, dopo la parata, risponde. Ed eccoci al volontario intervento sul tempo di chi lancia tale risposta: invece di competere in velocità con l’antagonista, ritarda il colpo, vede sfilare la lama avversaria e immediatamente subito tira la stoccata; si potrebbe pensare ad una risposta con finta, ma senza cavazione.
Avete visto quante implicazioni (e forse tante altre) ha il concetto di velocità nella teoria schermistica! La velocità prodotta dai muscoli è solo la punta appariscente dell’iceberg, sotto il pelo dell’acqua ci sta un esteso ed interessantissimo mondo da continuare ad esplorare.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2018-12-29
Per chi volesse approfondire questi temi segnalo nella rubrica LIBRI E AUDIOLIBRI DA SCARICARE il mio lavoro Lo spazio ed il tempo nell’assalto di scherma.
Argomenti
Tattici e Strategici
Indice
1 Scherma e anticipo
2 Scherma e attacco
3 Scherma e attacco – difesa
4 Scherma e camaleonte
5 Scherma e tempo
6 Scherma e colpo doppio
7 Scherma e concetto di relativo
8 Scherma e dissimulazione
9 Scherma e geometria
10 Scherma e gestione assalto
11 Scherma e irrazionale
12 Scherma e spazio
Scherma e Anticipo
Un buon vocabolario definisce l’anticipo come un’antecedenza temporale nel corso di una successione di eventi concatenati.
Da un punto di vista tecnico esso si concretizza nel far abortire l’azione dell’avversario, intervenendo prima che quest’ultimo possa portarla a pieno compimento. In effetti ogni azione d’attacco prevede per la sua realizzazione l’utilizzo di un certo lasso di tempo; in questo spazio temporale l’azione stessa è solo in fieri, cioè in divenire; in altre parole non ha ancora sviluppato appieno la sua potenzialità e proprio per questo è esposta ad un possibile vulnus.
Lo schermitore ha quindi una certa opportunità temporale, più o meno estesa a secondo dell’attività dell’avversario, entro la quale poter intervenire sulla sua iniziativa d’attacco. In effetti per un buon osservatore e analizzatore di dati sarà proprio l’antagonista a suggerire quando poter essere anticipato: lo farà o tramite la manifestazione della sua velocità esecutiva nei colpi, oppure tramite le sue stesse scelte tecniche.
Nel primo caso, ovviamente, più l’avversario occuperà più tempo ad eseguire un dato gesto tecnico, tanto più sarà possibile oggetto di anticipo; in pratica, anche in questo caso come in molti altri, si tratterà della relazione tra le due diverse potenziali velocità dei concorrenti. Vangelo, come ben sapete, per la specialità della spada, che tende a sfruttare al massimo il concetto di anticipo temporale in senso letterale in quanto l’unica sua regola di combattimento è il toccare per primo: lo spadista quindi viene sollecitato a diventare un decostruttore di azioni nel senso che statisticamente, appena ne ha la possibilità, cerca di toccare per primo senza minimamente curarsi delle ricostruzioni convenzionali dell’arbitro.
Nel secondo caso invece il concetto di anticipo si svincola dal cronometro puro e semplice e si affida ad un concetto meccanico: in effetti quando l’azione dell’avversario è composta, ovvero contempla una o più finte, ecco che si dischiudono altre opportunità tecniche di anticipare il suo colpo. A questo proposito sia sufficiente il classico esempio del colpo d’arresto; prendiamo ad esempio una finta dritta e cavazione: quando la lama dell’attaccante, dopo la finta, è impegnata ad eseguire il movimento idoneo a non farsi intercettare dal presunto movimento difensivo di parata dell’avversario, quest’ultimo, sfatando le previsioni, tira direttamente il colpo in avanti e, frapponendosi quindi nella traiettoria del ferro, ne interrompe fisicamente il percorso, rendendo quindi impossibile la conclusione dell’azione. Se poi le finte dell’avversario sono più numerose, ciascuna di esse rappresenta, una dopo l’altra, un anfratto tecnico per far ingrippare il colpo dell’antagonista e poterlo colpire impunemente.
Esiste poi un concetto più ampio di anticipo, un concetto che prevarica la tecnica in senso stretto e si riferisce in modo diretto alla tattica schermistica.
In effetti un elemento imprescindibile per costruire un fraseggio schermistico non improvvisato, ma appropriato alla situazione di pedana, è l’osservazione analitica dell’avversario: solo conoscendo le sue caratteristiche, cioè le sue potenzialità, le sue attitudini e le sue consuetudini, è possibile elaborare una contraria che abbia una sufficiente garanzia di successo. Tutto questo lavoro preparatorio ha un solo scopo: quello di anticipare le mosse dell’antagonista.
Nelle proprie iniziative d’attacco si tratta di anticipare la difesa dell’avversario, a seconda dei casi e/o delle proprie scelte tecniche, o con un’azione semplice tendente a sorprenderla rendendola incompiuta, oppure con un’azione composta, che invece si realizza anticipando i movimenti di intercettazione della difesa eludendoli tramite la o le cavazioni e la o le circolate.
Nella propria difesa invece si tratta di aver intuito le intenzioni dell’antagonista e aspettarlo in parata oppure accoglierlo con un’acconcia uscita in tempo; in pratica un anticipo concettuale. Tutto ciò, ovviamente, sia in attacco che in difesa, non preso alla lettera, ma attuato sulla pedana in modo statistico, direi tendenziale. Il divenire sulla pedana, così intimamente intrecciato e consequenziale nel fraseggio schermistico, è costituito da una successione concatenata di eventi: chi è in grado di prevedere un passaggio tecnico prima dell’avversario è in clamoroso vantaggio per il conseguimento del successo finale; questo perché, conoscendo il futuro o almeno presupponendolo con sufficiente certezza, possiamo cercare di piegarlo meglio e adattarlo alle nostre esigenze di cacciatori di vittorie.
Attenzione però, perché uno degli dei della scherma è sicuramente Giano, che com’è noto è bifronte: l’anticipo può donare il successo, ma, scoprendo le proprie carte tecniche, può anche esporre pericolosamente alle contro intuizioni dell’avversario; uno per tutti il caso del controtempo, dove proprio l’antagonista chiama e provoca deliberatamente un’uscita in tempo, cioè un gioco d’anticipo, pronto a neutralizzarlo e quindi controbattere prontamente.
Ma questo lo sanno tutti gli schermitori: sulla pedana l’unica certezza si ha solo quando l’arbitro, alzando il braccio, ti assegna la stoccata.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel settembre del 2019
Scherma e attacco
Dopo aver affrontato in un precedente articolo il rapporto esistente tra le due massime categorie (aristoteliche) della scherma, cioè attacco e difesa, concentriamo ora la nostra attenzione sul primo di questi due aspetti tecnici.
Durante lo scontro uno dei due schermitori in pedana rompe gli indugi e prende l’iniziativa, cioè riduce la misura e sviluppando un’azione cerca di raggiungere il bersaglio antagonista; questo è l’attacco.
Una delle prime osservazioni da fare è quella concernente il fatto di distinguere in modo netto l’attacco dal semplice deambulare, pur in modo incalzante, in avanti: sia la Convenzione schermistica nel fioretto e nella sciabola, sia ancor più la condotta realistica nella spada, eleggono e rinvengono nell’attività del braccio armato la manifesta origine dell’attacco, derubricando gli arti inferiori a semplice veicolo per poter raggiungere il bersaglio da colpire. Insomma le ostilità sono formalmente demandate alle evoluzioni, più o meno complesse, della lama di uno dei due contendenti, quello che per primo cerca di attuare una sua risoluzione; in effetti nel concetto di sistema-schermitore le gambe hanno il solo compito di far deambulare la scacchiera dove viene giocata la vera partita tra i due ferri antagonisti, quella tra due menti pensanti.
Le tipologie tecniche di attacco sono varie e sono scaturite direttamente dalle varie situazioni che possono venirsi a creare tra i due contendenti; esaminiamole.
Se la velocità di uno dei due schermitori è marcatamente superiore a quella dell’altro, ecco le cosiddette azioni semplici di offesa. Basandosi appunto sulla rapidità, meccanicamente sono composte dal minor numero di movimenti possibile e prendono in considerazione tutte le teoriche posture del ferro avversario: se quest’ultimo non è sulla traiettoria del colpo, allora ecco la botta dritta – se il nostro ferro è sotto un legamento antagonista, ecco la cavazione – se il ferro avversario è alla nostra portata, ecco le due possibilità di percuoterlo con una battuta o legarlo ed effettuare un filo. Tutto si informa all’essenzialità per poter sorprendere, appunto in velocità, l’avversario senza permettergli di riuscire ad organizzare una difesa compiuta; almeno questa è l’auspicata speranza.
Invece, se lo scandaglio o la conoscenza pregressa sconsigliano di cimentarsi nella velocità, ecco che i trattati illustrano le azioni composte. In questo caso, non potendo prevaricare direttamente l’avversario, giocoforza è coinvolgerlo nel fraseggio. Il presupposto necessario è quello di venire a conoscenza di quali parate l’avversario è solito servirsi; scoperto questo, il gioco è fatto (in teoria è abbastanza facile!): si finge un colpo su un bersaglio, provocando così la o le parate previste, si eludono nel modo più acconcio (cavazione o circolata), infine si può andare finalmente a colpire. Il meccanismo risulta in questo caso più complesso, i tempi si allungano e soprattutto il comportamento difensivo dell’avversario può, ahimè, non essere quello preventivato; ma, se proprio vogliamo attaccare, non abbiamo altre scelte, perché le azioni semplici sono troppo rischiose per il tipo di antagonista che abbiamo di fronte.
Ma le cose non finiscono qui. Mettiamo che il nostro avversario invece di essere un paratore sia invece propenso ad uscire in tempo, cioè a sferrare un colpo specifico sul nostro attacco. Che fare? Non preoccupatevi, sui trattati si trova tutto!
Prendiamo l’esempio di un antagonista che appena gli diamo l’impressione di attaccare cerca di stampigliarci addosso un bell’arresto. Bene, applichiamo il controtempo: facciamo finta di attaccare, attendiamo l’allineamento della sua lama, poi usiamo una battuta o una presa di ferro, infine scarichiamo il nostro colpo. Meccanica sempre più complessa, tempi ancora più lunghi; ma anche in questo caso, se vogliamo attaccare un avversario di questo tipo, non abbiamo alternative di sorta. Tutto un crescendo rossiniano in questa elencazione di azioni: ecco perché lo schermitore deve sempre prendere lezione. E non si creda che le azioni composte e il controtempo, cioè quelle che appaiono più complesse, siano più difficili rispetto a quelle cosiddette semplici; è vero proprio il contrario! In effetti queste ultime tendono a valorizzare al massimo i tre elementi fondamentali della teoria schermistica, cioè lo spazio, la velocità ed il tempo.
Dopo questo pur veloce excursus sulle tipologie di attacco, siamo ora in grado di poterne effettuare una catalogazione molto interessante ed importante.
Quelle azioni la cui filosofia è quella di andare a toccare direttamente l’avversario, che esso non sia (azioni semplici) o sia (azioni composte) coinvolto nella meccanica del colpo, sono denominate di prima intenzione.
Invece quando l’attaccante finge solo il suo attacco per poi agire direttamente sulla reazione dell’attaccato, le azioni sono denominate di seconda intenzione. Un esempio calzante a questo proposito è quello in cui uno schermitore valuta di avere una velocità di braccio superiore a quella dell’avversario, per cui sviluppa un attacco per finire intenzionalmente su una sua parata, per poi controparare la sua risposta ed infine colpirlo.
Visto che stiamo parlando di categorie di azioni, cioè di grossi scatoloni dove esse vengono catalogate in funzione delle loro peculiari caratteristiche, credo sia il caso di accennare alla distinzione tra azioni a propria scelta di tempo e azioni in tempo.
Le prime sono quelle il cui inizio avviene quando l’avversario con il proprio braccio armato mantiene, almeno per un accettabile lasso di tempo, la stessa configurazione spaziale, ad esempio un invito o un legamento. In tali frangenti lo schermitore può liberamente scegliere l’istante in cui scatenare il proprio attacco.
Le seconde, invece, sono quelle in cui l’attaccante attende che l’avversario muti un determinato atteggiamento con l’arma per poi passare ad un altro; ed è proprio durante questa variazione di posizione che intende iniziare la propria azione di offesa.
Considerazione: come in tutte le scelte che lo schermitore decide di fare ci sono pro e contro.
Nelle azioni a propria scelta di tempo l’attacco è facilitato in quanto la lama dell’attaccato è in una certa stasi spaziale; tuttavia questa stasi facilita anche l’impostazione della sua difesa col ferro.
Nelle azioni in tempo si riproduce la stessa situazione: l’attacco risulta più difficile perché il ferro avversario non è fermo in una posizione statica, ma l’attaccato a sua volta sarà anche lui in difficoltà, perché dovrà governare la sua lama quando è già in movimento.
Premesso che ogni stoccata che arriva in qualunque modo è ovviamente ben accetta, avventuriamoci per qualche istante sul terreno tattico dell’attacco.
Inutile dire che ogni colpo vincente costituisce un prezioso viatico per lo schermitore che è stato colpito: l’attaccante ha dovuto forzatamente rivelargli la sua formula magica vincente ed ora, a meno che ancora non sia uno schermitore minimamente evoluto, è in grado di prevedere questa tipologia di attacco e di approntare i giusti e necessari rimedi. In sintesi quindi un ovvio principio tattico: un attacco vincente è molto rischioso riprodurlo a breve, se si vuole ancora tentare la strada dell’attacco è necessario trovare nuovi sentieri tecnici.
Sempre in ottica tattica prendiamo in considerazione la casistica degli effetti dello sviluppo di un attacco, cioè del dopo attacco.
Si tocca, magari ci facciamo un urletto di sfogo e torniamo felici sulla linea di messa in guardia.
Oppure non si tocca e quindi la situazione in genere si sbroglia tornando subito il guardia e tentare di controparare l’eventuale risposta antagonista; ma non è detto, perché dopo l’esito negativo del nostro attacco dobbiamo obbligatoriamente relazionarci alle situazioni posturali spaziali reciproche con l’avversario, sia dell’intero nostro corpo sia del braccio armato.
E le possibilità non sono certo poche: talvolta, restando in affondo, siamo indotti a tentare una rimessa oppure un secondo colpo sul bersaglio opposto; talvolta, ma questo solo nella spada, possiamo chiudere l’avversario e impedirgli o rendergli comunque più difficoltosa la risposta (come sappiamo nei convenzionali fioretto e sciabola non possiamo farlo perché altrimenti saremmo sanzionati); talvolta, addirittura, se il nostro avversario para arretrando ma non risponde, possiamo tentare la strada di una ripresa d’attacco, azione di natura ausiliaria – talvolta, come ricordato poco sopra, potremmo avere fatto i supertattici ed essere caduti intenzionalmente sulla parata dell’avversario per poi premeditatamente e velocemente controparare e rispondere.
Ultima considerazione: l’attacco, inteso come categoria tecnica, può anche essere utilizzato tatticamente come esordio di una stoccata. Si pensi ad esempio a quando esso costituisce l’innesto del controtempo: nella spada fingo un colpo al piede, attendo l’allineamento del braccio armato dell’avversario a mo’ di arresto, effettuo poi una presa di ferro e finalmente vado a bersaglio.
A questo punto non posso non tacere di un utilizzo tecnico dell’attacco veramente stupefacente: parlo delle uscite in tempo, dove il concetto base è quello di costruire un colpo da vibrare sulle caratteristiche dell’attacco avversario; un vero e proprio attacco sull’attacco, basato, come ben sappiamo, ora su un anticipo tecnico o temporale a seconda delle specialità (colpo di arresto) – ora su un’elusione della ricerca del ferro da parte dell’antagonista (cavazione e/o circolata in tempo) – ora su una schivata (inquartata o passata sotto) – ora sulla deviazione della linea di offesa dell’attaccante (contrazione) – o quant’altro. Resta comunque la meraviglia tecnica: un attacco svilito da un altro attacco. Chapeau!
Addirittura l’attacco è utilizzabile a fini strategici; volete un esempio? Cosa fate sulla pedana se vedete che il vostro avversario vi mette una stoccata dietro l’altra con suoi ripetuti attacchi? Cercate di anticiparlo e prendete l’iniziativa voi? Risposta esatta.
A conclusione dell’argomento mi sembra opportuno parlare di attacchi particolari portati su specifici bersagli che non siano le canoniche sezioni del busto dello schermitore.
Nella sciabola il riferimento è alla maschera nella sua sommità, cioè alla cosiddetta testa. L’importante è richiamare l’attenzione sul fatto che, come abbiamo già affermato in un altro articolo correlato, l’unica parata che può presidiare questo particolare bersaglio è la parata di quinta e solo lei; ne consegue che in questo caso l’attacco gode di un privilegio unico nella tecnica schermistica: cioè in un’azione con finta alla testa non si deve porre il dubbio shakespeariano se l’avversario pari semplice o di contro, in quanto, lo ripetiamo, non c’alternativa alla parata semplice di quinta. E questo non è poca cosa. Tuttavia anche in questo caso vale la legge fondamentale del pro e del contro: se uno ha la disavventura di cadere sulla parata di quinta dell’avversario, non so chi lo possa poi salvare da una delle azioni più naturali e veloci che lo sciabolatore, in genere, possiede: la risposta di traversone.
Nella spada il riferimento è alle parti della gamba e al piede. Al triangolare, in quanto come sapete il bersaglio valido è tutto il corpo, è permesso anche …scendere in cantina e colpire nelle parti basse e bassissime, superfici che sono abbastanza esigue, ma che sono tra le più avanzate e quindi più vicine alla punta dell’attaccante.
Anche in questo caso però il vantaggio che si può ottenere scegliendo bersagli statisticamente più insoliti, va barattato col rischio che la dinamica posturale di questi colpi, dovendo abbassarsi totalmente la linea del braccio armato, esponga poi, in caso di esito negativo della stoccata, alla rappresaglia dell’avversario rimasto comodamente assiso in guardia.
A pensarci bene c’è un ultimo sguardo da dare all’attacco, quello che abbraccia il concetto di contropiede.
Notoriamente e in tanti altri sport, questa tattica si basa sul concetto di aggredire l’avversario nell’istante in cui si presume sia in grado di potersi difendere meno validamente. Nel calcio ci si chiude in difesa attirando tutti gli avversari verso la nostra porta, poi, all’occasione, si effettua un lancio lungo sperando in un guizzo del nostro centravanti. Ugualmente nella scherma, se si riesce a neutralizzare l’attacco che ci è stato portato, l’istante migliore per contrattaccare è proprio mentre l’antagonista sta tornando in guardia, in quanto sta interessando al massimo la sua muscolatura e deve ristabilire i nuovi equilibri posturali. La finestra temporale non è certo molto larga per ripartire, ma chi riesce a tirare questo tipo di colpo ha grossissime probabilità di successo.
A conclusione, permettetemi di frugare nella mia personale valigia dei ricordi: “L’attacco è come giocare a carte”, diceva un mio vecchio maestro (forse incallito giocatore): l’asso di briscola, il tre o il regio non si giocano subito e tutti insieme, chi sa giocare li cala solo al momento più opportuno e quindi più redditizio. Chi ha orecchi intenda.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2020
Scherma e attacco/difesa
Cosa si può fare sulla pedana? Attaccare l’avversario o difendersi dai suoi attacchi; queste sono le due macroaree in cui i due schermitori giocano le loro carte.
Due ambiti ben precisi e caratterizzati da elementi ben diversi.
Innanzitutto l’attacco è collegato alla volontà di colui che lo scatena, la difesa invece è un subordinato e doveroso atteggiamento di rimando.
In effetti la tempistica è tutta nelle mani di chi attacca: il la della frase schermistica è intonato all’improvviso dall’attaccante, l’attaccato in un brevissimo lasso di tempo deve avere la capacità di intonarsi alla nota.
Parimenti la modalità di attacco, ovviamente, è una scelta di chi attacca; l’attaccato deve necessariamente parametrare la sua difesa al tipo di offesa subito.
Anche il bersaglio scelto come destinazione del colpo è deciso dall’attaccante; chi si difende deve quindi necessariamente proteggere quel determinato bersaglio.
Queste brevi considerazioni, a una lettura veloce e superficiale, parrebbero attribuire all’utilizzo dell’attacco un invidiabile vantaggio rispetto alla difesa.
Poi, almeno nel fioretto e nella sciabola, ci si mette anche la Convenzione a stabilire la priorità dell’attacco nella ricostruzione della frase schermistica ai fini dell’attribuzione della stoccata.
…allora attacchiamo tutti a suon di carica!
A parte la situazione particolare (ne riparleremo tra breve) che si viene a delineare tra i bitaglienti, cioè nella sciabola, le cose non stanno precisamente così e prendiamo in considerazioni alcuni perché.
Come abbiamo appena elencato, l’attacco, se ben eseguito, può fruire dell’effetto sorpresa (il quando), del dubbio esecutivo (il come) e del dubbio destinazione (dove finisce il colpo); e non è poco!
La controparte, ovvero la difesa, è esposta a questa situazione e l’unico strumento che ha a disposizione, come ben sappiamo, è un’attenta vigilanza supportata soprattutto da un’adeguata misura che consenta, con margine sufficiente, il tempo di percepire l’inizio dell’attacco per poter organizzare un’acconcia difesa.
Ma esaminiamo ora da vicino quali sono i vantaggi della difesa.
Innanzitutto il demandare all’avversario tutto il da farsi, cioè il peso della congettura del colpo più adatto, in seguito la ricerca della giusta misura per l’attacco e dell’istante più propizio. Tutte attività queste che possono essere validamente contrastate: per esempio dare falsi segnali all’attività di scandaglio e, come sopra appena detto, tenere una misura lunga che metta in difficoltà l’aspirante attaccante.
In secondo luogo il poter dirimere nel tempo l’istante dell’attacco, almeno per quanto spazio residuo sussiste alle spalle dell’attaccato.
Ma il vantaggio più evidente della difesa consiste nel ventaglio di atteggiamenti tecnici di risposta che essa può assumere e questo in fiero contrasto con il principio di unicità dell’attacco: l’effetto sorpresa può essere sfruttato non solo da parte di chi attacca, ma anche e soprattutto da parte dell’antagonista.
Infatti ci si può difendere di misura, col ferro, insieme di misura e col ferro, ma anche con un’uscita in tempo: in pratica l’attaccante non sa mai al 100% cosa si troverà di fronte. Tuttavia più riuscirà a sorprendere l’avversario, più quest’ultimo avrà una reazione istintiva, proprio quella sulla quale si è programmato l’attacco.
Da quest’ultima constatazione facilmente si evince un altro concetto: l’importanza fondamentale di far scattare la propria iniziativa quando l’avversario è a un’appropriata misura. Il felice esito di un attacco, ovviamente supportato da un’adeguata esecuzione tecnica, poggia sul presupposto di avere la quasi certezza di arrivare sul bersaglio; prima dello scontro tecnico vero e proprio, quello più appariscente, c’è lo scontro, nascosto e pedante, per ottenere la miglior misura dal proprio punto di vista.
Ora dobbiamo affrontare alcuni argomenti particolari: quello relativo alle armi convenzionali in genere e quello che riguarda in senso stretto la sciabola.
Circa il primo, lo abbiamo poco sopra, vige per l’attacco il valore aggiunto di avere la precedenza in caso di ricostruzione dell’azione ai fini dell’attribuzione della stoccata. E’ una regola per dare ordine allo scambio delle stoccate che, se ci perdonate la similitudine con il codice della strada, si basa su una specie di senso unico alternato: prima l’attacco, poi l’eventuale risposta, poi l’eventuale contro risposta e così via …fino a quando uno si stufa e piazza un bell’arresto!
E’ una grande opportunità quella di avere la precedenza, ma, come sappiamo, ci sono delle regole da rispettare: prima dell’espletamento del colpo il braccio deve essere “naturalmente” disteso e la punta “deve minacciare un bersaglio valido”; che poi queste precondizioni vengano fatte rispettare sempre e in tutte le gare è un altro discorso (comunque non polemico) che riguarda la preparazione ed il livello degli arbitri.
Circa la sciabola è facilmente intuibile la predilezione assoluta per l’attacco; lo stesso testo ufficiale della nostra Federazione ne spiega le motivazioni nel primo capitolo: rispetto alle altre armi la difesa risulta molto più complessa per il fatto che la direzione delle stoccate non è solo di punta, ma anche di taglio, per di più in quest’ultimo caso la parata dovrà anche garantire una maggiore resistenza di ordine fisico; inoltre, ad esempio per il caso del bersaglio testa, c’è una sola parata di tutela di questo bersaglio (quella di quinta) e quindi le azioni di finta saranno facilitate rispetto alla duplicità reattiva nel caso di poter parare di tasto o di contro come in tutti gli altri casi.
Infine la considerazione circa l’attivazione della segnalazione della stoccata: mentre nel fioretto e nella spada la punta, già di superficie limitatissima, non solo deve raggiungere il bersaglio ma deve anche ancorarsi ed essere soggetta alla prescritta minima pressione, nella sciabola invece, quando il colpo è portato di lama, è sufficiente il solo contatto e il colpo è facilitato per il fatto che si può colpire con il ferro che in pratica è un segmento di alcune decine di centimetri.
Ecco perché, partendo lancia in resta, gli sciabolatori sono maggiormente portati all’attacco rispetto alla difesa ed ecco perché i cosiddetti tempi comuni sono sempre stati la piaga nei match di questa specialità.
A conclusione di queste righe possiamo porci l’ovvia domanda: quindi attacco o difesa?
Nella scherma non c’è nulla di definitivamente manicheo: ogni azione presenta vantaggi, ma anche svantaggi, si tratta solo di esserne consapevoli; a parte che uno schermitore evoluto deve essere uno schermitore completo e quindi deve saper sia attaccare che difendersi in ugual guisa: in effetti è abbastanza improbabile poter condurre un assalto solo attaccando o solo difendendosi.
Credo che la diatriba sopra accennata possa essere risolta soprattutto in chiave strategica e non solo tattica; in altre parole solo una saggia, oculata ed appropriata alternanza tra le due attività può produrre i frutti migliori, cioè la desiderata vittoria sull’avversario.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e camaleonte
Non è per scimmiottare Fedro né tantomeno Jean de La Fontaine , ma il cosiddetto regno animale fornisce perfettamente il prototipo di schermitore: il camaleonte.
Non è tanto la sua capacità di scomparire alla vista che lui ottiene mimetizzandosi con l’habitat in cui si viene a trovare; magari potesse imitarlo in questo lo schermitore! Qui a noi interessa sottolineare piuttosto la sua attitudine al cambiamento, la possibilità di modificare il suo essere.
Tutto nasce per il fatto che quando due schermitori scendono in pedana e si affrontano si realizza una specie di gioco ad incastro: i due contendenti si relazionano in primis con le loro caratteristiche fisiche, ma anche e soprattutto in quelle di natura tecnica; anzi le seconde fungono da vera e propria equalizzazione delle prime: ad esempio la misura si adatta al rapporto tra la lunghezza dei due bracci armati e alla derivata velocità di spostamento.
In un match il meno alto sei tu e quindi attui una certa condotta di gara; subito dopo risali in pedana e magari sei tu il più alto e la situazione quindi viene a ribaltarsi. Nel primo caso di solito sei il più veloce e quindi tendi a stringere ancor più misura se intendi attaccare; nel secondo caso invece, cambiando il presupposto, si inverte la geometria e tendi a non far avvicinare troppo il tuo antagonista. Se poi le altezze dei contendenti sono simili, la scelta dei parametri spaziali tende ovviamente a sovrapporsi.
In pratica ad ogni cambio di avversario lo schermitore deve essere pronto a registrare con diversa modalità la sua misura, adattandola alla situazione; deve essere in grado di mutare la sua pelle come il simpatico camaleonte.
Passando dal campo delle caratteristiche fisiche dei due contendenti a quelle di natura tecnica, si evidenzia ancora questa necessità di cambiamento repentino, sempre a buona imitazione del solito camaleonte: in effetti l’elaborazione della cosiddetta contraria, come ben sappiamo, è vincolata in modo assoluto alle peculiarità tecniche dell’antagonista.
Ad esempio, se congetturiamo di sviluppare un attacco composto, dobbiamo preventivamente verificare la tipologia di parata che andiamo a sollecitare con la nostra finta: se la parata sarà di tasto, allora dovremo utilizzare la cavazione per poterla eludere; se invece sarà di contro, dovremo ricorrere alla circolata.
Ma facciamo un altro esempio: se il nostro scandaglio evidenzierà una propensione dell’avversario a difendersi non con il ferro, bensì con un’uscita in tempo, dovremo necessariamente ricorrere non alla finta, quanto piuttosto ad un controtempo.
Maggiormente saremo oculati e precisi nel valutare le diverse necessità tecniche per giungere alla stoccata vincente, tanto più avremo ovviamente la possibilità di uscire vittoriosi dal match.
Ma c’è un’altra considerazione da fare: riusciti ad elaborare un colpo andato a buon fine, non possiamo subito reiterarlo nel tempo; ciò perché ogni colpo vincente, ma a dir il vero anche un colpo solo tentato, mette sull’avviso l’avversario e costituisce per noi un pessimo viatico. Riecco quindi il nostro sempre più affabile animaletto: dobbiamo elaborare un altro tipo di contraria che possa magari solo intervallare il nostro precedente colpo vincente.
Insomma nell’ambito tecnico lo schermitore deve cambiare, cambiare e poi cambiare ancora: oltre ai due casi sopracitati c’è l’infausto caso in cui una nostra stoccata non sia andata a buon fine perché neutralizzata dall’intervento dell’avversario e quindi il cambiamento si impone doverosamente.
Tutto quanto detto, naturalmente, ha valenza sia nell’ambito di un proprio attacco, ma anche di una propria difesa: quindi le tipologie di cambiamento di genere si sovrappongono a quelle di specie, rinnovando ed elevando a potenza le necessità di cambiare, cambiare, cambiare.
Trasferendoci ora nel mondo della strategia nulla cambia, anzi: un assalto, iniziato magari con una certa tattica, per un verso o per un altro non ha dato gli sperati frutti ed ora si tratta di dover inseguire nel punteggio l’antagonista. Saltati gli schemi iniziali, dobbiamo in corsa cambiarli velocemente con altri, andando doverosamente ad applicare schemi tecnici magari più complessi, ma sicuramente più garantisti, come ad esempio il filo, sia in attacco che in risposta, oppure con la supertrappola del controtempo. All’apparenza può sembrare un cambio tattico, ma proprio per la particolarissima natura dei colpi sopra ricordati il cambio nella sua più intima natura è di mentalità strategica.
Dall’altra parte della pedana si dovrà doverosamente ragionare di concerto: percepita la nuova situazione si dovrà reagire con una nuova mentalità: quindi parate di ceduta e soprattutto finta in tempo.
C’è un altro tipo di cambiamento obbligato che talvolta lo schermitore deve passivamente subire ed è forse uno dei più temuti: capita quando sulla pedana vedi che il tuo avversario è un mancino. Oggi il trauma, più psicologico che tecnico, è forse meno foriero di ansietà in quanto, finalmente, a scuola come a scherma nessuno più contrasta l’uso della mano sinistra, denominata sino a qualche decennio fa addirittura come mano del diavolo. Qui da un punto di vista tecnico il cambiamento è costituito da un vero e proprio ribaltamento speculare dell’avversario: il destrimane non trova più il ferro antagonista alla sua sinistra, ma alla sua destra, come del resto anche il bersaglio esterno; fortunatamente nulla cambia rispetto al bersaglio alto e basso, proprio come davanti ad uno specchio.
Il segreto è capire una cosa: rispetto ad una certa azione cambia solo il bersaglio; ad esempio sul destro la battuta di quarta e colpo porta la punta sul bersaglio interno, mentre sul mancino lo stesso tipo di azione porta invece sul bersaglio esterno o sul fianco. E’un bel cambiamento di spazialità, a cui ci si deve prontamente adattare.
Resta da esaminare quanto il tempo e lo spazio influiscano direttamente sul divenire del match.
Il tempo inizialmente non ha alcun significato particolare, ma poi, approssimandosi sempre più al suo scadere senza che uno dei due contendenti abbia raggiunto la vittoria, influisce non poco sui cambiamenti tattici: chi è eventualmente in testa può giustamente tentare di gestirlo al meglio per farlo scorrerlo indolormente, mentre l’antagonista deve darsi frettolosamente da fare; ma, se il punteggio dovesse invertirsi, si invertono le parti e quindi, almeno in teoria, gli atteggiamenti tattici.
Lo spazio, ovvero la specifica posizione occupata dai contendenti sulla pedana, non è condizionante; ma quando uno dei due si avvicina al suo limite posteriore, la tattica schermistica suggerisce l’adozione di particolari tipologie di azioni e quindi lo schermitore deve prontamente mutare il proprio modulo comportamentale.
Siamo alla fine di queste disquisizioni sui doverosi cambiamenti che lo schermitore deve avvicendare sulla pedana; inutile far osservare che non solo è importante essere in possesso della capacità tecnica di alternare il proprio assetto tattico, ma che è anche essenziale farlo nel minor tempo possibile; tutto ciò al fine di essere in grado di pilotare e indurre a proprio vantaggio (almeno teorico) tutto ciò che sta avvenendo e mutando sulla pedana.
A questo punto possiamo tranquillamente affermare senza possibilità di smentita che un assalto di scherma non è altro che lo scontro tra due camaleonti che, metaforicamente, cambiano continuamente il colore della propria tecnica: le maggiori probabilità di uscire vittorioso le avrà colui che più camaleonte saprà essere.
Insomma il celebre esempio delle acque che scorrono velocemente, utilizzato da Eraclito per illustrare il suo concetto filosofico del panta rei, potrebbe anche e meglio essere benissimo sostituito dai mutamenti continui che si verificano su una pedana durante un match, soprattutto se i contendenti si equivalgono. Da ciò si desume indirettamente che Eraclito non era uno schermitore!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e tempo
Per lo più si pensa al fluire del tempo come un semplice incremento oggettivo di una prestabilita unità di misura: passano i secondi, le ore, i giorni e così via.
Ma le cose non stanno precisamente in questi termini: chi si occupa scientificamente di queste problematiche afferma che sì siamo in grado di misurare il tempo e anche con grandissima precisione, ma ammette anche candidamente che molto più difficile è invece comprendere la vera natura e l’intima essenza di questo contenitore della storia.
Innanzitutto possono esserci particolari pulsioni soggettive a distorcere il significato del tempo: ad esempio Albert Einstein diceva che intrattenersi dieci minuti piacevolmente con una bionda non era come stare a sedere su una stufa accesa per lo stesso lasso di tempo! In effetti durante il match sulla pedana il tempo è percepito in modo diverso, anzi agli antipodi, tra chi cerca di gestire un vantaggio nel computo delle stoccate e tra chi invece deve velocemente recuperare.
Comunque ogni buon trattato di scherma concorda nell’indicare come elementi fondamentali della nostra disciplina il tempo, la velocità e la misura; poi però, probabilmente per le stringate esigenze espositive caratteristiche appunto del trattato, non approfondisce appropriatamente questi temi.
Ma la vera sorpresa si ha quando si esaminano le possibili sfaccettature che il semplice scorrere del tempo può assumere nelle diversissime situazioni che si possono verificare su una pedana: uno schermitore di una certa esperienza le può facilmente ritrovare in aspetti tecnici, tattici e strategici.
In prima battuta dobbiamo richiamare alla mente che il tempo, edulcorando la sua natura, assume la funzione di una vera e propria unità di misura dell’azione schermistica: così le azioni di attacco semplici sono configurate da “un tempo”, mentre le azioni di attacco composte sono configurate da “due tempi” (uno per la finta e uno per l’espletamento del colpo). Non a caso il Regolamento circa le armi convenzionali (fioretto e sciabola) non ammette in linea teorica il colpo di arresto su un’azione semplice, ammettendo invece il colpo di arresto su un’azione composta da una finta e addirittura due colpi di arresto su una doppia finta.
In seconda battuta, in caso di un attacco, non possiamo non pensare alla cosiddetta “scelta del tempo”, ovvero nell’utilizzo dell’istante più idoneo per dar inizio alla nostra determinazione contro l’avversario: in generale si tratta di saper approfittare dell’attimo in cui viene ad essere ridotta l’attività e la concentrazione dell’avversario; invece nello specifico quando ad esempio ci troviamo ad un’ottimale misura o il suo braccio armato è impegnato nella traslazione da un atteggiamento con l’arma ad un altro.
Il tempo può essere inteso anche come attesa: dopo aver recepito le opportune informazioni sull’avversario e aver rinvenuto conseguentemente la giusta azione da svolgere, si tratta poi di attendere la configurazione spaziale più idonea per svolgerla; in questo lo schermitore, per essere efficace al massimo, deve essere paziente.
Il tempo può coincidere con il cosiddetto istante: lo schermitore cerca di applicare al meglio questo aspetto del tempo quando ad esempio cerca di ritardare al massimo una sua parata, muovendo il suo ferro solo all’ultimo istante utile (magari per non cadere sotto l’effetto di una finta dell’avversario); oppure quando, avendo deciso di eseguire un’uscita in tempo, deve eseguire il proprio movimento tecnico risolutivo solo sul ristretto istante utile presente nel progredire della determinazione nemica (un anticipo o un ritardo inficerebbero tutta la sua contraria).
Il tempo, nella sua accezione più quotidiana, è anche durata: quindi il tempo in cui si riesce a sviluppare un attacco semplice (ovviamente il più breve possibile) – il tempo di reazione di una difesa col ferro seguita dalla risposta (anche in questo caso il più breve possibile) – il tempo come contenitore temporale del match e le sue possibili applicazioni strategiche (se in vantaggio, farlo scorrere senza conseguenze di punteggio) – il tempo come limite entro il quale incorrere nell’infrazione di scarsa combattività con le relative conseguenze (preferenza di giocarsi il tutto in un tempo più ristretto).
Il tempo si può intendere anche come intervallo: tra assalti del girone all’italiana (con riguardo ai problemi di riscaldamento preagonistico) – tra turno e turno di una gara (stessi problemi con interruzioni temporali diverse) – tra le diverse frazioni dell’eliminazione diretta (con riguardo a problemi di analisi tecnica e carica mentale con l’aiuto del maestro) – tra stoccata e stoccata (capacità di verifica e di conduzione ottimale del match).
Il tempo è anche anticipo: allo schermitore vengono in mente tutte le azioni che hanno la funzione di decostruire la determinazione d’attacco dell’avversario, con in testa il colpo d’arresto.
Il tempo è ritmo: lo schermitore può basare un match su una pressante continuità di attacco; il tempo è stasi: si può tacitamente concordare una fase di minore belligeranza magari aumentando di comune accordo la misura (comunque l’arbitro vigila e può decretare l’infrazione di scarsa combattività!); il tempo è esordio: occhio alle prime stoccate che ci si giocano, perché potrebbero condizionare tutto il match (soprattutto nella spada con il suo colpo doppio) – il tempo è preparazione: il traccheggio ne è il più chiaro esempio con i suoi mendaci movimenti del braccio armato e dell’intero corpo; il tempo, infine, è recupero: colmare un divario di stoccate con l’avversario è possibile, ma la cosa non può essere casuale, qualcosa di tecnico deve effettivamente girare durante l’incontro.
Dopo queste poche righe sicuramente il tempo, anche nella scherma, non può più essere percepito come semplice e monotono spostamento delle lancette sul quadrante dell’orologio; chi volesse approfondire queste tematiche può farlo andando sul sito alla rubrica LIBRI DA SCARICARE : Il tempo e lo spazio nell’assalto di scherma; oppure andando alle rubriche MICROSCOPIO TECNICO e AUDIOSCHRMA 1 e 2.
M° Stefano Gardenti
a Firenze aprile 2018
Scherma e colpo doppio
Nell’aggiudicazione della stoccata da parte dell’arbitro c’è un unicum, una specie di pareggio, il cosiddetto colpo doppio.
La cosa riguarda, come ben sappiamo, solamente gli spadisti, i famosi triangolari, che derivano questo loro curioso soprannome dalla sezione appunto triangolare della loro lama.
Questa situazione non è frutto di una scelta tecnica, bensì di un’esigenza pragmatica, il cui motivo è presto trovato: siccome nella specialità della spada l’unica norma che regola l’attribuzione del colpo è quella che si riferisce alla precedenza temporale, giocoforza è prendere in considerazione il fatto che le due stoccate possano colpire nello stesso preciso istante, almeno nell’intervallo concesso dalle applicazioni della tecnologia. Il lasso di tempo stabilito dal Regolamento della Federazione Internazionale, com’è noto, è compreso tra……..
Ed ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, è verificabile la distonia esistente tra reale e percepito, come se l’oggettività del trascorrere di una porzione di tempo potesse essere messa in dubbio: se non ci credete impugnate la parte terminale della lama di due spade collegate alla segnalazione automatica e cercate di schiacciare le due punte non in contemporanea, ma ricercando una minima distonia temporale: il più delle volte non riuscirete a causare la doppia accensione.
Eppure sulla pedana i colpi doppi, anche non espressamente ricercati, costituiscono statisticamente una significativa percentuale del punteggio finale. L’intervallo temporale entro il quale si produce il colpo doppio appare quindi meno esteso di quello che invece è in realtà.
Comunque lascio volentieri al paziente lettore la spiegazione (forse non spiegabile) di questa specie di cabala schermistica.
Una prima osservazione, per quanto ovvia, può essere quella che mette in risalto la potenziale valenza tattica del colpo doppio: il linea teorica (ma forse non troppo) lo spadista che mette una prima stoccata singola può arrivare al successo finale mettendo dopo solo colpi doppi; ovviamente sarà più facile in un assalto del girone preliminare a cinque stoccate che non in quello di eliminazione diretta a 10 o addirittura a 15.
Addirittura i maestri di un tempo, quando vedevano che l’allievo metteva la prima stoccata, gli urlavano che in pratica era già fatta; comunque personalmente, passando da allievo ad insegnante, mi sono doverosamente astenuto dal perpetuare questi miti!
Tuttavia un ragionamento connesso: se in sede regolamentare si è deciso non di annullare il colpo segnalato come doppio, ma invece di ripartirlo in termini di punteggio, significa che il legislatore sportivo additava proprio questa potenziale tattica. D’altra parte nel fioretto e nella sciabola, notoriamente armi convenzionali, le tessere del mosaico per raggiungere la vittoria si conquistano invece necessariamente apponendole una ad una.
Quindi uno spadista di un certo livello deve essere in grado di utilizzare questa presunta scorciatoia per giungere alla vittoria finale nel match, nel senso che i colpi doppi non devono generarsi casualmente, ma, possibilmente, essere il frutto di certe ambientazioni tecniche volute e perseguite. Diciamo con altre parole che il triangolare che si trova in vantaggio di una o addirittura più stoccate (e il discorso tanto più vale quanto più ci si avvicina al raggiungimento del numero finale delle stoccate regolamentari) non ha più una sola opzione tecnico-tattica, ma ne ha due: quella della stoccata singola e quella della stoccata condivisa.
Ovviamente non c’è nessun obbligo di nessun tipo a tirare il colpo doppio e magari, se uno tenta questa strada indotto dai consigli di qualcuno e non tocca, poi inveisce contro se stesso. Ma questo è un falso problema: il colpo doppio o si sa o non si sa tirare e il fatto che una stoccata non tocchi lo schermitore lo deve sempre prendere in considerazione, almeno statisticamente. Offriamo questa similitudine per farci capire meglio: come detto appena sopra, per giungere alla vittoria c’è una strada normale, quella della stoccata singola; ma c’è anche una scorciatoia per giungerci prima.
Tutto ciò premesso cerchiamo ora di analizzare quali parti della tecnica schermistica sono le più convenienti per creare le ambientazioni più idonee al colpo doppio.
Il principio di partenza è sicuramente quello di ricercare le azioni più semplici, cioè quelle composte dal minor numero di spostamenti della lama: in effetti più si distoglie la punta dal bersaglio più si rischia di non impattarlo.
E, a proposito di bersaglio, è di prammatica scegliere quello grosso, cioè quello rappresentato dal tronco del corpo dell’avversario: in questa particolare situazione tecnica l’imperativo categorico, che ovviamente vige anche nel tirare le singole stoccate, è toccare comunque e una superficie maggiore da più ampie garanzie; del resto, se si tirasse il colpo ai bersagli avanzati, si cercherebbe un vantaggio spaziale che caratterizzerebbe la ricerca del colpo singolo e non di quello doppio.
Se sintetizziamo quanto appena detto, otteniamo che, per cercare di spartite la stoccata, lo spadista deve tirare un colpo dritto al bersaglio grosso dell’avversario.
La dinamica dell’azione può essere duplice: attaccando o intervenendo sull’attacco dell’antagonista.
Nel primo caso si tratta di valutare due elementi: innanzitutto il rapporto tra la lunghezza del proprio braccio armato e quella dell’avversario; in questo si deve tenere in giusto conto anche il tipo di manico utilizzato, se anatomico e quindi fisso oppure francese e quindi allungabile. In secondo luogo si deve prevedere, tramite la conoscenza pregressa o l’attività di scandaglio, la reazione spontanea difensiva dell’antagonista: il colpo doppio può essere tirato solo se la sua tendenza è quella di arrestare; se invece egli para, il colpo doppio non è configurabile e tutto si risolve in azione semplice di attacco con eventuale parata e risposta. In sintesi si tratta quindi di scegliere il momento più opportuno ed effettuare una frecciata alla massima velocità possibile.
Nel secondo caso, quello in cui è l’avversario ad attaccare, l’alea dell’azione è minore in quanto per giungere alla spartizione del colpo si tratta solo di tirare sul tirare dell’avversario. In questa situazione tecnica massimo valore assume sia la scelta del tempo, sia la determinazione con cui si vibra la stoccata.
Visto che ci siamo, per ossequio al concetto di alternanza prospettica (la tecnica schermistica è un vero proprio gioco di puzzle tra i due avversari), analizziamo ora il comportamento di colui, che, appunto in svantaggio di punteggio, teme che l’avversario utilizzi contro di lui la tecnica del colpo doppio.
Ovviamente anche in questo caso si prospettano due dinamiche: o attacca l’avversario che è in vantaggio o attacca colui che deve recuperare.
Nel primo caso è assolutamente da evitare il colpo d’arresto in quanto l’antagonista punta proprio su questa configurazione la sua chance di colpo doppio (come nell’altro caso si tratta naturalmente di valutare eventuali macroscopiche differenze di lunghezza del braccio armato); la necessità di non rischiare induce a parare tale colpo d’attacco e rispondere anche di filo, sempre a maggior garanzia del colpo singolo.
Nel secondo caso l’attacco di colui che è in svantaggio deve essere portato di controtempo, azione che appunto, come ben sappiamo, è basata sulla presunta uscita in tempo dell’avversario. Ogni altro tipo di azione di attacco, semplice o composta che sia, espone al tentativo di colpo doppio dell’antagonista.
Questa è la teoria, spero ben esposta; poi c’è la realtà: si tira il colpo doppio e invece tocca solo l’avversario – si tira il doppio e invece colpiamo solo noi – si tira il colpo doppio e …finalmente si accendono entrambe le luci; cose da esperto spadista!
La realtà, comunque sottostà ad un’altra entità, la statistica: è facilmente comprensibile che se si cerca di tirare il colpo doppio quando si è in vantaggio di punteggio, naturalmente a condizione che lo si sappia tirare bene, statisticamente si hanno più probabilità di uscire vittoriosi dal match.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 20219
Scherma e concetto di relativo
Ciò che, a mio parere, rende veramente entusiasmante ed eccitante la scherma è la relatività di cui è permeato ogni confronto sulla pedana.
Mi spiego: nella nostra disciplina non si hanno tempi, misure in lungo o misure in alto, che rappresentano i limiti personali, limiti che ovviamente non garantiscono nulla prima dell’inizio della competizione, ma che pur tuttavia non possono non essere tenuti in una certa considerazione dai concorrenti.
Nella scherma invece regna incontrastato in concetto di relativo: ad una gara A batte B, ma tranquillamente nella successiva B può battere A; talvolta in una stessa competizione in due successivi assalti il vincitore può non essere lo stesso; poi, se A batte B e B batte C, non è assolutamente detto che A batta C; infine sulle nostre pedane non è raro che un outsider riesca a battere inaspettatamente un medagliato pluricampione .
In effetti la nostra disciplina, se mi passate l’espressione, non è altro che un grande puzzle: io faccio questo e tu puoi, anzi devi, trovare l’incastro tecnico giusto per ingabbiare la mia mossa e colpirmi a tua volta; e questo dialogo tra di noi prosegue sino a quando uno di noi due sbaglia nei tempi o nei modi; non per nulla si parla di contraria.
Non è secondario un altro fattore rispetto a tante altre discipline, diciamo così, più esatte: la competizione non si esaurisce in un unico episodio, ma si sviluppa in una successione di più eventi, le singole stoccate, che, come sappiamo, possono essere in funzione della formula di gara sino alla quinta oppure sino alla quindicesima, salvo le limitazioni derivanti dallo scadere del tempo regolamentare. Accade così che il dialogo tecnico tra i due contendenti possa mutare di volta in volta; anzi chi è in svantaggio ha ovviamente l’obbligo di cambiare le carte in tavola per cercare di ribaltare la situazione e trovare la strada che lo porti alla stoccata vincente.
Ma, pensandoci bene, la necessità di variare il fraseggio schermistico ce l’ha anche colui che è riuscito a toccare: in effetti, se non diversificasse o almeno alternasse nel tempo i suoi colpi, l’avversario potrebbe costruire appunto sul dejà vu una sua facile contraria. L’esigenza quindi di novità è assolutamente d’obbligo, almeno nei match di un certo livello tecnico.
Ecco perché sulla pedana, in genere, si alternano dalle due parti colpi diametralmente opposti: la difesa o l’attacco – un attacco semplice ovvero diretto o un attacco composto ovvero con finta – una parata semplice o una parata di altra natura – un attacco o un contrattacco e così via.
Un altro motivo che sta alla base della relatività dei colpi in argomento risiede anche e, forse soprattutto, in un altro fattore: dato un atteggiamento o un’iniziativa, non esiste una sola tipologia di contrapposizione tecnica, ma in vari casi ci sono molte opportunità diverse. Così ad un attacco, com’è noto, ci si può opporre non solo con la difesa col ferro, ma anche con la difesa di misura, per non parlare delle uscite in tempo. Così la seconda intenzione, il controtempo e la finta in tempo possono intervenire a manomettere certe situazioni in cui si intuiscono le intenzioni dell’avversario.
Tutti questi potenziali rapporti vengono poi esaltati e proiettati in una successione matematica di natura geometrica se si pensa a tutte le categorie tipologiche che possono confrontarsi sulla pedana: diversa costituzione fisica, diverso carattere, diversa scuola schermistica, addirittura, ad esempio nella spada, diverso tipo di manico.
La stessa strategia può intervenire a mutare certe situazioni tattiche: un vantaggio o, di per contro, uno svantaggio oppure l’approssimarsi dello scadere del tempo regolamentare sono tutti elementi che non possono non venire a turbare un normale dialogo tra le lame dei due contendenti.
Ma torniamo alla pura tecnica; lo schermitore non ha mai certezze, ma solo indizi sui quali poter costruire le sue stoccate, indizi ricavati o da una preconoscenza storica dell’avversario o da un’oculata operazione di scandaglio: chi mai potrà rassicurarlo, alla vigilia di un’azione composta, sul fatto che l’avversario persevererà, come tutto fa presumere, nell’eseguire una parata semplice e invece non si rifugi in una di contro; chi mai potrà rassicurarlo, laddove decida di effettuare un’uscita in tempo, che l’avversario non marci malignamente in controtempo? Nessuno! Mai nessuno è in grado di poter leggere la cabala schermistica e, diciamolo tra di noi, ecco perché la nostra disciplina è così affascinante; per poter toccare è necessario andare a vedere, come nel gioco del poker.
Mettete tutte queste osservazioni di cui sopra in uno shaker e, anche se non agitate bene, la considerazione è ovvia: nella scherma tutto è relativo; panta rhei direbbe, molto filosoficamente, Eraclito di Efeso; sono le stringhe della teoria dei quanti direbbe il fisico Carlo Rovelli.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel settembre del 2019
Scherma e dissimulazione
Se si consulta un vocabolario alla voce dissimulare, testualmente troviamo: Evitare di far trasparire dall’aspetto o dal comportamento le proprie intenzioni, emozioni o reazioni; ovviamente la dissimulazione ne è diretta figlia.
In questa sede non ci interessa tanto il suo ambito tecnico, in quanto della finta propriamente detta ne abbiamo parlato largamente altrove; quindi niente finta o doppia finta nelle loro più svariate evoluzioni spaziali.
Il concetto di dissimulazione sul quale intendiamo qui concentrarci si riferisce soprattutto al comportamento generale dello schermitore, prima di salire sulla pedana, quando sopra ci combatte e infine quando ne discende.
Nella prima ottica, a prescindere dai tratti caratteriali più o meno tendenti all’ansietà che ognuno di noi possiede, è importante comunque capire che nell’anticamera dello scontro è opportuno attuare dei comportamenti dissimulatori, sia nei nostri confronti, sia rispetto all’avversario.
In effetti dobbiamo ricercare la concentrazione e in questo ognuno di noi ha elaborato nel tempo proprie originali metodologie e magari propri atteggiamenti scaramantici: tutto quello che serve va utilizzato e non demonizzato. Osservare l’avversario ancora da affrontare durante il girone di esordio all’italiana oppure richiamare, se di caso, i ricordi tecnici di pregressi scontri durante l’imminenza di una fase di eliminazione diretta, non solo è utile ed importante di per sé, ma, tramite la ricerca della concentrazione, permette di attuare indirettamente un atteggiamento dissimulatorio rispetto alla naturale tensione dell’istante. Una corsetta leggera, un paio di scatti veloci, una deambulazione magari a velocità ridotta e qualche affondo controllato …tutto serve a caricarsi e a distrarsi in modo positivo.
Quando risuona la chiamata sulla pedana è necessario essere pronti fuori e dentro: qualche maestro amante della fantascienza potrebbe dire che dobbiamo far sì di percepire la nostra forza, alla stregua di Luke Skywalker di Guerre Stellari! Quello che comunque è essenziale è dissimulare qualsiasi comportamento o atteggiamento che faccia percepire all’avversario qualche eventuale residuo di tensione da parte nostra; non dico di evitare di inciampare salendo sulla pedana o di non far tremare il proprio ferro quando prima dell’a-voi si prova l’efficacia delle armi …ci mancherebbe solo questo! Comunque, se di caso, dobbiamo controllarci al massimo e ricordare quello che mi diceva un mio vecchio maestro: Abbi pure paura quando ti chiamano in pedana, ma fanne di più all’avversario; quando saluti con l’arma guardalo dritto negli occhi e non rifuggire il suo sguardo, magari non serve a vincere l’assalto, ma una stoccata in più questo atteggiamento te la fa certo mettere! E, secondo me, non diceva male, perché la sicurezza di sé forse pochi l’hanno come naturale carisma, ma molti se la possono costruire volta per volta con grande impegno e costanza.
Poi, calata la maschera sul volto, lo schermitore diventa tecnicamente un potenziale dissimulatore: fa le finte nelle azioni di attacco composte, finge di parare e poi invece esce in tempo, finge di attaccare nell’esecuzione del controtempo, finge di uscire in tempo nella finta in tempo; insomma tutte cose che fanno impallidire Ulisse, noto e affascinante tessitore di inganni, come quello del cavallo, magistralmente costruito dal mastro d’ascia Epeo. Ma questo è un argomento che, come abbiamo specificato in apertura, qui non c’interessa.
Parliamo piuttosto di cosa può avvenire nel corso dello scontro con l’avversario: se va tutto bene e tocchiamo, tutto bene; ma, se invece, la sorte non ci arride, ecco che talvolta ci arrabbiamo con noi stessi e a gesti e parole cominciamo a manifestare la nostra contrarietà. Non farlo mai, diceva sempre il maestro di prima, perché in questo modo l’avversario si carica positivamente di quanto negativamente cerchi di scaricare tu. Ed anche in questo caso la situazione non ha bisogno di alcun commento: completamente controproducente è il tormentarsi una coscia con i pugni o emettere alti lai, senza imprecazioni perché altrimenti ci si becca anche un cartellino. Ecco che riappare l’ormai famosa dissimulazione: tutte le energie generate dalle contrarietà è necessario tentare, dico tentare perché poi non è facilissimo il farlo, è necessario dicevo tramutarle in maggiore impegno fisico e mentale, come se fossero delle provocazioni che ti caricano invece di crearti confusione e quindi nocumento.
E cosa dire poi quando l’origine dei nostri mali risiede nel giudizio dell’arbitro: una sua ricostruzione errata almeno secondo il nostro disinteressatissimo parere (!), una sua valutazione personalizzata del limite temporale dato al comando alt o quant’altro ci appare (e magari lo è) un vero furto, quasi un’offesa personale. E allora? Qui sì che la dissimulazione deve essere massima: discutere con l’arbitro non ha mai portato a nulla; a meno che la gara non sia di un certo livello e allora puoi invocare il VAR schermistico, ma in molti casi non basta nemmeno questo. Tra l’altro far trasparire il proprio dissenso con calma e signorilità talvolta può invece colpire nel segno: l’arbitro non può che apprezzare questo comportamento e nel caso di una successiva stoccata un po’ dubbia …chissà? (metodologia molto Machiavellica!).
In consuntivo quindi un redditizio e signorile self – control, dissimulando dissimulando e dissimulando ancora, è senz’altro il migliore dei modi per affrontare le avversità durante lo sviluppo del match; troppe volte clamorose manifestazioni di rabbia testimoniano un’instabilità interiore, che invece è notoriamente una delle migliori virtù che uno schermitore possa costruirsi nel tempo.
Arriva infine l’istante in cui si deve scendere dalla pedana, dopo che lo scontro ha emesso il suo inappellabile verdetto.
In caso di sconfitta è veramente ridicolo continuare a protestare e abbandonarsi a gesti di stizza; anche perché ciò è assolutamente ininfluente nel corso della storia e serve solo ad inquinare la propria reputazione nell’ambiente.
Nondimeno anche in caso di vittoria è conveniente una certa dose di dissimulazione, magari poca poca. E’ vero che al giorno d’oggi, con l’attuale professionismo o come comunque vogliate chiamarlo, una vittoria sottende anche valori che prevaricano l’aspetto puramente sportivo; tuttavia certe libertà di manifestazione di gioia andrebbero un po’ limitate: se continuiamo così certe urla faranno crollare il tetto ai palazzetti, balzi e acrobazie colorate a parte! Veri attacchi isterici che i più benevoli giustificano come necessità di scaricare la tensione accumulata nella disputa della stoccata; in verità, se così fosse, dovrebbe anche urlare, magari forse di più, chi risulta toccato. Assistere a manifestazioni di gioia non solo è piacevole, ma condividi anche inconsciamente quella carica di positività; tuttavia quando vedi prevaricare certi limiti, spostandoli anche molto più in là dei tuoi, avverti la mancanza di una certa gradazione di dissimulazione dei sentimenti, un lasciarsi proprio andare senza alcuno stile. Quando hai l’occasione di osservare certe fotografie che immortalano certe espressioni alterate del viso dell’atleta vincente, non puoi fare a meno di metterle in relazione all’intima essenza della nostra Disciplina, che, neanche a dirlo, si basa sul combattere e guerreggiare, ma anche sul portamento, sullo stile, e soprattutto sul rispetto dell’avversario.
Prima del congedo, soprattutto riguardo all’ultimo aspetto esaminato, una doverosa precisazione: la dissimulazione ovviamente non deve portare all’atarassia ovvero alla totale imperturbabilità dell’animo tanto perorata dagli epicurei e dagli scettici; lo schermitore che lotta e combatte sulla pedana non può e non deve essere una fredda macchina da guerra, non sarebbe più un uomo; lo schermitore deve essere invece la proiezione dell’uomo migliore: sì efficiente e coriaceo guerriero, ma anche atleta equilibrato e degno di essere additato dai più come esempio di comportamento.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e geometria
“Nella scherma tutto è geometria, lo dice anche Euclide”, mi disse un maestro nel corso di una lezione; io non replicai, perché quando ero giovane i maestri in genere si potevano solo ascoltare e difficilmente interloquire con loro. Euclide lo conoscevo già per almeno due suoi teoremi che stavo appunto studiando al liceo, ma non sapevo che facesse scherma! Tornato a casa consultai anche l’enciclopedia UTET (il Wikipedia dell’epoca), ma non trovai nulla …dopo tanti anni ho capito da solo a cosa alludesse il mio vecchio maestro e ora cerco di spiegarlo in questo mio articolo.
La scherma è un’attività che si svolge nel mondo dell’oggetto e quindi, come tutte le altre attività pragmatiche, sottostà alle leggi della Geometria; appunto “Tutto è geometria”.
Cominciamo con le armi che impugniamo: le lame sono dei segmenti, le punte (a parte il simpatico ricciolo della sciabola) sono piccoli cilindri, le cocce (solita sciabola a parte) sono delle porzioni di sfera.
Anche nei cosiddetti fondamentali troneggiano riferimenti ed estremi di natura geometrica:
Nella guardia: piedi ad angolo retto, ginocchia perpendicolari ai piedi, busto inclinato di 35°, linea delle spalle parallela al suolo.
Nell’affondo: braccio armato naturalmente disteso in linea retta, sempre piedi ad angolo retto, spalle allineate e parallele al suolo, colonna vertebrale perpendicolare al suolo.
Addirittura dove la mano impugna il manico si parla di angolo al polso.
Geometria nelle teoriche linee guida: linea direttrice parallela ai bordi laterali della pedana e misura intesa come segmento che separa i due combattenti sulla pedana.
Sempre geometria nell’attacco: linee d’attacco rettilinee, a spirale (nella cavazione), curvilinee (nel fuetto), a quarto di cerchio (nella cavazione angolata o coupé che si dica), cerchio completo (nella circolata e nel molinello di sciabola), ma pur sempre linee. Nelle azioni composte il cammino della punta descrive complesse ed affascinanti linee spezzate miste
Ancora geometria nella difesa: parate semplici in linea retta, addirittura una parata denominata di mezzo cerchio, parate di contro descriventi con la lama un cono, parate di mezza contro con traiettoria semicircolare.
Verrebbe da dire che sfogliando con un po’ di distrazione un trattato di scherma lo si potrebbe benissimo scambiare per una riedizione dei celeberrimi Elementi di Euclide!
Ma in realtà non c’è da stupirsi in quanto la geometria è uno studio sistematico dello spazio e delle sue misure e la nostra disciplina sportiva è appunto tra quelle più reali.
La prima considerazione è che le precise e specifiche terminologie della Geometria sono di vitale importanza per la stesura degli stessi trattati di scherma: il linguaggio universale e incontrovertibile della scienza permette l’ottimale illustrazione delle varie posture e dei vari colpi, sia d’attacco che di difesa. L’ambientazione geometrica della tecnica conferisce oggettività al messaggio magistrale.
Una seconda considerazione è quella dell’utilità della Geometria nella didattica: un bambino viene oggi messo in guardia con il sistema globale, cioè invitandolo a “copiare” l’esempio dell’insegnante; ma ad un ragazzo, diciamo della scuola secondaria di primo grado, si può e, a mio parere si deve, cominciare a parlare anche di scherma utilizzando terminologie mutuate dalla Geometria. La comprensione diverrà senz’altro più logica e l’introiezione dei dati più profonda. Sia sufficiente pensare, come esempio, al risparmio di tragitto e quindi, a parità di velocità, di tempo della cavazione effettuata direttamente sul bersaglio tramite spirale in avanti rispetto al movimento semicircolare della punta con successivo avvicinamento rettilineo sul bersaglio stesso.
Tra l’altro, agendo in tal modo, contribuiremo sicuramente ad aiutare la crescita globale del ragazzo, facendo interagire proficuamente il mondo soprattutto teorico degli studi scolastici con il mondo reale, nella fattispecie di una prestazione sportiva.
Una terza considerazione è che la Geometria consente allo schermitore di orizzontare meglio nello spazio il suo corpo e/o parti specifiche di esso e, magari osservandosi dopo una prestazione sulla pedana in un video, poter utilizzare coordinate tipo “parallelo al”, “perpendicolare al” o simili per cercare di apportare al proprio assetto una maggiore correttezza posturale.
A questo proposito vorrei ribadire un importantissimo concetto che ho espresso in altre occasioni.
Chi scrive un trattato di scherma, per necessità, deve essere un pragmatico, ovvero deve fornire tutta una serie di precise indicazioni al lettore affinché, una volta ossequiate, possa essere il più efficace possibile sulla pedana contro il proprio avversario. Lungi da lui cedere a lusinghe estetiche, che del resto, oltre ad essere difficilmente individuabili, non aggiungerebbero nulla di utile alla potenzialità dello schermitore combattente.
Quindi uno schermitore “bello” null’altro è che uno schermitore che si attiene ai canoni prescritti per ottenere la massima funzionalità; funzionalità che è la risultanza di indotti principi di Geometria mescolata a dovere con i principi della Fisica.
Precisato tutto questo, mi raccomando quindi, quando andate in sala, di controllare attentamente che nella sacca delle armi ci siano squadre, riga, compasso e l’immancabile goniometro!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel marzo del 2019
Scherma e gestione assalto
Uno schermitore può essere forte in attacco, può esserlo in difesa e anche in entrambi i fronti, ma il vero valore aggiunto alla sua caratura tecnico – tattica globale non può non risiedere nella sua capacità di gestire l’assalto.
In effetti sono tre le dimensioni di un match schermistico: la prima attiene alla tecnica, che è un vero e proprio mondo delle idee platonico, un mondo fatto di spostamenti del corpo e del braccio armato, un mondo ricco di circonvoluzioni delle lame; la seconda riguarda la tattica, che altro non è che la trasposizione della pura tecnica nella dimensione reale fatta di spazio, tempo e soprattutto di relazione con l’attività dell’avversario, dimensione nella quale si elabora la famosa contraria per cercare di realizzare la stoccata vincente; la terza è costituita dal fine escatologico di portare a casa la sospirata vittoria.
Queste sono le tre doti che lo schermitore per carisma e/o per allenamento deve saper gestire al meglio: il risultato finale di un match dipende dal rapporto tra questi tre valori che si riesce ad esprimere nello svolgimento dello scontro sulla pedana.
Sono tutti valori ugualmente fondamentali, torno a dire interdipendenti, ma, mutuando dal diritto romano quel magnifico concetto del primus inter pares, direi che la strategia ha, rispetto alla tecnica e alla tattica, un valore aggiunto.
I maestri, appena i propri accoliti sono ritenuti idonei, lanciano sempre un preciso messaggio: Gestisci al meglio l’assalto.
Il primo pensiero va alla classica situazione in cui uno dei due schermitori è in testa, per cui, approssimandosi la fine del tempo regolamentare, cerca appunto il miglior alleato nel suo scorrere indolore.
Un’altra situazione topica è quella caratterizzata dal fatto che uno dei due contendenti ha messo alle corde l’altro, ovvero cerca di spingerlo al di là del limite posteriore della pedana con l’effetto sperato che conosciamo.
Queste indubbiamente sono le due situazioni più plastiche che caratterizzano la capacità di gestione del match; ma di esempi ne possono essere fatti altri.
Uno consiste nell’importanza che deve essere data alla prima stoccata: ovviamente e statisticamente non è che vinca sempre colui che riesce a piazzarla, ma, a ben pensare, partire col piede giusto dà un certo tipo di vantaggio, pur esiguo, e lo dà sia da un punto di vista psicologico, sia tecnico. L’importanza di passare poi magari al due a zero la lascio pure alla vostra valutazione!
Quello che è certo che le stoccate non contano solo di per sé, ma anche per altri fattori: ovviamente in relazione a quelle dell’avversario, all’istante del tempo cronometrato in cui si piazzano e addirittura come si piazzano, perché un colpo ben tirato è innegabile che vada a stimolare e ad eccitare il proprio ego, caricandolo di particolare energia.
Un altro esempio di gestione dell’assalto può essere quello determinato dalla capacità di cambiare gioco: sino ad un certo punto si è deciso di attuare una certa tipologia di colpo, ma, visto l’esito insoddisfacente o addirittura negativo di questa condotta, dobbiamo essere in grado di cambiare modulo al nostro gioco per tentare nuove strade tecnico – tattiche.
Un altro esempio ancora: dovendo incontrare un avversario sulla carta molto più forte di noi, invece di pianificare un normale scambio di stoccate, è possibile tentare di attuare una tattica dilatoria nel tempo, al fine di sortire l’effetto di diminuire il tempo regolamentare e quindi cercare la vittoria su un numero minore di stoccate rispetto a quello consueto (scarsa combattività); in effetti alla distanza l’antagonista avrebbe più probabilità statistiche di vittoria.
Continuiamo: se l’avversario realizza una veloce serie di stoccate a suo favore è necessario spezzare il suo ritmo; quindi c’è sempre un stringa di una propria scarpa che si sta allentando, un capello che ti finisce in bocca o altri sotterfugi, che rappresentano non aperte violazioni del Regolamento, ma piccoli trucchi al limite della legittimità per utilizzare il tempo come rallentatore degli eventi.
La stessa cosa vale dopo una prolungata fase convulsa del match, che magari richiede, come si dice, di tirare il fiato; è solo una manciata di secondi, ma meglio poco che nulla.
Un altro esempio può riguardare l’arbitro: se si verifica la sua propensione a non dare valore alle nostre uscite in tempo, allora è inutile e controproducente continuare a congetturarle e a realizzarle; è necessario invece cercare di elaborare un’altra specie di tipologia difensiva. Per contro, se invece l’arbitro tende ad apprezzare le uscite in tempo, allora conviene metterle in preventivo e realizzarne il maggior numero possibile.
La gestione dell’assalto riguarda anche le decisioni che attengono le proprie scelte tecniche.
Innanzitutto, realizzato un certo tipo di colpo, che poi sia andato o meno a buon fine, non si può immediatamente ripeterlo in quanto dobbiamo considerare il fatto che l’avversario ne ha preso certamente buona nota. E’ necessario quindi far trascorrere un certo periodo di tempo prima di poterlo reiterare con buone possibilità di successo.
Similmente, eseguito un certo tipo di parata su un attacco, è buona regola congetturare di non ripeterlo consecutivamente in quanto l’avversario potrebbe costruirci agevolmente sopra un suo attacco composto.
Altro caso; se avvertiamo che l’antagonista sta utilizzando lo scandaglio per sondare le nostre reattività difensive, cerchiamo di resistere ai nostri impulsi spontanei e forniamogli invece false informazioni come nei migliori film di controspionaggio: ad esempio fingiamo in un primo momento di parare, per poi effettuare nella vera azione un’acconcia uscita in tempo.
Sempre nell’ambito della tecnica: l’utilizzo sistematico e costante del raddoppio o anche del passo avanti a fondo con balestra assuefa l’avversario a un certo nostro tipo di capacità di spostamento e quindi lo farà optare per un certo tipo di misura più lunga; l’importante funzione di questi meccanismi potenziati di avvicinamento all’avversario deve invece essere saltuaria per poter sortire l’effetto sorpresa e poter quindi raggiungere più agevolmente un suo bersaglio.
Non scordiamoci poi la peculiarità del colpo doppio nella specialità della spada: saper tirare un colpo di questo tipo, sempre in linea teorica perché poi ovviamente c’è la realtà della pedana, facilità senza dubbio chi è in vantaggio di punteggio e complica non di poco chi invece deve inseguirlo; in effetti il primo ha la possibilità di opzionare tra due tattiche, colpo semplice o colpo doppio.
Probabilmente ci sono ancora alcuni aspetti e situazioni che sfuggono a questo mio sommario elenco; il punto essenziale comunque è capire l’importanza che riveste nella ricerca della vittoria la capacità di gestire tutta una serie di variabili che si vengono a determinare nel corso dello scontro sulla pedana.
I soli verbi cambiare e adeguarsi non esprimono appieno questo valore aggiunto dello schermitore; ne costituiscono ovviamente i meccanismi di base, ma il termine gestione ha un’accezione molto più vasta e composita.
Gestire un assalto significa innanzitutto mettersi in attenta relazione con l’avversario e poi equalizzarsi con lui totalmente: come il pescatore che per portare a riva la sua (povera) preda dà o tira lenza secondo l’istante e le convenienze contingenti.
Se tutto comincia bene e fila via liscio, la capacità è quella di continuare a mantenere inalterati i rapporti fisici, tecnici e tattici che hanno caratterizzato il match sino a quell’istante. Diversamente, è ovviamente necessario intervenire chirurgicamente in uno o più di questi settori appena citati; la valutazione dei risultati sarà una conferma o no dei nuovi atteggiamenti assunti.
In sintesi, per gestire al meglio un incontro è necessario viverlo nello stesso istante visceralmente e razionalmente.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e irrazionale
La pedana è un luogo di scienza: nella teoria schermistica confluiscono innumerevoli principi di geometria e di fisica. Posture del corpo e delle sue parti, traiettorie della lama e della punta, utilizzo di una leva utile e rispetto del baricentro fisico traboccano dalle pagine di un qualsiasi trattato; inoltre principi tattici e strategici, tutti informati alla logica, ambientano singole stoccate o interi fraseggi schermistici.
L’unica dimensione che sfugge a questi meccanismi oggettivi è l’interiorità dello spadaccino: in effetti per un migliore rendimento sulla pedana è necessario tenere sotto controllo l’emotività e tutti i suoi dannosi e pericolosi derivati, come ad esempio la mancanza di lucidità nell’analisi e nella valutazione tecnica che porta a scegliere la contraria, il non saper attendere il momento più propizio per realizzare quest’ultima, non avere la capacità di leggere l’andamento del match e tanto altro.
Lo schermitore comunque combatte la sua onesta battaglia con se stesso e l’avversario, cercando di oggettivare tutte le situazioni, dando quindi la precedenza assoluta alla razionalità.
In questo articolo, magari con il celebre lanternino in mano (naturalmente utilizzando quella non armata!), andiamo volentieri alla ricerca di quei casi e di quelle situazioni in cui, gettata alle ortiche la logica, lo spadaccino si avventura per sentieri alternativi. D’altra parte anche sui banchi di scuola gli insegnanti di Matematica, non trovando talvolta altre strade per giungere alla soluzione di dati problemi, ci facevano ricorrere come ultima spiaggia al ragionamento per assurdo; e tante volte si dimostrava la giusta strada.
Entriamo nell’argomento. Parlando di tecnica schermistica, mi vengono subito in mente le uscite in tempo; d’accordo che, come ben sappiamo, sono razionalissime e brillantissime soluzioni costruite caso per caso su specifiche tipologie d’attacco utilizzate dall’avversario, ma è la loro intima natura, la loro essenza a strabiliare non poco.
In effetti le due grandi cave da cui gli schermitori estraggono le loro azioni sono l’attacco e la sollecitata difesa. Ci sono tanti colpi d’attacco, semplici o composti, ma anche tanti tipi di parata: quando la punta o la lama ronzano attorno ad un bersaglio ci si può difendere in modo diretto con le parate semplici (cioè andando verso il colpo), in modo alternativo con le parate di contro (girando attorno al ferro avversario) e quindi ingenerando sempre un dubbio atroce nell’attaccante, ci si può difendere anche con le parate di mezza contro (causando ancora incertezze nell’attacco) e ci sono anche le parate di ceduta (vero spauracchio per i colpi di filo).
Non c’è che dire, l’attaccante deve essere veramente un coraggioso ed ecco perché nel fioretto e nella sciabola può spendere il bonus della precedenza accordatagli dalla Convenzione schermistica.
Ed eccoci all’irrazionale di cui sopra: chi attacca non solo deve stare attento, anzi attentissimo alle parate andate a buon fine da parte dell’attaccato che consegnerebbero a quest’ultimo il diritto alla risposta; ma deve stare anche attento ad un’altra possibilità, cioè che il suo attacco possa addirittura essere attaccato dal difensore; e questo non è assolutamente un bisticcio di parole. Ma come?! Attacco io e invece attacchi tu?! E la famosa legge del senso unico alternato sancita dalla Convenzione?! Comunque spera che io, prendendo l’iniziativa, non tocchi, perché altrimenti hai torto marcio; concedimi almeno questo!
Di primo acchito sembra proprio un assurdo, una specie di pazzia tecnica; poi, come abbiamo accennato poco sopra, la teoria schermistica ci spiega caso per caso il perché ed il come. D’altra parte c’è una grande legge schermistica che non viene scritta in genere nei trattati, che invero sono tutti presi dal voler elencare in modo esaustivo tutti i tipi di colpo e tutti i relativi modi per neutralizzarli: il miglior attacco e la miglior difesa sono quelli che vengono alternati dallo schermitore nel tempo. In effetti in pedana la monotonia tecnica di uno giova senza alcuna discussione all’altro.
E come inquadrare, passando alla difesa, la cosiddetta risposta a tempo falso?! Notoriamente in questo caso il difensore, dopo essere riuscito a neutralizzare con il proprio ferro il colpo dell’avversario, non risponde come un fulmine o come una Maserati, ma artatamente rallenta il colpo di rimando con lo scopo di veder scorrere via e inutilmente la controparata dell’avversario.
Tutto logico: l’antagonista è dotato di una controparata velocissima e, siccome mi fa fatica rispondere di cavazione (o ne temo la meccanica), lo frego con l’irrazionale. Non solo, ma, così facendo, lo prendo anche un po’ in giro.
E, sempre in difesa, la famosa seconda intenzione?! Meccanismo un po’ farraginoso, un po’ rischioso, ma sicuramente di grande effetto coreografico: io sviluppo un attacco un po’ strano, perché non mi pongo il problema dei problemi di ogni attaccante, cioè di evitare la parata dell’avversario, anzi, al contrario, desidero ardentemente che intercetti il mio ferro; avete capito bene, desidero cadere sotto una sua parata. Però il bello viene ora: avevo previsto tutto e, basandomi sulla mia maggiore velocità di controparare la sua risposta, ecco che la stoccata la metto io (speriamo!).
Questa stoccata ha un tasso di razionalità così alto, così profondo che, a prima vista, pare proprio una pazzia; detto magari con più eleganza, pare un comportamento irrazionale.
Lasciamo ora la tecnica per esaminare la tattica.
Guardiamoci quest’assalto: uno dei due concorrenti è in significativo ritardo di punteggio e il tempo regolamentare si avvicina agli sgoccioli. Logicamente l’iniziativa deve essere presa da chi deve in fretta e furia recuperare, altrimenti perde di sicuro; ebbene cogita di partire prontamente all’attacco, ma nel mentre è proprio l’avversario che si fa avanti. Ma come?! Sei in vantaggio e attacchi?! Non è logico! Sei proprio un pazzo! Però intanto, bravo, mi hai toccato ancora e le mie speranze di recupero si assottigliano non poco.
Guardiamo anche quest’altro assalto, questo è di spada: finalmente uno dei due tira un colpo al piede e tocca; sì, ma ora il suo avversario sa di questo colpo e, appena lo ritenterà, Dio lo salvi dal colpo d’arresto! Pronti – a voi: ribeccato immediatamente al piede! Ma come?! Sei così pazzo (leggasi irrazionale) da tirare ancora al piede anche se io so che ci tiri? Risposta dell’attaccante: sì, lo so che lo sai, ma ho scommesso che non te lo saresti aspettato immediatamente sull’a –voi; e mi sembra di aver avuto ragione. Non mi vengono alla mente altri esempi da portare, ma sono sicuro che ce sia qualcun’altro nascosto tra le pagine dei trattati. Comunque, a questo punto, possiamo anche cercare di trarre delle conclusioni.
La realtà dello scontro sulla pedana è cosi globale e omnicomprensiva che può anche arrivare a un paradosso: utilizzare l’irrazionale, razionalizzandolo.
In effetti, quando si parla in schermese di effetto sorpresa, non ci si riferisce solo all’elemento fondante delle azioni semplici d’attacco: io, appunto, sorprendo il mio avversario, cioè non gli concedo il tempo di capire e organizzare in modo compiuto la sua difesa. C’è infatti una categoria superiore di effetto sorpresa: quella che spiazza totalmente l’avversario rispetto alla consuetudine tecnica.
Questa, ancora una volta, è la meravigliosa dimensione della Scherma: sulla pedana tutto è possibile, tutto è lecito se non espressamente vietato. Anche la logica, la ferrea logica, può sfumare nell’irrazionale.
Calzante l’esempio del Machiavelli, che, tirando in sala, sembra abbia detto: “Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’Principi …si guarda al fine …I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”. Più notoriamente: “Il fine giustifica i mezzi”.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e spazio
Interroga uno schermitore sul concetto di “spazio” e subito lui ti parlerà della cosiddetta misura, cioè della distanza che separa due schermitori in attività sulla pedana, che si tratti di assalto o di lezione poco importa; e non gli possiamo certo dar torto visto (…o meglio sentito) quante volte il maestro richiama su questo aspetto l’allievo soprattutto nei primi anni di attività durante la lezione e quante volte, dopo aver beccato una stoccata dall’avversario, sbotta a dire: Misura, misura…te l’avevo detto!
Indubbiamente lo spazio inteso in tal modo ha la sua grandissima importanza, altrimenti i trattati non lo elencherebbero, assieme alla velocità e al tempo, come elemento fondamentale della tecnica schermistica.
In effetti si potrebbe dire che in tal senso la misura è il pentagramma sul quale poi lo schermitore deve far risuonare il suo fraseggio schermistico: un buon accordo musicale in effetti dipende anche dalle pause, cioè dalla distanza tra le note; una visione del genere, come sappiamo, entusiasmava Pitagora.
Lo schermitore comunque ha una visione bipartita dello spazio, bipartita a seconda se voglia sviluppare un attacco oppure, al contrario, cerchi di difendersi.
Nel primo caso la distanza che lo separa dall’avversario rappresenta per lui un problema fondamentale: in effetti a prescindere dalla tipologia di azione, dovrà comunque essere in grado, una volta superata la difesa antagonista, di riuscire a raggiungere con la propria punta/ lama un bersaglio valido dell’avversario.
Per contro, chi subisce un attacco, può utilizzare la misura come un duttilissimo strumento per inibire le cattive intenzioni dell’attaccante; addirittura, se ha uno spazio regolamentare a sua disposizione per poter arretrare e un’idonea capacità propulsiva all’indietro, può ricorrere alla cosiddetta difesa di misura, senza scomodare in modo alcuno il suo braccio armato.
A questo proposito ogni buon maestro, appena la maturità dell’allievo glielo consente, lo rende consapevole che, prima ancora che le due lame si relazionino nel fraseggio schermistico, la subitanea battaglia tra i due schermitori viene ingaggiata per imporre la propria misura, in base alla quale, appunto, attaccare o difendersi.
E, il più delle volte, è una bella battaglia, perché, ovviamente, marcate differenze di altezza e di conseguente capacità di spostamento sulla pedana fanno confliggere i due contendenti nei loro desiderata; la situazione si può notare macroscopicamente anche da fuori pedana; un mio vecchio maestro parlava a questo proposito di effetto fisarmonica.
Ma fermarsi solo a questa prima pur basilare considerazione, ci farebbe tralasciare tutta un’intricata e fecondissima serie di ulteriori applicazioni che vedono protagonista nella nostra disciplina lo spazio: esso è imperante dovunque.
Innanzitutto esso è determinante nei cosiddetti fondamentali dello schermitore: nella guardia, quando non c’è ancora la pressante presenza dell’avversario, fondamentale è lo spazio inteso come distanza tra gli arti inferiori, con a seguire tutte le collocazioni delle singole parti del corpo che, relazionandosi tra di loro con scopo di equilibrio, devono occupare precise posture spaziali; nelle parate, come del resto in tutti gli altri spostamenti del braccio armato, dove ci sono precisi siti spaziali da rispettare in relazione alla loro distanza dai sottostanti bersagli, il tutto per ottimizzare l’intervento difensivo col ferro e la doverosa rappresaglia denominata tecnicamente risposta.
In seconda battuta lo spazio è determinante anche nella deambulazione sulla pedana sia verso che in allontanamento dall’avversario: la succitata battaglia sulla misura è combattuta a suon di passi, balzi, affondi e frecciate. La misura in questo caso è una funzione da tenere sotto stretto controllo, come sopra detto, nelle due ottiche attacco/ difesa. Entrano qui in scena sotterfugi tipo il raddoppio o la balestra, entrambi meccanismi che intervengono fattivamente sulla dinamica spaziale.
Nei movimenti di svincolo come la cavazione, dove la traiettoria di spirale avanzata è geometricamente più in economia rispetto al tragitto della punta/lama composto dall’iniziale semicerchio per liberare il proprio ferro dal legamento avversario seguito poi dall’avanzamento verso il bersaglio.
Nelle traiettorie dei colpi che si prefiggono di giungere a bersaglio; e, a proposito, non è detto che quelle rettilinee, essendo notoriamente le più brevi, siano le più proficue, almeno nelle armi convenzionali dove il fattore precedenza temporale non è poi così fondamentale come invece nella spada : in effetti i colpi di fuetto riescono per la loro natura ad aggirare le classiche parate e la velocità di penetrazione viene incredibilmente implementata.
Nella difesa ci sono altre interessantissime applicazioni tecniche di natura essenzialmente spaziale: una chiusura di misura in presenza di un attacco di fuetto, di cui abbiamo appena sopra parlato, impedisce il suo buon esito per mancanza di spazio vitale, riducendo la distanza tra i due schermitori ad un valore inferiore alla lunghezza del braccio armato; poi due classiche uscite in tempo, l’inquartata e la passata sotto, due schivate, che facendo mancare l’appuntamento tra colpo e bersaglio, si basano appunto sul mutamento spaziale fatto assumere tempestivamente e stilisticamente dal proprio corpo.
Sin qui le applicazioni dello spazio circa la tecnica; ma esse sono anche presenti nella tattica e nella strategia; ecco alcuni esempi.
Nel primo caso indicativo è il cosiddetto attacco in contropiede: si indietreggia, magari attuando una difesa mista di misura e di ferro, e sul successivo ritorno in guardia dell’avversario, quando gran parte delle sue risorse muscolari sono impegnate nel recupero della posizione di partenza, approfittando appunto di questa situazione di vantaggio si scatena un proprio attacco sincronizzato in velocità. Oppure quando, attuando un controtempo, si crea uno spazio garantito dove attirare la preventivata reazione dell’avversario per poi applicare la nostra definitiva contraria e giungere finalmente a bersaglio.
Nella strategia, invece, classico è l’utilizzo parsimonioso dello spazio regolamentare tergale al fine di far trascorrere il tempo, ovviamente in una situazione di vantaggio nel punteggio.
Alla fine di questo breve excursus sul valore dello spazio nella nostra disciplina, rimando per ulteriori approfondimenti al mio lavoro Lo spazio e il tempo nell’assalto di scherma, opera che trovate nel mio sito passionescherma.it alla rubrica “Libri e audiolibri da scaricare”.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre del 2020
Equipaggiamento
Indice
1 Scherma e attrezzi sportivi attuali
2 Scherma e evoluzione della tecnica schermistica in funzione …
3 Scherma e fioretto
4 Scherma e sacca delle armi
5 Scherma e sciabola
6 Scherma e spada
7 Scherma e le tre specialità
Scherma e attrezzi sportivi attuali
Antichissima diatriba: la scherma è il fioretto?
Naturalmente inutile chiederlo ai fiorettisti! Invece chiederlo a sciabolatori e spadisti, oltre che inutile, può essere anche pericoloso: magari ti arriva una sciabolata alla testa o un colpo al piede!
Comunque perché essere manichei?! La Verità (con la V maiuscola) dicono che non esista, ma che esistano invece (e per nostra fortuna!) più verità.
Facciamo qualche sforzo.
Proviamo a partire dalla storia in quanto i nostri attuali attrezzi sportivi derivano dal gruppo delle cosiddette armi bianche, arnesi non certo da trastullo che venivano utilizzate in occasione di battaglie, duelli o aggressioni di vario ordine e grado.
E la storia a questo proposito ci parla, nella vera e propria miriade di tipologie di arma che si sono avvicendate nella storia, di due esigenze ben precise: colpire prevalentemente di punta o prevalentemente di taglio. “Meglio avere a disposizione entrambe le possibilità”, potrebbe pensare qualcuno; sicuramente sì, ma solo in linea teorica, in quanto queste possibilità andavano a condizionare in modo diretto la conformazione dell’arma stessa e quindi anche il suo peso.
Quindi è soprattutto l’habitat di probabile uso a condizionarne la foggia: passando velocemente con il cavallo è certo più conveniente menar fendenti che infilzare qualcuno e non avere magari il tempo di estrarre la punta dal suo corpo (sigh!); oppure, affrontando l’avversario in un ambiente molto ristretto come ad esempio un vicolo della città storica, è sconveniente roteare la lama con il rischio di andare a sbattere contro qualche muro e quindi non portare a termine il colpo. Quindi dal tipo di tecnica da applicare si risale facilmente alla conformazione tecnica dell’arma: manico, sezione della lama e soprattutto coccia (a semisfera per proteggersi dai colpi di punta, con l’aggiunta dell’elsa, cioè di una parte laterale, per proteggersi da quelli di taglio).
Per queste motivazioni nella realtà storica si sono affermate due tipologie di armi che possiamo tranquillamente ricollegare alle odierne sciabola e spada.
E questa impostazione sembra plausibile anche per alcune macroscopiche caratteristiche peculiari a queste due specialità: nella sciabola le parti del corpo al di sotto della cintura non sono oggi considerate bersaglio valido in quanto, essendo una tipologia di arma utilizzata soprattutto a cavallo, era considerato disonorevole e sconveniente indirizzare colpi sulla linea bassa che potevano ferire l’animale sottostante; nella spada vigono invece le stesse regole del combattimento sul terreno, cioè, a prescindere da ogni regola, colpire per primo e in qualsivoglia parte del corpo.
Il fatto che si potesse tirare anche di sciabola sul terreno e il fatto che le cosiddette spade potessero colpire anche di taglio non inficiano, a mio parere, le considerazioni che ho precedentemente espresso.
E l’attuale fioretto quindi da cosa deriva?
Semplicemente dal fatto che, a partire da un certo periodo storico, si è avvertita l’esigenza didattica di teorizzare l’insegnamento della scherma nel suo insieme, cioè da un punto di vista globale e non particolare. In Francia verso la metà del XVIII secolo, in concomitanza all’affermarsi nella quotidianità di un’arma denominata spadino, qualche maestro ha pensato di utilizzare un nuovo tipo di attrezzo che servisse all’insegnamento: un attrezzo più leggero e più maneggevole per muovere più proficuamente i primi passi nella tecnica schermistica; inoltre il tutto senza correre i pericoli derivanti dall’uso della spada da combattimento in quanto la punta era provvidenzialmente foderata da una protezione di cuoio a forma di fiore; da qui il nome il nome fioretto.
Di questa interpretazione ci sono prove dirette e indirette.
Quelle del primo tipo consistono soprattutto nel fatto che il fioretto non è mai esistito come specifica arma utilizzata nella realtà storica.
Quelle invece del secondo tipo si rinvengono nel fatto che nella specialità del fioretto il libero combattimento è stato ingabbiato da concetti del tutto convenzionali come il rispetto della frase schermistica per l’attribuzione della stoccata e l’individuazione sul corpo di bersagli esclusivi da poter colpire validamente.
Ricordo che alcuni decenni addietro, in Italia ma anche all’estero, le prime categorie di schermitori per età prevedevano il solo uso del fioretto; ciò ad ulteriore comprova di quanto sopra detto. Successivamente, sull’onda di liberalizzazione che ha investito la scherma (non dimentichiamo che prima le donne non potevano essere sciabolatrici o spadiste!) si è pensato di far specializzare subito le giovanissime leve schermistiche, con l’intento (caratteristico dei tempi attuali) di velocizzare la loro maturazione.
Da tutto ciò appare evidente, lo ripeto, l’intenzione di utilizzare il fioretto come strumento didattico per illustrare compiutamente l’intera teoria schermistica.
E questa interpretazione, cioè di arma non-storica, non declassa minimamente il fioretto, anzi lo innalza ad α ed Ω della teoria schermistica.
Ma diamo ora uno sguardo più da vicino al fioretto, alla spada e alla sciabola.
Il fioretto, lo abbiamo già ricordato, è nato leggero per essere facilmente maneggiato; la lama è di sezione quadrangolare e piuttosto flessibile; la coccia è di piccole dimensioni in quanto ha solo la funzione di proteggere fisicamente la mano dello schermitore in quanto, lo sappiamo, convenzionalmente non è considerata bersaglio valido; il diametro della punta è ridotto e proporzionale alla lama.
La sciabola è nata per colpire, oltre che di punta, anche di taglio: i primi due terzi della lama che esce dalla coccia sono a sezione triangolare, appunto il cosiddetto taglio; tale conformazione è da ricollegare alla necessità di offrire nelle parate una maggiore resistenza fisica all’urto delle sciabolate dell’avversario (se la sezione fosse quadrangolare più facilmente la lama potrebbe oscillare); mentre il restante terzo è a sezione quadrangolare piatta per garantire appunto una certa flessibilità; il peso complessivo della sciabola è molto contenuto per permetterne la maggiore maneggevolezza possibile (azioni di circonduzione; la coccia presenta lateralmente la cosiddetta elsa, che ha la duplice funzione di proteggere, sia fisicamente che come bersaglio valido, la mano che impugna l’arma; la punta, il cosiddetto ricciolo, è costituita da un ripiegamento della stessa lama su se stessa nella parte apicale.
La spada, considerata arma da terreno (vedi la foto), è la più pesante; i motivi sono sia la lama più spessa, che è a sezione triangolare e quindi più rigida per poter esprimere una maggiore precisione sui bersagli avanzati, sia per la coccia che, oltre che proteggere fisicamente la mano dello schermitore, ha anche per la sua grandezza la funzione esplicita di coprire mano e avambraccio di chi impugna; il diametro della punta è più grande di quella del fioretto, per facilitare e quindi sollecitare i colpi ai più esigui e avanzati bersagli dell’avversario.
Tre modi differenti di interpretare la scherma, sia tecnicamente che tatticamente; tre modi che, ancora oggi, ci danno l’occasione, impugnando attrezzi ovviamente edulcorati rispetto al passato, di provare il sapore di antichi duelli e scontri.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2018
Scherma e evoluzione della tecnica schermistica in funzione del nuovo tipo di lama
La mia generazione, quella a partire dagli anni ’60, ha avuto l’opportunità di verificare come la natura di un attrezzo possa influire in modo diretto sulla tecnica schermistica; d’altra parte, per citare esempi di altre discipline, si è visto nel tempo l’incremento delle prestazioni nel salto con l’asta utilizzando nuovi materiali e come nel tennis il gioco si sia velocizzato passando dalla vecchia racchetta di legno a quelle in fibra di carbonio.
L’intera storia dell’uomo è costellata in ogni campo di questi salti di qualità e anche la nostra disciplina non si è sottratta a questa evoluzione.
In effetti alcuni schermitori, non sapremo probabilmente mai se maestri oppure solo atleti, con intuizione e perspicacia, probabilmente seguendo l’esempio galileiano del prova e riprova, aprirono nuovi sentieri alla tecnica schermistica: si accorsero che la ricerca di una lega, che garantisse maggiore sicurezza alle nostre lame utilizzate sulle pedane, aveva portato ad un prodotto che sostituiva l’originaria rigidezza del ferro con una sua marcata capacità di flettersi.
Con molta probabilità l’idea, l’ispirazione fu fornita già in anticipo storico dalle qualità della lama di sciabola: quest’ultima, come sappiamo, per i due terzi partendo dalla coccia ha una sezione triangolare, atta alla configurazione del cosiddetto taglio che non è altro che lo spigolo del ferro opposto alla parte superiore del manico; invece nell’ultimo quarto la sezione diventa quadrangolare al fine di poter determinare il cosiddetto controtaglio nella parte superiore della lama. Ebbene quest’ultima parte del ferro, abbastanza sottile e sguarnita strutturalmente dei canaletti per ospitare il cavetto elettrico come nel fioretto e nella spada, per queste sue caratteristiche fisiche è sempre risultata estremamente flessibile, tale anche da produrre un forte sibilo se opportunamente flessa a mo’ di frusta. Ma questa proprietà insita del ferro non poteva in nessun modo essere applicata in quanto all’epoca, affinché lo sciabolatore potesse colpire validamente l’avversario doveva utilizzare esclusivamente il sopra citato taglio o il controtaglio; in effetti, se invece la lama toccava con le sole sue facce laterali, il colpo veniva considerato come non valido, colpo che tra l’altro produceva un cupo suono denominato, quasi spregevolmente, piattonata. Questo per dire che certe proprietà fisiche della lama erano già state intuite, solo che nel caso della sciabola, come abbiamo appena detto, erano vietate.
Vincendo un rigido conservatorismo che dominava all’epoca il nostro ambiente, furono messe in relazione questa nuova possibilità e il modo di portare la stoccata. Prima le cosiddette linee d’attacco erano esclusivamente di natura rettilinea, poiché, torniamo a dirlo, il segmento costituito dalla lama era inalterabile nella sua conformazione; anche i cosiddetti coupé, o cavazione angolata che si dica, non erano altro che traslazioni nello spazio del ferro che manteneva la sua forma rettilinea. Ora invece, tramite una veloce flessione del polso subito seguita da una serrante stretta in tempo delle dita sul manico, si ottiene un effetto frustata: invero la parte terminale della lama, reagendo fisicamente alla forza subita, si flette velocissimamente, incurvandosi all’altezza della punta.
La meccanica del colpo non era di facile attuazione e richiedeva senza dubbio un notevole esercizio per poter imparare a padroneggiare la parte terminale della lama che tendeva a sbandare nelle varie direzioni.
Altro problema tecnico era quello di far coincidere la tempistica della fluttuazione della lama con la distensione naturale e completa del braccio armato, dovendo garantire tra l’altro, oltre la fluidità del colpo, anche la vicinanza necessaria per il raggiungimento del bersaglio prescelto. Quindi allungamento del braccio da completarsi preferibilmente nel preciso istante del movimento rigido del polso, seguito dal blocco del manico con susseguente istantanea stoccata.
Ma la procedura tecnica necessitava di un’ultima importante condizione: che la punta arrivasse sul bersaglio con la giusta inclinazione e forza rispetto ad esso, tale da garantire il prescritto schiacciamento della molla nella bussola al fine dell’accensione della spia della macchina di segnalazione automatica. In effetti la punta poteva colpire il bersaglio solo con la sua parte laterale non interessando, o comunque non interessando in modo sufficiente, la testina al fine del suo scorrimento necessario nella bussola per raggiungere il platorello e produrre l’evidenziazione del colpo.
C’era anche la questione della superficie del bersaglio: abbastanza estesa nel cosiddetto bersaglio grosso, ma molto ridotta in altri casi come ad esempio in relazione ai bersagli avanzati nella specialità della spada.
In sede teorica il confronto tra i due modi di far giungere il colpo a destinazione, quello lineare e quello di fuetto, non è nemmeno proponibile.
Il primo è di una semplicità disarmante in quanto è sufficiente far percorrere alla propria punta o lama una traiettoria diritta o comunque tendente al rettilineo almeno nella parte finale della stoccata; unica eccezione il colpo di cavazione che, com’è noto, fa percorrere alla punta una traiettoria spirale in avanti, peraltro movimento raccomandato come molto stretto rispetto al ferro antagonista.
Il secondo invece risulta essere molto più complesso, sia nella sua dinamica fisica (movimento e blocco del polso), sia nella ricerca della giusta tempistica (coordinazione tra mano e oscillazione della punta), sia nella direzione (necessità di un movimento più ampio da parte del braccio armato), sia nella modalità di impatto sul bersaglio (necessaria angolazione e sufficiente pressione della punta), sia nella precisione (raggiungimento magari di un bersaglio dalla esigua superficie).
Comunque una curiosità; il termine fuetto è mutuato dall’ippica: nelle corse di trotto e di galoppo i fantini utilizzano un frustino, anche se con la sua massima lunghezza di 1,5 metri risulta di circa un terzo più lungo rispetto alle nostre lame regolamentari.
E allora perché gli schermitori dell’epoca si impratichirono sempre di più nell’uso di questo modo di portare i propri colpi anche se esso risultava molto più complesso e quindi di difficile esecuzione rispetto ai tradizionali colpi lineari?
Perché questi ultimi sono indubbiamente molto più facilmente intercettabili da parte della difesa col ferro, mentre quelli di fuetto riescono ad eludere le parate antagoniste anche se ottimamente eseguite sia spazialmente, sia con giusto tempismo.
Soieghiamo la questione in modalità geometrica, cercando di incentrare la nostra attenzione sugli spostamenti spaziali eseguiti dalle due lame.
Un colpo lineare, o almeno tendente ad esserlo, giace e si sposta, soprattutto nella sua parte finale, su un ipotetico piano geometrico; la difesa col ferro non deve fare altro (si fa così per dire) che far giacere e spostare la propria lama su un piano incidente rispetto a quello in cui si avvicina quella antagonista; in effetti il successo difensivo avviene nel preciso istante in cui i due piani entrano in contatto, quello avanzante dell’attacco e quello di spostamento laterale effettuato dalla difesa. La parata quindi intercetta il ferro avversario e ne devia la traiettoria rispetto alla superficie del sottostante bersaglio. Le parate di ceduta, come ben sappiamo, non implicano lo spostamento dell’intero braccio, bensì solo quello idoneo del polso; ma le due meccaniche, di attacco e di difesa, non cambiano.
Un colpo di fuetto, dobbiamo soprattutto concepirlo intellettualmente in quanto risulta di solito poco visibile per la sua grande velocità esecutiva, fa descrivere invece nello spazio alla propria punta un arco di cerchio.
Dobbiamo subito sottolineare, lo abbiamo appena fatto, un rimarchevole aumento della velocità nel tratto finale della traiettoria del colpo; in questo caso alla velocità del braccio, eventualmente in concorso con quella delle gambe in caso di affondo, si assomma anche quella dell’energia cinetica innestata dalla produzione del colpo di frusta: l’incameramento di energia, prodotto dal movimento del polso e dal successivo subitaneo blocco, percorre l’intera lunghezza della lama e si libera producendo l’incurvatura di quest’ultima nella sua parte terminale.
Ma non è questo l’argomento in discussione che ci interessa: non è la velocità del colpo, bensì il rapporto geometrico che si viene ad instaurare tra i due ferri presenti sulla pedana. Siccome la lama ha un suo verso rispetto al quale, sollecitata appunto dalla meccanica del fuetto, riesce a flettersi, si tratta solo di girare il pugno armato in funzione della posizione della lama avversaria. Quest’ultima, com’è noto, si fermerà nel sito ottimale sotto il quale c’è il relativo bersaglio da proteggere; ebbene, è facile immaginare che la fluttuazione ad arco della lama, magari sfiorando o anche semplicemente appoggiandosi a quella avversaria, riuscirà ad aggirarla e a raggiungere indisturbata il desiato bersaglio. In altre parole la parata, anche se ottimamente effettuata, ergerà solo un’inutile barriera che non riuscirà a deviare il colpo in arrivo proprio per la natura della sua traiettoria.
Questa nuova e grossa opportunità tecnica non poteva non intervenire nell’essenza strutturale del combattimento, cioè nell’eterno e continuo rapporto tra attacco e difesa.
Inizialmente sortì molto ovviamente anche l’effetto di incentivare ancor più la propensione all’attacco, come se ce ne fosse bisogno: fiorettisti e sciabolatori del tutto lecitamente tendono già a sfruttare al massimo la Convenzione schermistica soprattutto in presenza di una scarsa attenzione arbitrale rispetto alla verifica dei canoni prescritti affinché l’attacco sia ritenuto valido. E d’altra parte, la tattica di spada, l’arma con le regole più affini alla realtà del duello reale, predilige invece statisticamente un atteggiamento prudente e attendista.
Comunque, grazie a questa novità del fuetto, le menti più fervide e capaci si misero subito all’opera per rinvenire una tipologia difensiva atta ad opporsi validamente a questo nuovo tipo di colpo. E qui come non possiamo compiacerci, reputarci molto fortunati a praticare una disciplina così densa di contenuti logici, geometrici e fisici! Lasciamo pur perdere il composito aspetto dell’interpretazione soggettiva e della carica emozionale che ogni schermitore, vero artista, dà al suo modo di combattere; quando si cerca di approfondire i concetti e le applicazioni della tecnica schermistica siamo nel campo della pura Scienza.
E allora cosa fare per cercare di neutralizzare un colpo di fuetto portato dall’avversario?
Abbiamo sopra esemplificato che un intervento di tipo meccanico consistente nell’utilizzo del proprio ferro per deviare quello dell’avversario non è assolutamente praticabile: troppa è la velocità con cui arriva il colpo e soprattutto la porzione di lama su cui poter intervenire è veramente esigua, consistendo solo nei suoi pochi centimetri nei pressi della punta.
Ecco che allora intervengono altri fattori: lo sviluppo della stoccata di attacco è necessariamente dinamico, in quanto deve annullare la distanza prudenziale esistente prima del suo inizio, ovvero deve azzerare la cosiddetta misura. In genere nell’ottica della propria difesa si pensa a quest’ultima come un qualcosa da cercare di frapporre in modo adeguato tra sé e l’avversario al fine della propria sicurezza. Tuttavia esiste anche il concetto opposto: necessitando un qualsiasi colpo di attacco di un dato spazio fisico vitale per potersi sviluppare e giungere a compimento, la difesa può appunto consistere nel cercare di far venir meno questo spazio necessario, impedendone in pratica la conclusione. Come avrete già intuito è questa la concezione che sta alla base di numerose uscite in tempo.
Per cui, per neutralizzare un colpo d’attacco portato dall’avversario in modulo fuetto, la difesa più opportuna sembra essere la chiusura di misura con il preciso scopo di soffocare tale colpo; d’altra parte, come evidenziato nelle righe precedenti, la meccanica del fuetto è piuttosto complicata e spesso l’esecutore soprattutto se non espertissimo, oltre che a dover distogliere la punta dal bersaglio avversario flettendo all’indietro il polso al fine di poter poi effettuare lo stocco, arretra anche l’intero avambraccio. Un leggero, ma veloce spostamento in avanti dell’attaccato ed ecco che l’attaccante si trova ad una misura inferiore alla lunghezza del proprio braccio armato; l’attaccato, avendo avuto anche cura di posizionare spazialmente in modo adeguato la propria lama, riuscirà abbastanza agevolmente a potare il proprio colpo nel corpo a corpo procurato.
Il fuetto è applicabile anche nella risposta dopo una parata effettuata con successo; in questa eventualità, soprattutto in funzione della probabile posizione di allungo dell’attaccante, chi ha portato l’attacco avrà pochissime possibilità di effettuare una chiusura e sarà quindi veramente alla mercè della veloce risposta di frusta.
A conclusione dell’argomento vorrei fare una precisazione, pur di natura abbastanza ovvia.
Anche se la stoccata portata di fuetto offre i grossi vantaggi che abbiamo esaminato insieme nel corso di questo articolo non è affatto il caso di mandare, come si dice, in soffitta la modalità esecutiva lineare; questo per tre serie di considerazioni.
La prima di ordine generale è che il fuetto non è assolutamente adatto sino ad una certa età ed anche ai neofiti più anziani: occorre prima saper bene maneggiare l’arma con appropriata stretta in tempo, occorre avere una discreta forza nell’articolazione del polso e infine essere molto addestrati nel difficile meccanismo esecutivo.
La seconda di ordine tecnico è che, come altre volte accade nell’ambito della meccanica schermistica, ci sono determinare azioni che consentono e addirittura spingono all’uso del fuetto, mentre altre ne sconsigliano l’utilizzo o lo rendono praticamente ininfluente, come ad esempio nelle azioni di cosiddetto filo.
La terza di ordine tattico è che uno schermitore tanto più è competitivo quanto più ampio è il suo bagaglio tecnico; la monotonia di azione sulla pedana si paga a caro prezzo in quanto l’avversario, basandosi appunto sulla consuetudine, è più facilitato nella ricerca della sua contraria. L’alternanza dei colpi è la miglior arma nelle mani dello schermitore esperto.
Quindi forza con il fuetto, ma cum iudicio!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno del 2020
La Scherma e il fioretto
“Il fioretto è la scherma”, qualcuno ancora oggi sostiene; ma una cosa è certa,”La scherma non è solo il fioretto”. Ma vorrei subito uscire da questa, a mio parere, sterile diatriba e concentrarmi invece su ciò che il termine fioretto evoca in me.
Sicuramente una prima considerazione: se dovessi parlare della scherma in generale, sottolineo in generale, utilizzerei senz’altro la dimensione tecnica del fioretto.
Non a caso, lo sappiamo bene, il fioretto non è mai esistito come arma storica, ma è stato il frutto di un’esigenza didattica; che poi sia stato ideato, come ormai non sembra più, dal maestro bolognese Fiore de’Liberi o, forse con maggior probabilità, da un collega francese che ha reso non pericolosa l’arma applicando sulla sua punta un pezzo di cuoio con la forma proprio della corolla di un fiore, poco importa.
Il fioretto è l’arma più leggera; la sua coccia è più piccola, visto che serve soltanto a tutelare l’incolumità fisica della mano. L’imprinting trasmette maneggevolezza e praticità; se lo potessi dire, direi che risulta anche simpatico a prima vista.
Gli aspetti tecnici che, a mio parere, rendono il fioretto lo strumento ideale per spiegare la teoria schermistica sono due: innanzitutto il fatto che nel tirare il colpo si debba rispettare un codice, la cosiddetta Convenzione schermistica, di priorità e di comportamenti indotti; in secondo luogo il fatto che i bersagli siano distinti in validi e non validi.
Circa il primo aspetto, quello della Convenzione, facile è comprenderne la portata: al di là della singola specialità e anche del fatto di toccare o non toccare, il concetto base che deve essere recepito dal neofita è quello che ogni scambio di stoccate ha una sua doverosa metrica, appunto chiamata fraseggio. Comunque poi si dipani la realtà nello scontro, tutto comincia quando uno dei due combattenti mette in campo una sua iniziativa, l’attacco; questo susciterà in genere una difesa e questa, se sarà felicemente realizzata, originerà una risposta all’attacco e così via, in una specie di senso unico alternato da codice della strada.
Questo mettere in ordine il mondo delle idee per poi proiettarle nel mondo reale, un po’di platonica memoria; è un viatico utilissimo per illustrare un ideale sviluppo dello scontro sulla pedana: ogni azione di attacco trova il necessario presupposto in uno specifico atteggiamento del braccio armato dell’avversario; come ogni contraria deve sintonizzarsi al colpo a cui intende opporsi; questo sino a un teorico infinito, almeno sino a quando un bersaglio viene colpito o quando il match viene interrotto per un qualche motivo dall’arbitro.
Un secondo aspetto, che giustifica la scelta del fioretto come introduzione alla scherma, è quello della distinzione tra bersagli validi e bersagli non validi.
Il neofita recepisce subito il concetto che la stoccata non viene tirata in base al principio di “do’ cojo cojo” (mi si perdoni il romanesco), ma essa deve essere cogitata e soprattutto realizzata in modo da raggiungere un dato mirato bersaglio. In tal modo si scoprono le necessarie linee d’attacco e le evoluzioni che la lama deve doverosamente compiere per sfuggire alle parate antagoniste; in una parola si scopre il mondo complesso e affascinante della geometria dei colpi, dove le lame si parlano e litigano.
Il dover andare da un qui a un lì, tra l’altro, soggiace sempre all’ordine precostituito della Convenzione: il tuo ferro che avanza verso il sospirato bersaglio non deve essere intercettato da quello dell’avversario e, se invece lo è, devi necessariamente cambiare attività in corso d’opera: non pensare più al tuo attacco che è sfumato, ma ora alla tua difesa.
Questo è ordine mentale; questa è una visione della tecnica, che, costruita pezzo per pezzo, assurge a sistema, appunto a sistema schermistico.
La posizione privilegiata del fioretto come ermeneutica della nostra disciplina ha anche delle precise motivazioni storiche a suo sostegno.
La natura tendenzialmente cortese del fioretto è indirettamente confermata dal fatto che per lunghissimi anni è stata l’unica specialità praticabile dal gentil sesso. I canoni, i presupposti e le idee dominanti nella Società civile dell’epoca sottraevano alla figura della donna configurazioni e rappresentazioni legate storicamente alla figura maschile per contenuti e situazioni; nella nostra disciplina in specie si raffigurava evidentemente qualcosa di eccessivo e dannoso all’immagine estetica della donna nella conduzione di un assalto di sciabola e di spada, ritenute troppo rudi e realistici; si preferiva relegare la donna in un immaginario più astratto e più aggraziato, appunto il fioretto, facendolo apparire più un gioco – un ludo, che invece il residuo storico dei veri scontri all’arma bianca. Fortunatamente poi qualcuno ha riletto l’Eneide ricordando che accanto ad Enea e a Turno c’era anche la vergine Camilla e ha di conseguenza realizzato l’auspicata piena parità tra i sessi anche sulle pedane di scherma.
Vorrei ora fare alcune considerazioni sull’evoluzione tecnica del fioretto dall’alto degli undici lustri della mia frequentazione delle sale di scherma.
Partiamo dall’utilizzo del tipo di manico, perché come ben sappiamo, “Dimmi che manico usi e ti dirò che tipo di scherma fai”.
Agli inizi degli anni ’60, se si fa eccezione per alcune rare scuole del nord, il manico utilizzato era quello italiano. Ovviamente penserà qualcuno, sempre meglio di quello francese!
Questa è una lunga storia, anzi lunghissima e costellata di sfide tra le due scuole al fine di dimostrare la supremazia di una sull’altra, perché ovviamente una impugnatura facilitava certe tipologie di colpo, l’altra altre tipologie; poi, come sempre accade nella scherma e nella vita, ci sono sempre dei pro e dei contro.
Non è questa la sede, ma in breve: il manico francese è denominato anche liscio e questo fa subito capire che si tratta di un vero e proprio tubetto che fuoriesce dalla coccia; quello italiano, lasciatemelo dire, un vero spettacolo estetico (vedi disegno): archetti, gavigliano, ricasso e pomolo, roba da film di cappa e spada.
Ma, come si dice, “Tra i due litiganti il terzo gode” ed ecco che nella storia si afferma sempre di più il manico anatomico, quello conformato appunto alla morfologia della mano, dove ogni dito ha un suo alloggiamento particolare. Indubbiamente il suo utilizzo risulta più immediato ed proprio lui a far mutare il modo di combattere sulla pedana: non più movimenti strettissimi al micron, non più una marcata rigidità di movimenti del braccio armato, non più cinghietti o fasce per assicurare il manico al polso, ma ora massima mobilità del ferro, presa sicura in caso di battute e/o legamenti; il cosiddetto disarmo non più realizzabile.
Nel prosieguo, altra mini rivoluzione: mutano i materiali, soprattutto la composizione del metallo delle lame e i segmenti rigidi di prima diventano flessibili fruste; al colpo dritto si affianca il malizioso colpo di fuetto, malizioso perché, proprio per la natura curvilinea della traiettoria spaziale, le classiche parate, siano esse semplici o di contro, non servono più a garantire il bersaglio in quanto vengono aggirate. Si capisce subito che l’unico modo di annullare un attacco portato in questo modo è quello di andargli incontro, facendogli mancare lo spazio fisico per trovare il bersaglio, diventato, così facendo, troppo vicino per essere raggiunto.
I puristi (e non a torto) storcono la bocca: il fraseggio schermistico è sempre più breve, attacco e contrattacco in simultanea diventano statisticamente sempre più frequenti e il cosiddetto corpo a corpo diventa ossessivo, tipo i pugili verso la quattordicesima ripresa.
Scekerate con la componente atletica sempre più preponderante e capirete perché tante pagine dei trattati ormai potrebbero essere stracciate.
Intendiamoci subito e bene: gli schermitori ed i loro maestri fanno benissimo a fruire dei colpi che si rivelano come i più redditizi e sarebbe assurdo oggi vedere in pedana un filo sottomesso, un copertino o un’imbroccata; per queste tipologie di colpo non ci sono più i presupposti situazionali. L’acqua scende sempre verso il basso.
Non sono più un grosso frequentatore di gare, ma ho la fortuna di poter seguire l’evoluzione della mia disciplina comodamente assiso davanti allo schermo del computer: con You Tube, Daily Motion e Vimeo posso applicare anche la moviola!
Proprio per questo una cosa sento proprio di doverla dire: soprattutto alle gare di minor spessore tecnico, viene dato troppo credito all’attacco o a quello che sembra tale. Già ai miei tempi (quelli con i dinosauri) c’erano i furbetti: spostamento ripetuto in avanti, partenza in affondo a braccio flesso, magari con la punta indirizzata alle stelle, urlo tipo Tarzan arrabbiato e …l’attacco, dice l’arbitro, tocca.
Certamente, direte voi, è necessario analizzare anche il comportamento della controparte; questo è ovvio e non viene ovviamente messo in discussione.
Ma consentitemi un’ultima riflessione di più ampio respiro e qui torniamo all’essenza del fioretto, al fatto di essere un’arma convenzionale, cioè un’arma che filtra i dati reali con predeterminati schemi di valutazione: se l’attacco che ha ragione esce e non tocca, la realtà riprende la sua portanza se il contrattacco, pur errato sotto una valutazione convenzionale,invece raggiunge il bersaglio.
Precisato questo, osserviamo che l’attacco ha già le sue prerogative e per di più ha il benefit della precedenza nella ricostruzione nella frase schermistica per l’attribuzione della stoccata; diciamo che ha le sue chances.
Ma perché la Convenzione, nel riconoscere la priorità all’attacco, ne precisa le dovute modalità, cioè “a braccio naturalmente disteso e con la punta minacciante”?
Ovviamente, credo, perché vuole controbilanciare i vantaggi dati all’attacco: in effetti come si fa a parare un colpo di chi ti si avvicina, magari (si fa così per dire) con il braccio armato dietro la schiena e lo tira fuori solo all’ultimo istante quando gli fa comodo?!
La mancata, oculata e attenta verifica dei presupposti della validità formale di un attacco, non solo facilità la vita ai furbetti di cui facevo cenno poco sopra, ma rischia veramente di vanificare il motivo stesso dell’esistenza di un’arma convenzionale, che, reinterpretando la realtà degli accadimenti sulla pedana, insegni a giocare a scacchi con un’arma in mano. Questo è il Fioretto!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
La Scherma e il fioretto
“Il fioretto è la scherma”, qualcuno ancora oggi sostiene; ma una cosa è certa,”La scherma non è solo il fioretto”.
Ma vorrei subito uscire da questa, a mio parere, sterile diatriba e concentrarmi invece su ciò che il termine fioretto evoca in me.
Sicuramente una prima considerazione: se dovessi parlare della scherma in generale, sottolineo in generale, utilizzerei senz’altro la dimensione tecnica del fioretto.
Non a caso, lo sappiamo bene, il fioretto non è mai esistito come arma storica, ma è stato il frutto di un’esigenza didattica; che poi sia stato ideato, come ormai non sembra più, dal maestro bolognese Fiore de’Liberi o, forse con maggior probabilità, da un collega francese che ha reso non pericolosa l’arma applicando sulla sua punta un pezzo di cuoio con la forma proprio della corolla di un fiore, poco importa.
Il fioretto è l’arma più leggera; la sua coccia è più piccola, visto che serve soltanto a tutelare l’incolumità fisica della mano. L’imprinting trasmette maneggevolezza e praticità; se lo potessi dire, direi che risulta anche simpatico a prima vista.
Gli aspetti tecnici che, a mio parere, rendono il fioretto lo strumento ideale per spiegare la teoria schermistica sono due: innanzitutto il fatto che nel tirare il colpo si debba rispettare un codice, la cosiddetta Convenzione schermistica, di priorità e di comportamenti indotti; in secondo luogo il fatto che i bersagli siano distinti in validi e non validi.
Circa il primo aspetto, quello della Convenzione, facile è comprenderne la portata: al di là della singola specialità e anche del fatto di toccare o non toccare, il concetto base che deve essere recepito dal neofita è quello che ogni scambio di stoccate ha una sua doverosa metrica, appunto chiamata fraseggio. Comunque poi si dipani la realtà nello scontro, tutto comincia quando uno dei due combattenti mette in campo una sua iniziativa, l’attacco; questo susciterà in genere una difesa e questa, se sarà felicemente realizzata, originerà una risposta all’attacco e così via, in una specie di senso unico alternato da codice della strada.
Questo mettere in ordine il mondo delle idee per poi proiettarle nel mondo reale, un po’di platonica memoria; è un viatico utilissimo per illustrare un ideale sviluppo dello scontro sulla pedana: ogni azione di attacco trova il necessario presupposto in uno specifico atteggiamento del braccio armato dell’avversario; come ogni contraria deve sintonizzarsi al colpo a cui intende opporsi; questo sino a un teorico infinito, almeno sino a quando un bersaglio viene colpito o quando il match viene interrotto per un qualche motivo dall’arbitro.
Un secondo aspetto, che giustifica la scelta del fioretto come introduzione alla scherma, è quello della distinzione tra bersagli validi e bersagli non validi.
Il neofita recepisce subito il concetto che la stoccata non viene tirata in base al principio di “do’ cojo cojo” (mi si perdoni il romanesco), ma essa deve essere cogitata e soprattutto realizzata in modo da raggiungere un dato mirato bersaglio. In tal modo si scoprono le necessarie linee d’attacco e le evoluzioni che la lama deve doverosamente compiere per sfuggire alle parate antagoniste; in una parola si scopre il mondo complesso e affascinante della geometria dei colpi, dove le lame si parlano e litigano.
Il dover andare da un qui a un lì, tra l’altro, soggiace sempre all’ordine precostituito della Convenzione: il tuo ferro che avanza verso il sospirato bersaglio non deve essere intercettato da quello dell’avversario e, se invece lo è, devi necessariamente cambiare attività in corso d’opera: non pensare più al tuo attacco che è sfumato, ma ora alla tua difesa.
Questo è ordine mentale; questa è una visione della tecnica, che, costruita pezzo per pezzo, assurge a sistema, appunto a sistema schermistico.
La posizione privilegiata del fioretto come ermeneutica della nostra disciplina ha anche delle precise motivazioni storiche a suo sostegno.
La natura tendenzialmente cortese del fioretto è indirettamente confermata dal fatto che per lunghissimi anni è stata l’unica specialità praticabile dal gentil sesso. I canoni, i presupposti e le idee dominanti nella Società civile dell’epoca sottraevano alla figura della donna configurazioni e rappresentazioni legate storicamente alla figura maschile per contenuti e situazioni; nella nostra disciplina in specie si raffigurava evidentemente qualcosa di eccessivo e dannoso all’immagine estetica della donna nella conduzione di un assalto di sciabola e di spada, ritenute troppo rudi e realistici; si preferiva relegare la donna in un immaginario più astratto e più aggraziato, appunto il fioretto, facendolo apparire più un gioco – un ludo, che invece il residuo storico dei veri scontri all’arma bianca. Fortunatamente poi qualcuno ha riletto l’Eneide ricordando che accanto ad Enea e a Turno c’era anche la vergine Camilla e ha di conseguenza realizzato l’auspicata piena parità tra i sessi anche sulle pedane di scherma.
Vorrei ora fare alcune considerazioni sull’evoluzione tecnica del fioretto dall’alto degli undici lustri della mia frequentazione delle sale di scherma.
Partiamo dall’utilizzo del tipo di manico, perché come ben sappiamo, “Dimmi che manico usi e ti dirò che tipo di scherma fai”.
Agli inizi degli anni ’60, se si fa eccezione per alcune rare scuole del nord, il manico utilizzato era quello italiano. Ovviamente penserà qualcuno, sempre meglio di quello francese!
Questa è una lunga storia, anzi lunghissima e costellata di sfide tra le due scuole al fine di dimostrare la supremazia di una sull’altra, perché ovviamente una impugnatura facilitava certe tipologie di colpo, l’altra altre tipologie; poi, come sempre accade nella scherma e nella vita, ci sono sempre dei pro e dei contro.
Non è questa la sede, ma in breve: il manico francese è denominato anche liscio e questo fa subito capire che si tratta di un vero e proprio tubetto che fuoriesce dalla coccia; quello italiano, lasciatemelo dire, un vero spettacolo estetico (vedi disegno): archetti, gavigliano, ricasso e pomolo, roba da film di cappa e spada.
Ma, come si dice, “Tra i due litiganti il terzo gode” ed ecco che nella storia si afferma sempre di più il manico anatomico, quello conformato appunto alla morfologia della mano, dove ogni dito ha un suo alloggiamento particolare. Indubbiamente il suo utilizzo risulta più immediato ed proprio lui a far mutare il modo di combattere sulla pedana: non più movimenti strettissimi al micron, non più una marcata rigidità di movimenti del braccio armato, non più cinghietti o fasce per assicurare il manico al polso, ma ora massima mobilità del ferro, presa sicura in caso di battute e/o legamenti; il cosiddetto disarmo non più realizzabile.
Nel prosieguo, altra mini rivoluzione: mutano i materiali, soprattutto la composizione del metallo delle lame e i segmenti rigidi di prima diventano flessibili fruste; al colpo dritto si affianca il malizioso colpo di fuetto, malizioso perché, proprio per la natura curvilinea della traiettoria spaziale, le classiche parate, siano esse semplici o di contro, non servono più a garantire il bersaglio in quanto vengono aggirate. Si capisce subito che l’unico modo di annullare un attacco portato in questo modo è quello di andargli incontro, facendogli mancare lo spazio fisico per trovare il bersaglio, diventato, così facendo, troppo vicino per essere raggiunto.
I puristi (e non a torto) storcono la bocca: il fraseggio schermistico è sempre più breve, attacco e contrattacco in simultanea diventano statisticamente sempre più frequenti e il cosiddetto corpo a corpo diventa ossessivo, tipo i pugili verso la quattordicesima ripresa.
Scekerate con la componente atletica sempre più preponderante e capirete perché tante pagine dei trattati ormai potrebbero essere stracciate.
Intendiamoci subito e bene: gli schermitori ed i loro maestri fanno benissimo a fruire dei colpi che si rivelano come i più redditizi e sarebbe assurdo oggi vedere in pedana un filo sottomesso, un copertino o un’imbroccata; per queste tipologie di colpo non ci sono più i presupposti situazionali. L’acqua scende sempre verso il basso. Non sono più un grosso frequentatore di gare, ma ho la fortuna di poter seguire l’evoluzione della mia disciplina comodamente assiso davanti allo schermo del computer: con You Tube, Daily Motion e Vimeo posso applicare anche la moviola!
Proprio per questo una cosa sento proprio di doverla dire: soprattutto alle gare di minor spessore tecnico, viene dato troppo credito all’attacco o a quello che sembra tale. Già ai miei tempi (quelli con i dinosauri) c’erano i furbetti: spostamento ripetuto in avanti, partenza in affondo a braccio flesso, magari con la punta indirizzata alle stelle, urlo tipo Tarzan arrabbiato e …l’attacco, dice l’arbitro, tocca.
Certamente, direte voi, è necessario analizzare anche il comportamento della controparte; questo è ovvio e non viene ovviamente messo in discussione.
Ma consentitemi un’ultima riflessione di più ampio respiro e qui torniamo all’essenza del fioretto, al fatto di essere un’arma convenzionale, cioè un’arma che filtra i dati reali con predeterminati schemi di valutazione: se l’attacco che ha ragione esce e non tocca, la realtà riprende la sua portanza se il contrattacco, pur errato sotto una valutazione convenzionale,invece raggiunge il bersaglio.
Precisato questo, osserviamo che l’attacco ha già le sue prerogative e per di più ha il benefit della precedenza nella ricostruzione nella frase schermistica per l’attribuzione della stoccata; diciamo che ha le sue chances.
Ma perché la Convenzione, nel riconoscere la priorità all’attacco, ne precisa le dovute modalità, cioè “a braccio naturalmente disteso e con la punta minacciante”?
Ovviamente, credo, perché vuole controbilanciare i vantaggi dati all’attacco: in effetti come si fa a parare un colpo di chi ti si avvicina, magari (si fa così per dire) con il braccio armato dietro la schiena e lo tira fuori solo all’ultimo istante quando gli fa comodo?!
La mancata, oculata e attenta verifica dei presupposti della validità formale di un attacco, non solo facilità la vita ai furbetti di cui facevo cenno poco sopra, ma rischia veramente di vanificare il motivo stesso dell’esistenza di un’arma convenzionale, che, reinterpretando la realtà degli accadimenti sulla pedana, insegni a giocare a scacchi con un’arma in mano. Questo è il Fioretto!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e sciabola
Continuiamo il nostro excursus tra le tre specialità della scherma: oggi tocca alla sciabola, si proprio quella con cui Zorro traccia la celebre Z sul panciotto dei suoi avversari.
Che dire?! Un’arma che tocchi non solo di punta, ma anche di lama concede qualcosa in più all’immaginario: colpire in punta di fioretto è delizioso, colpire di fendente e soprattutto di traversone è entusiasmante (provare per credere).
Già la foggia dell’attrezzo ti conquista: va beh, la lama è la lama anche se quella trasformazione da sezione triangolare, appunto il taglio, a sezione quadrangolare, il cosiddetto controtaglio, nel terzo apicale ha già un suo fascino; il manico poi mette tutti a tacere in quanto, a differenza del fioretto e della spada, d’impugnatura ce n’è un solo tipo; ma l’attenzione viene subito catturata dalla foggia della coccia, che, appunto per proteggersi non solo dai colpi di punta ma anche e soprattutto dai colpi di taglio, presenta una guardia particolare: la superficie di protezione si incurva gentilmente, si assottiglia e va a serrarsi al pomolo
Ciò che caratterizza maggiormente la sciabola è il fatto di poter colpire di lama: in linea teorica, lo sappiamo, può essere anche utilizzata la punta, ma statisticamente non c’è storia e non a caso il soprannome degli sciabolatori è quello di bitagliente.
Questa predilezione per la lama è subito spiegata: innanzitutto la velocità che può essere impressa al ferro muovendolo in linea retta è inferiore rispetto a quella di un movimento trasversale (colpo di fuetto docet); cosa di non secondaria importanza è il fatto che la punta possiede una limitatissima superficie, mentre la lama in pratica è un segmento, quindi molto più esteso ed ovviamente ha una stragrande maggiore probabilità di impattare felicemente il bersaglio avversario; e proprio per questi due motivi, torno a dire colpo trasversale e facilità di colpire, la difesa è senz’altro messa più in crisi rispetto ai classici colpi lineari.
In occasione di questi ultimi, cioè dei colpi portati di punta, la difesa col ferro geometricamente può intervenire con varie modalità: con le parate semplici cercare di intersecare il piano su cui giace la lama avversaria con il piano su cui giace la propria; con le parate di contro cercare di avviluppare il ferro antagonista attraverso una conica descritta dalla propria punta; con le parate di ceduta cercare di far divergere dal proprio bersaglio la punta dell’avversario.
Quando invece il colpo è portato di lama attraverso fendenti, traversoni o molinelli, la difesa col ferro non può altro che tentare di ergere una specie di barriera che abbia le seguenti caratteristiche: innanzitutto coprire adeguatamente con il segmento costituito dal proprio ferro il bersaglio sottostante; in secondo luogo reggere all’impatto della forza di cui è in possesso la lama avversaria, a tal scopo opponendo alla direzione del colpo antagonista il taglio della propria lama che impedisce a quest’ultima di flettersi.
Appare subito evidente che, in linea teorica e anche in quella pratica, la difesa deve affrontare grosse difficoltà per i motivi sopra espressi; da qui la corsa ad accaparrarsi l’attacco e, senz’altro più che nelle altre armi, aggredire l’avversario. Tra l’altro questo è un concetto onestamente espresso anche nella introduzione al trattato di Sciabola adottato dalla Federazione.
Da qui ovviamente la scrupolosa attenzione con cui l’arbitro, per attribuire la priorità all’uno o all’altro, monitorizza non solo le gambe, ma l’atteggiamento ed i movimenti del braccio armato dei due contendenti.
Se lo schermitore in genere deve essere veloce, lo sciabolatore deve sicuramente essere al fulmicotone! Il nanosecondo gli va già un po’ stretto; le decisioni non può permettersi il lusso di prenderle all’istante, ma ci deve aver pensato prima, magari la sera della vigilia della gara; Pietro Mennea, Valeryi Borzov e Usain Bolt sono nessuno!
Per i nostri amici sciabolatori (ma anche per i fiorettisti, mentre gli spadisti per ovvi motivi non ne hanno bisogno) è poi importante la frequentazione dell’Actors Studio sulla 44ª strada di New York: mimiche posturali ed emissioni vocali, pur non essendo teorizzate da nessun trattato, sono sempre state il giusto corredo di ogni fraseggio schermistico (oggi almeno non si discute sulla materialità della stoccata, che invece ai miei tempi di sciabola non elettrificata era la prima doverosa tappa per poter poi arrivare finalmente all’aggiudicazione della stoccata).
Per fortuna gli arbitri (peccato la perdita indotta del termine di Presidente di giuria era senz’altro molto più pomposo!) sono degli scafati registi, non dico uno Zeffirelli, un Francis Ford Coppola o il tandem dei fratelli Taviani, e quindi, da esperti di scena, non si fanno indurre in tentazione.
Devo comunque ammettere che questa teatralità, ora con l’aggiunta anche della moviola in pedana, a mio parere aggiunge qualcosa allo spettacolo, tra l’altro tendendo ad allungare, soprattutto nella sciabola – meno nel fioretto, i tempi di durata di un match, che altrimenti, in tantissimi casi, si tradurrebbe nel famoso batter di ciglia.
Affrontiamo ora un tema abbastanza profondo: perché la sciabola è un’arma convenzionale?
Abbiamo sempre detto e riconosciuto che il fioretto, arma che non è mai apparsa nel vasto panorama delle armi bianche della storia, è una creazione didattica, un sotterfugio tecnico per facilitare l’insegnamento della teoria schermistica in generale. Parimenti abbiamo già commentato altrove che questa impostazione è stata accompagnata, appunto per valorizzarne la portata, dalla creazione di un codice comportamentale, la nota Convenzione schermistica, e dell’individuazione di bersagli non ritenuti idonei al riconoscimento della stoccata valida.
La sciabola, invece, pur in un panorama di estrema varietà di forme, affonda le sue radici nella storia ed è stata utilizzata nella cruenta realtà degli scontri.
Ma allora perché essa è regimata in funzione della Convenzione e, soltanto quando le stoccate non giungono a bersaglio, si ricorre al principio di realtà e si assegna la stoccata a chi non ha rispettando la “precedenza?
Proviamo a fare qualche deduzione.
Per quanto riguarda l’individuazione di un bersaglio non valido credo si possa far riferimento al fatto che la sciabola era arma prettamente da cavalleria; in effetti, passando rapidamente su un cavallo di fronte all’avversario, non è proficuo, anzi molto rischioso colpirlo di punta, perché, non facendo in tempo ad estrarla dal corpo (dato orribile), si rischierebbe di vedersi saltar via l’arma di mano; differentemente, vibrando colpi di lama (orribile anche questo), questo pericolo è scongiurato in massima parte.
Nelle varie epoche storiche c’è sempre stato un codice comportamentale (non sempre osservato, come ci racconta del resto Massimo d’Azeglio nella Disfida di Barletta) per cui era considerato molto disdicevole colpire sotto la cintura l’avversario in sella ad un cavallo, ciò perché si metteva a repentaglio l’incolumità della povera bestia.
Ne discenderebbe, quindi del tutto indipendentemente dalle diverse ragioni didattiche e astratte del fioretto, l’individuazione di una zona non ritenuta idonea alla conquista della stoccata.
Sotto questo aspetto la situazione che si è venuta creando dopo l’adozione della segnalazione automatica delle stoccate è molto più coerente; infatti, prima di questa rivoluzione tecnica, un attacco che fosse giunto nel bersaglio basso non assegnava la stoccata, tuttavia aveva l’effetto di bloccare l’ulteriore sviluppo dell’azione: “tocca, ma in bersaglio non valido” e gli schermitori venivano rimessi in guardia. Oggi, col nuovo metodo che ha mezzi tecnici per un’apposita segnalazione, i bersagli non validi è come se non esistessero, per cui l’azione continua sino a quando uno dei due contendenti tocca oppure quando l’arbitro ferma il match nei casi previsti dal Regolamento. In tal modo si è ripristinato un dato della realtà dello scontro.
Quindi in conclusione, per la questione di limitare il bersaglio valido abbiamo trovato a supporto retaggi di ordine storico, culturale e cavalleresco.
Meno immediata è invece la comprensione del perché si sia voluto ingabbiare lo sciabolatore con diritti di precedenza, stop e sensi unici alternati (roba da codice della strada!).
Un punto di partenza potrebbe essere il fatto che alle Olimpiadi esordirono il fioretto e la sciabola, mentre la spada solo successivamente.
L’idea potrebbe quindi essere quella che all’inizio la scherma sportiva fosse concepita e quindi rappresentata solo in forma canonica, completamente e volutamente scissa dalla realtà, un gioco sportivo da opporre con forza alla consuetudine tuttora in voga, pur vietata dalla legge, dei duelli. Questi, ovviamente, erano disputati con la spada in quanto arma meno dirompente: bastava (per fortuna) solo un graffietto sul braccio armato e le due controparti se ne andavano entrambe soddisfatte e l’onore era salvo.
In altre parole un’esigenza di riqualificare un secolare modo di utilizzo delle armi bianche da contrapporre oculatamente a concezioni morali che avevano già cominciato a far tempo.
Solo in seguito si affermerà anche la specialità della spada, che diventerà, proprio per le sue stringate regole di combattimento, l’erede delle antiche tenzoni.
Altre idee o conoscenze in merito confesso di non averle, nonostante qualche tentativo di ricerca fatto.
Invito quindi il lettore che scorrerà queste mie note a farsi vivo sul sito, se fosse in possesso di altre notizie in merito.
Ora ripongo la sciabola nella mia ideale sacca delle armi, non prima però di avere provato nel vuoto, per pura soddisfazione, una paio di quinta e traversone e tre o quattro prima e molinello alla testa.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e spada
Chiudo il trittico sulle specialità della scherma intrattenendovi sulla spada, pensando innanzitutto al fatto che è l’arma sportiva che più di ogni altra rappresenta più veracemente le armi bianche che si sono avvicendate nella storia.
E questo non perché l’attuale attrezzo, denominato appunto spada dal Regolamento Internazionale, configuri in un qualche modo il sunto materiale delle varie fogge di armi che sono state impugnate nel corso degli anni; ma piuttosto per la natura delle norme che regolano il match sportivo sulla pedana.
In effetti, rispetto al fioretto e alla sciabola, nella spada c’è una vera e propria deregulation: non diritti di precedenza nella ricostruzione dell’azione ai fini dell’aggiudicazione della stoccata, né bersagli ritenuti non validi se raggiunti; nella spada invece tecnicamente tutto è lecito in quanto si è voluto riprodurre la situazione reale dello scontro.
Ovviamente niente pedane fatte a scale o possibilità (infame) di tirare la terra negli occhi dell’avversario; ma quello che si poteva concedere alla verità dello scontro si è concesso: tocca chi tocca per primo e ogni bersaglio è naturalmente valido.
In semplici termini, quindi, duello; ovviamente né al primo sangue, né tantomeno all’ultimo; ma sempre verace duello, con addirittura il colpo doppio che infilza in contemporanea entrambi i concorrenti.
Queste stringate regole di combattimento non possono non influenzare la caratteristica mentalità di chi impugna la spada.
Innanzitutto, come abbiamo accennato poco sopra, non esiste lo speciale bonus della precedenza dell’attacco, per cui, come primo effetto statistico possiamo rilevare che in questa specialità non esiste alcuna pulsione all’attacco, talvolta parossistico, come avviene soprattutto nella sciabola.
Il che ovviamente evidenzia la considerazione che nella spada l’attacco in sé e per sé non è vantaggioso, ma in questo caso ha pari dignità rispetto a tutte le altre fasi schermistiche. Anzi, esaminando a fondo la questione e scarnificandone i vari aspetti tecnici, possiamo dire che attaccare non è poi così tatticamente conveniente. In effetti chi attacca può sfruttare due situazioni vantaggiose: può decidere l’istante in cui scatenare la sua iniziativa e le modalità dell’offensiva, che poi comportano in modo indotto il raggiungimento di un certo bersaglio; ma la spazialità dell’attacco ha una sola direzione, cioè quella della proiezioni in avanti. Invece chi subisce l’attacco ha un ventaglio di soluzioni a cui può ricorrere in primis per neutralizzare l’attacco dell’antagonista e per colpirlo poi di rimando: può difendersi solo con la misura – può ricorrere all’uso del proprio ferro per deviare la lama sopravveniente, cioè parare e poi rispondere – può applicare il combinato disposto di queste due attività , cioè arretrare parando e poi rispondere – può attuare il contropiede, ovvero sfruttare il preciso istante del ritorno in guardia dell’antagonista per piombargli addosso con un suo attacco – può addirittura uscire in tempo, ovvero costruire proprio sulle modalità dell’attacco nemico la propria stoccata atta a colpire senza essere colpito. In conclusione la possibilità spaziale della difesa è multipla: in avanti, sul posto, all’indietro.
A tavolino la decisione non può essere che ovvia: l’attacco non conviene, anzi devo provocare l’avversario in modo tale che ad attaccare sia lui.
Ma la logica e l’esperienza, devo dire per nostra fortuna, ha partorito meccanismi come il controtempo e la finta in tempo, andando quindi in un certo modo ad equalizzare i rischi tra attacco e difesa. Tuttavia, è bene tenerlo in giusta considerazione, questi meccanismi tecnici sono abbastanza complessi in quanto coinvolgono sempre più direttamente l’avversario nella loro applicazione.
Poi ovviamente c’è situazione di pedana e situazione, c’è avversario e avversario: magari un veloce attacco semplice riesce a sorprendere anche più volte un difesa lenta. Quindi i nostri ragionamenti non ci portano affatto ad escludere di utilizzare l’attacco quando esso ci pare opportuno; portano piuttosto alle radici di un modus pensandi, di una mentalità che, ravvedendo i limiti di un’offesa non incoraggiata e tutelata dalla Convenzione schermistica, consiglia lo spadista ad una prudente tattica attendista.
Tornando ai ragionamenti a tavolino, indubbiamente chi attacca si scopre per primo, cedendo magari in questa lotta di nervi, in questa sfida sull’attesa dell’accadimento.
Dal punto di vista della meccanica del colpo, tutte le azioni di attacco che non siano di natura semplice offrono il fianco al colpo d’arresto dell’avversario, che notoriamente è composto da un solo movimento; sotto questo aspetto la stessa teoria convenzionale di base del fioretto parla di colpo d’arresto in primo tempo e anche in secondo tempo. In effetti quando nelle azioni composte la punta dell’attaccante percorre la o le traiettorie di finta, essa, essendo distolta dal bersaglio, non costituisce una minaccia reale e quindi l’attaccante risulta esposto appunto al colpo d’arresto, denominato in tal modo perché letteralmente impedisce che l’attacco possa giungere a compimento.
Da queste considerazioni discende un principio cardine della specialità della spada: l’essenzialità di spostamento prevale sulla complessità di movimento. In effetti tutte le volte che la lama si muove nello spazio circostante ai bersagli spesso perde il migliore angolo di incidenza su di essi e quindi concede alla punta dell’avversario, pur per brevissimi lassi di tempo, di entrare impunemente nella guardia e toccare.
Un secondo principio fondamentale è quello del rapporto tra la lunghezza totale dei bracci armati dei due contendenti, compresa quindi anche la tipologia del manico utilizzato; si pensi a quello francese impugnabile a mano allungata.
In una specialità in cui la spazialità, appunto la lunghezza del braccio armato, è così rilevante per il fatto che l’unica regola è toccare per primo, si realizza un particolarissimo rapporto tra spazio e tempo: la velocità, che appunto ne rappresenta il rapporto, viene incrementata dalla grandezza del segmento braccio – arma. Ovviamente i problemi nascono per chi ha il tratto più corto, in quanto, in caso di colpi d’incontro, quest’ultimo risulta spazialmente soccombente.
Da qui discende un terzo principio fondamentale della spada: la necessità assoluta di colui che risulta meno lungo di braccio di ricorrere a tutti i colpi che la teoria schermistica gli offre per sopperire a questa situazione.
Innanzitutto il tirare ai cosiddetti bersagli avanzati nell’istante il cui il suo avversario sceglie invece, ovviamente con molti meno rischi, di colpire quello grosso: riducendo in questo caso la spazialità del colpo, come appena sopra accennato, si acquista in tempo di impatto.
In secondo luogo il doveroso utilizzo di particolari rapporti sia tra i bracci armati ricorrendo all’opposizione di pugno, sia tra le stesse lame, ricorrendo al meccanismo del filo, che, come ben sappiamo, domina la lama dell’avversario, deviando la sua punta fuori dal proprio bersaglio.
In terzo luogo, utilizzando colpi come le schivate, nelle due versioni dell’inquartata e della passata sotto, o meccanismi come il controtempo, che annullano il vantaggio della maggiore lunghezza del braccio armato dell’avversario.
Non possiamo concludere l’argomento senza parlare, pur in breve, del colpo doppio, ovvero dell’opportunità che gli spadisti hanno, proprio per il tipo di regola base che si sono dati, di condividere la stoccata valida.
Questa opportunità tattica indubbiamente apre uno scenario del tutto particolare ed unico nelle specialità della scherma: ovviamente chi è in vantaggio di punteggio può, anzi a detta dei puristi deve, approfittare di questa situazione. Ovviamente chi insegue, nelle vicinanze della fine del match, non solo deve evitare di essere colpito, ma anche di condividere il colpo doppio; chi invece è avanti nel punteggio ha le due opzioni di colpire singolo o doppio. Ognuno dei due contendenti sa che l’altro sa e quindi cerca nel suo bagaglio tecnico le azioni più consone ai propri interessi; una ulteriore variabile che rende spettacolare lo scontro.
Un’altra citazione, pur celere, va infine fatta anche circa il cosiddetto attendismo che caratterizza o meglio che caratterizzava la specialità della spada negli anni precedenti; in effetti le ultime norme del Regolamento che contemplano la cosiddetta scarsa combattività hanno inciso non poco sulla conduzione tattica dei match.
In effetti lo spadista, almeno statisticamente, non amava una tattica arrembante, anzi, completamente all’opposto, si metteva in paziente attesa che l’avversario prendesse lui l’iniziativa d’attacco e, addirittura, faceva finta di attaccare, per provocare l’uscita dalla guardia del suo antagonista e quindi agire in entrambe le situazioni sempre di controffesa. Le ragioni di questa scelta, torno a sottolineare statistica, affondavano in cause di pura tattica; magari sarebbe stimolante affrontare questo argomento nello specifico in un prossimo articolo.
Ecco, sotto il mio punto di vista, svelata la spada, l’arma, che come doverosamente detto in precedenza, è la specialità della scherma che più riproduce sulla pedana le drammatiche vicende della realtà storica.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2019
Scherma e le tre specialità
“Fioretto, sciabola o spada? Questo è il problema”, direbbe Amleto se dovesse salire oggi su una pedana!
Però questo problema, il più delle volte, è un falso problema: infatti se cominci a fare scherma in una certa città è più facile che poi tu faccia fioretto, in un’altra sciabola e in un’altra ancora spada; questo perché solo i grandi club delle grandi città possono permettersi di frammentare i loro iscritti in più specialità; in quelli più piccoli, tra l’altro, c’è un solo maestro, che per suo gusto personale o per altri motivi predilige un’arma rispetto alle altre due.
Addirittura ai miei tempi, diciamo una cinquantina di anni fa, la scherma risentiva dei paralleli terrestri: la spada era diffusa soprattutto nel nord Italia, mentre al centro sud si optava per fioretto e sciabola. All’epoca c’era un preciso motivo storico: la spada agonistica era nata in terra francese nei primi del ‘900 e, proprio per i vicini confini, i primi pionieri italiani di questa specialità furono il piemontese Luigi Colombetti ed il lombardo Giuseppe Mangiarotti.
Parlando di specialità è emblematica la questione dei bi-arma, cioè di quegli schermitori che si cimentano in due armi; due, perché se nulla è cambiato dai miei tempi, la Federazione ha vietato di praticare tutte e tre le armi, almeno nello stesso anno agonistico.
Decenni fa i bi-arma erano quasi esclusivamente fiorettisti-sciabolatori o viceversa; gli spadisti invece erano considerati alla Darwin di un’altra specie.
Il perché è di facile intuizione: fiorettisti e sciabolatori erano dei “costruttori” convenzionali (attacco, parata e risposta, controparata e seguenti), mentre gli spadisti erano solo dei de-costruttori (colpo d’arresto, possibilmente al braccio); la scherma sulla pedana era ancora abbastanza statica e il codicillo della Convenzione Schermistica era un Vallo Adriano ancora difficile da superare per un certo tipo di mentalità. Poi, pressappoco con la mia generazione, la componente atletica prese sempre più piede ed i match divennero sempre più yé-yé; in queste condizioni ambientali qualche mio collega dell’epoca capì che era molto più facile far transitare i propri allievi dal fioretto alla spada e viceversa: in fin dei conti si colpiva sempre e solo di punta, le parate erano molto simili almeno nella loro impostazione di base e nei movimenti del braccio armato e quindi della punta non ci si doveva sbracciare di qui e di là. Quindi la nuova generazione dei bi-arma fu del fiorettista che tirava anche di spada e viceversa.
Ma parliamo ora anche di modelli pedagogici: ai miei tempi (scusate, ma mio malgrado sono una memoria storica in questo campo) gli adolescenti potevano dedicarsi alla sciabola e alla spada solo dalla categoria allievi, ovvero dal compimento dei tredici anni. L’idea dominante era che l’insegnamento del fioretto dovesse essere il viatico necessario alla formazione del futuro schermitore; in questo confermando la secolare esperienza storica.
Poi, qualcosa è cambiato ed oggi si può cominciare subito con la specialità che si desidera: si è infatti affermata la pari dignità tra fioretto, spada e sciabola.
Questo soprattutto per il fatto che, a ben guardare, le tre armi hanno più punti in comune che differenze. Ma anche perché, nell’epoca delle specializzazioni (e questo non solo nella scherma, ma nell’intera Società civile) il passaggio, ad esempio, tra la mentalità convenzionale del fioretto e quella non convenzionale della spada avrebbe costituito un ritardo nella formazione culturale di quest’ultimo.
Lasciamo poi perdere il fatto che la schermitrice ha dovuto attendere decenni per poter avere la facoltà di scelta tra le tre armi come lo schermitore maschio: ridicoli orpelli di costume si sono sciolti come neve al sole di agosto!
Torniamo ora all’apertura di questo articolo, dopo aver compreso come è fortunato l’adolescente o la donna che oggi si affacciano in sala di scherma : fioretto, sciabola o spada?
Sinceramente non c’è una risposta razionale alla domanda, a meno di non porla direttamente e con scarso interesse a un fiorettista, a uno sciabolatore o ad uno spadista!
Eppure ci sarebbero anche delle caratteristiche soprattutto di ordine fisico, ma anche caratteriale e psicologico da non trascurare. Ad esempio, anche se non siete maestri di scherma, fareste fare sciabola ad un lungagnone di ragazzo lento di gambe e di braccio?! Oppure mettereste la spada in mano a un brevissimo-lineo (se si può dire così)?! E faresti diventare sciabolatore un timido e invece spadista un esuberante?!
Ma ritorniamo, come detto in apertura, alla realtà: dove ho l’opportunità di conoscere la scherma e in che Circolo mi trovo?
E qui dobbiamo ancora scomodare Darwin: se sei alto e puoi fare spada oppure se sei velocissimo e puoi fare sciabola …hai più probabilità non solo di sopravvivere, ma anche di affermarti tra i tuoi simili, come abbiamo capito dalla lettura dell’”Origine delle specie”. Con la mentalità di oggi e, soprattutto con i mezzi contemporanei, si può migrare verso altri Club e allocarsi meglio, ma tutto diventa più difficile e soprattutto impegnativo.
Resta comunque una grande e fondamentale consolazione e soprattutto una ricca opportunità: quella di continuare a fare scherma con l’arma che mi sono ritrovato in mano.
E questa indotta sorte può essere in fin dei conti la migliore risposta alla domanda che ci siamo qui posti ripetutamente: non potendo scegliere e non conoscendo a fondo le altre, l’arma migliore è quella che pratico.
Pensate di essere in piena estate e di entrare in una bellissima gelateria; chiedete del pistacchio, che è il vostro gusto preferito (lo è per me) ; se l’inserviente vi dovesse dire che il pistacchio è finito, dovrei forse credere che uscireste dal bar senza un cono con altri gusti?!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Per approfondire da un punto di vista tecnico l’argomento, consiglio la lettura del mio lavoro “Specificità nel fioretto, nella sciabola e nella spada” presente nella rubrica “LIBRI E AUDIOLIBRI DA SCARICARE”
Arbitraggio
Indice
1 Scherma e arbitro
2 Scherma e arbitro – bis
3 Scherma e convenzione schermistica
4 Scherma e evoluzione della tecnica schermistica in funzione …
5 Scherma e replay
6 Scherma e sciabola non elettrificata
Scherma e Arbitro
Quando sulla pedana le sfide si fanno sul serio tu non puoi mancare, signor arbitro: la tua presenza è una necessità e una garanzia.
Tirare qualche stoccata di scherma è un divertimento incomparabile, una sorta di acchiappino fatto con un’arma bianca in mano, un gioco sempre diverso, una specie di partita a scacchi fatta seduti in guardia anziché su una comoda poltrona: una, dieci, cento botte, cosa importa chi tocca o chi non tocca, il divertimento sta nello scambiarsi le stoccate, così senza contarle.
Ma c’è la realtà e la realtà incombe; dicono che ci si alleni per fare le gare: preparazione atletica, lezioni individuali, esercizi, sacrifici di ogni genere e quant’altro servono solo a questo fine ultimo. Resta il grosso dubbio dove venga riposto il divertimento.
Ed ecco che entri in scena tu, signor arbitro.
Chi ha la precedenza nella ricostruzione dell’azione, se qualcuno ha un piede fuori della pedana, se la stoccata arriva dopo l’alt, se …..: ecco tutta una serie di questioni che sei chiamato a dirimere ossequiando la realtà filtrata dal Regolamento. Già in sala, tirando tra amici, possono insorgere delle questioni, figuriamoci quando in palio c’è una vittoria di un qualcosa! La tua presenza è assolutamente necessaria.
Oggi appari meno pomposo e senza dubbio più tecnologico: in effetti hai perso la denominazione di Presidente di giuria, visto che mano a mano le macchine (come nella Società civile) hanno sostituito le prestazioni visive dei Giurati, quelle di registrazione del tempo a cura dei cronometristi e quelle da amanuensi dei cartellonisti. Ora in mano hai un telecomando e in caso di dubbio puoi consultare anche una moviola (quella che comunque fa tanto discutere chi segue il mondo del calcio).
Ai tempi, potevi arbitrare anche vestito casual, ma ora hai un’elegante divisa che ti contraddistingue e senz’altro concorre ad intimorire un po’ i neofiti delle gare: sei, doverosamente e necessariamente, una vera autorità.
Tuttavia sei umano e quindi costantemente esposto all’errore; ma di questo fatto talvolta il pubblico interessato (soprattutto babbi, mamme, parenti stretti e purtroppo anche maestri) se ne scorda. Ed ecco contestazioni più o meno larvate, accuse di vario genere e talvolta anche alti lai: minimo comune multiplo una caduta di stile in un ambiente che dovrebbe invece ricordarsi di non doverlo perdere mai.
Comunque sei fortunato rispetto a chi ti ha preceduto negli anni: ora ci sono dei recinti che delimitano la zona di gara e quindi ti garantiscono una certa libertà fisica e mentale; prima invece arbitravi con un coro di prefiche urlanti alle tue spalle e sentivi addirittura il loro affannoso respiro sul collo, mentre ai bordi della pedana i maestri o chi per loro giocava a fare il suggeritore, comunque il più delle volte inascoltato. Oggi questo arruffato teatrino per fortuna è scomparso quasi del tutto.
Devo ammettere peraltro che arbitrare oggi, rispetto a decenni fa, è molto più complesso: prima i colpi si dovevano letteralmente far vedere ai giurati e quindi colpivano bersagli ben in vista e la lama quanto più permaneva sul bersaglio tanto più era ovviamente percepita. Oggi, fortunatamente, i sistemi di rilevamento automatico delle stoccate hanno risolto la questione della materialità dei colpi (prima a certi campioni bastava urlare un alé più forte del meno celebre avversario), ma contemporaneamente hanno fatto insorgere nelle armi convenzionali una tecnica del tirare sul tirare che certo non facilita l’arbitro nella ricostruzione del fraseggio schermistico.
In ogni modo non ti lamentare: sei in genere rispettato e godi di una certa ammirazione, per i bambini, in genere, sei una vera e propria autorità. Mi risulta che sei anche ben retribuito (i rimborsi spese la fanno sempre da leone?!) e con la scusa della scherma puoi viaggiare e conoscere l’Italia e addirittura il mondo.
Per ultimo volevo farti una confidenza, rivelarti un piccolo trucco che mi aveva svelato uno dei tanti maestri che mi hanno formato come schermitore: “Stefano, mi diceva, “ricordati che se tiri di fioretto o di sciabola, non hai uno solo avversario, ma due; ovviamente uno è quello che hai di fronte sulla pedana, ma non sottovalutare quello che dirige l’incontro, stai attento a come arbitra e adeguati: è inutile continuare a fare arresti se non ti vengono riconosciuti, cambia piuttosto la tua scherma”.
Che dirti, (se posso) amico mio: per me e tanti altri schermitori, sei un indelebile ricordo di tanti momenti; e, non temere, di te conserverò sempre una buona memoria, soprattutto quando il mio parere coincideva col tuo!
M° Stefano Gardenti
a Firenze maggio 2018
Scherma e arbitraggio
Amici, ecco il tema in discussione: Scherma e arbitraggio del match.
In ogni competizione sportiva è presente una figura doverosamente terza, l’arbitro, cui compete tra le altre incombenze, quella di dirigere l’attività e ufficializzare, laddove ne esistano gli estremi, il punteggio.
La scherma non sfugge a questa regola: la stessa terminologia tecnica denomina assalto lo scontro cortese tra due schermitori, mentre match lo stesso scontro ma con finalità agonistiche che si espletano in una competizione, qualunque ne sia la dimensione e l’importanza.
Lo sviluppo della tecnologia ha fornito nel corso del tempo strumenti importantissimi, innanzitutto circa la materialità della stoccata: nel secolo scorso prima gli anni trenta hanno reso possibile rendere oggettivo il colpo di spada, poi quelli cinquanta il colpo di fioretto e infine negli anni novanta il colpo di sciabola. Indubbiamente è stato compiuto un grandissimo passo in avanti: prima molte coppie di occhi vigilavano sui bersagli e avevano a disposizione molti tipi di sentenza: tocca, non tocca, tocca ma in bersaglio non valido, tocca ma mi astengo sul bersaglio e addirittura il defilato mi astengo; oggi invece semplicemente o si accende una lampadina o non si accende, trillo del cicalino compreso.
Poi, come nella realtà sociale, le famose “macchine” hanno pensionato anche cartellonisti, cronometristi e addetti alla segnalazione visiva del punteggio: oggi un telecomando gestisce quasi tutte queste funzioni. Per non parlare poi della Direzione di gara, dove tutto è velocizzato al massimo grazie ad appositi programmi di computer e relative stampanti; gli amanuensi tipo il piccolo scrivano fiorentino non esistono più.
In questa sede ci prefiggiamo di spendere qualche parola circa due fondamentali funzioni dell’arbitro di scherma: la conduzione del match e il giudizio sul fraseggio schermistico, che, come sappiamo, porta poi all’assegnazione della stoccata.
L’espletamento della prima di queste due funzioni, volendo condensare la l’argomento, si incentra sui seguenti aspetti: la sua dimensione temporale, quella spaziale, quella comportamentale, quella decisionale.
Circa la prima, come sappiamo, l’arbitro ha la responsabilità di far partire il cronometro e successivamente bloccarlo nei soli casi previsti dal Regolamento.
Quanto sia importante la funzione tempo nel corso di un combattimento a punteggio è cosa così evidente che non necessità di spiegazione alcuna: sia sufficiente considerare quante stoccate i due schermitori sono in grado di scambiarsi in un pugno di secondi, quando, essendo prossimi allo scadere del tempo regolamentare ed essendo uno dei due in netto svantaggio, quest’ultimo tenta il cosiddetto tutto per tutto.
Bloccare prontamente il match quando dovuto allarga notevolmente la dimensione temporale a favore di colui che magari è in svantaggio di punteggio: l’interruzione, tra l’altro, sottrae comunque per il suo meccanismo (blocco e ripartenza) quelli che si possono dimostrare secondi preziosissimi e talvolta determinanti.
Tra l’altro, in caso di corpo a corpo, l’istante in cui interrompere il match ovviamente non ha estremi oggettivi (ad eccezione di quello contemplato per il contatto corporeo), ma si affida alla valutazione dell’arbitro circa la possibilità che i due contendenti possano ancora scambiarsi un fraseggio schermistico degno di tal nome. D’altra parte il solo dare prima o dopo l’alt a causa di un corpo a corpo può involontariamente favorire o sfavorire un dato schermitore, si pensi ad esempio ad un veloce brevilineo che competa a strettissima misura con un sicuramente meno veloce longilineo.
Passando alla dimensione spaziale, l’arbitro svolge la fondamentale funzione di controllare le eventuali violazioni dello spazio di gara, tipo guardalinee calcistico per quanto attiene i limiti laterali, invece tipo potente arbitro quando assegna una stoccata di penalizzazione a chi viola i limiti posteriori. In questa ottica ha molti compiti da svolgere: deve far rispettare le linee di messa in guardia alla partenza e alle ripartenze del match, in caso di interruzione deve rimettere in guardia i due schermitori senza l’ausilio di precise linee da rispettare, deve penalizzare chi esce lateralmente facendolo arretrare, deve annullare le stoccate tirate da fuori pista e, in caso di segnalazione doppia, deve convalidare solo quella di chi eventualmente è rimasto regolarmente in pedana.
Anche lo spazio, come abbiamo prima visto per il tempo, riveste grande importanza nella tattica schermistica ed invero la pedana di 14 metri sembra molto estesa, ma sicuramente lo è molto di meno per chi ci compete sopra. In effetti bastano una paio di metri ed uno dei due concorrenti si può trovare nella zona di preallarme, che rappresenta un corto vestibolo della zona rossa di uscita posteriore: lo spazio, per gli schermitori esperti, rappresenta in effetti una fondamentale componente per la scelta dell’azione da svolgere; ovviamente azione e reazione da parte di chi subisce la pressione.
Siamo ora giunti al compito arbitrale che ha per oggetto l’analisi del comportamento che gli schermitori possono assumere reciprocamente: qui si spazia notevolmente, dal controllare che essi si salutino formalmente prima e dopo il match, addirittura alla valutazione che qualcuno attui, pur nell’ambito tecnico, una condotta violenta. Tra questi estremi c’è tutta una lunga serie di compiti: – verificare la rispondenza dell’equipaggiamento alle prescritte regole, divisa, maschera, guanto, armi …sono esclusi solo gli indumenti intimi! – controllare l’utilizzo del braccio non armato ai fini della copertura del proprio bersaglio o per intralciare i movimenti della lama avversaria – valutare gli spostamenti corporei e della testa ai fini della sottrazione del proprio bersaglio valido – sanzionare le uscite volontarie dai limiti laterali della pedana – controllare nel fioretto e nella sciabola le chiusure sulle parate effettuate dall’avversario, cui è riconosciuto il diritto di risposta – tenere d’occhio i gesti d’intemperanza, compresi quelli verbali …e chi più ne ha più ne metta!
Comunque una doverosa precisazione: spesso si tratta di esaminare delle situazioni oggettive come ad esempio controllare il marchio del controllo effettuato in via preventiva sulle armi, ma talvolta è richiesto all’arbitro di valutare l’animus dello schermitore, come ad esempio la volontà di ostacolare l’avversario pur nella dinamica convulsa dello scontro; e qui la valutazione diventa, come facilmente è intuibile, molto più difficile.
L’ambito più delicato, ovviamente, riguarda le eventuali contestazioni che gli vengono rivolte da uno dei due schermitori: in queste situazioni deve ostentare calma e pacatezza; ha l’autorità per rispondere, se di caso, anche con delle sanzioni, ma proprio per questo deve cercare di non abusare del suo potere. Deve mantenere comunque il controllo, controllo che uno dei due contendenti sta già evidentemente perdendo: il tipo e soprattutto il modo della sua risposta deve tendere in primis a risolvere la questione contingente, ma deve anche e soprattutto tendere ad educare il contestatore. E questo, intuibilmente, non è affatto facile.
Alla fine di questo pur breve excursus, siamo ora giunti forse alla funzione arbitrale più delicata, quella decisionale.
Il pensiero subito corre alla ricostruzione dopo l’alt del fraseggio schermistico nel fioretto e nella sciabola, dove, come ben sappiamo, deve trovare applicazione la Convenzione schermistica.
Prima di affrontare questo delicato argomento, mi preme tuttavia richiamare l’attenzione sull’arbitraggio della spada, dove spesso la mentalità comune crede che l’arbitro abbia poche responsabilità.
In effetti che ne abbia meno di quando si accendono varie luci nelle armi convenzionali è evidente; pur tuttavia il momento che l’arbitro ha anche nella specialità dei triangolari non è da sottovalutare. Ad esempio: quando deve decidere l’istante opportuno per dare l’alt come ricordato poco sopra, quando deve valutare se una stoccata arriva o meno sull’alt stesso, quando un concorrente ha comunque il diritto alla risposta sempre dopo l’alt, quando uno schermitore ha il diritto a un colpo sull’avversario che lo ha appena sorpassato in frecciata, quando una stoccata viene segnalata in concomitanza all’uscita di pedana, addirittura quando su un colpo doppio può annullare solo la stoccata di colui che si presume sia fuori pedana, quando deve vigilare sugli estremi della non combattività, situazione più frequente nella spada che non nelle altre due specialità.
Come si vede anche l’arbitro di spada può avere le sue belle gatte da pelare e deve sempre mantenere viva la concentrazione anche se molto spesso l’andazzo del match può tendere a cloroformizzarlo.
Ma affrontiamo finalmente l’aspetto sicuramente più spinoso: la ricostruzione del fraseggio al fine dell’attribuzione della stoccata.
Quando si accende una sola lampadina, non crediate, anche lui respira a pieni polmoni, come facevano i gatti all’uscita del conte di Fratta dalle cucine come viene magistralmente descritto da Ippolito Nievo nelle Confessioni di un ottuagenario.
In caso contrario, ovvero alla presenza di luci multicolor, ecco la prestazione più professionale e più qualificante dell’arbitro: dare l’interpretazione di cosa è successo nel rapporto tra le lame dei due contendenti.
Come sappiamo ci sono delle regole scritte chiarificatrici, ma, come capita anche nella legge in generale, ci sono poi delle interpretazioni, spesso dovute alla carenza esaustiva delle norme stesse. A questo proposito si evidenzia subito una necessità, se volete anche molto ovvia: dare unicità all’interpretazione, affinché non ci possano essere macroscopiche interpretazioni diverse in situazioni uguali; in questo senso operano gli stage nazionali e internazionali.
Una cosa è comunque certa: agli arbitri non è concesso legiferare, il ché ovviamente è demandato agli organi legislativi a questo deputati; quindi la loro interpretazione non può mai andare contra legem.
La materia del contendere si incentra sull’individuazione delle modalità da ossequiare per rendere l’attacco idoneo ad aver diritto alla precedenza nella ricostruzione dell’azione: un mixer tra postura e attività del braccio armato dell’attaccante, indirizzo della sua punta o della sua lama, tempistica dello spostamento in avanti, tenendo comunque conto della eventuale preesistente postura e dell’attività del braccio armato di chi subisce l’iniziativa.
Sicuramente un bel po’ di variabili di cui tener conto, lasciando quasi senza significato la sola precedenza temporale di un colpo rispetto all’altro; ad eccezione del cosiddetto tempo al braccio teorizzato dai trattati di sciabola, il cui apprezzamento è appunto lasciato alla prudente interpretazione dell’arbitro.
Tante volte chi dirige un match si affida ad una sensazione, della quale poi deve doverosamente rinvenire gli estremi pragmatici: in effetti arbitrare a così poca distanza dai due contendenti ti fa percepire lo scontro quasi in una dimensione intimistica dove vivi in prima persona i movimenti delle lame e dei corpi. Vedere il match dal pubblico, per non parlare poi dalla televisione di casa, secondo il mio parere, falsa e non di poco la scena: ciò non solo per la prospettiva di osservazione, ma anche per la mancanza di alcuni esili suoni come il battere di un piede sulla pedana o lo strisciare di una lama sull’altra.
A complicare le cose sono anche sopraggiunte certe evoluzioni del materiale che sono entrate, come dire, a gamba tesa sulla tecnica schermistica: le stoccate una volta percorrevano in genere traiettorie rettilinee, per cui erano potenzialmente intercettabili dalla difesa col ferro ovvero dalle parate. In presenza di lame più flessibili fu ben pensato dai tecnici o dagli stessi tiratori di utilizzarle come fruste, sortendo il magico effetto di vanificare le classiche parate, aggirandole appunto col movimento fluttuante del fuetto.
L’iniziativa d’attacco in tal modo prese ad avere un valore premiante eccessivo, per cui il legislatore, al fine di ristabilire un giusto rapporto tra attacco e difesa, intervenne innalzando il tempo minimo di contatto tra punta e bersaglio affinché la stoccata fosse segnalata dal rilevatore dei colpi.
Addirittura nella sciabola si è dovuto introdurre il divieto regolamentare di far sopravanzare la gamba dietro rispetto a quella avanti per cercare di fare argine alla foga d’attacco che caratterizzava e appiattiva i match; in effetti nello stesso trattato federale di sciabola, al primo capitolo con oggetto Considerazioni sulla scherma di sciabola, è riconosciuta una maggiore facilità nella costruzione di un attacco, rispetto alla difesa, in quanto, non essendo opponibili ai colpi di taglio le parate di mezza contro, l’attacco stesso ha maggiori riferimenti circa la potenziale difesa dell’avversario e quindi quest’ultima risulta più facilmente eludibile.
Questi due argomenti tecnici, uniti alla sempre maggiore velocità garantita dall’incremento della prestazione atletica, sono emblematici: arbitrare è sempre più impegnativo e difficile; ecco perché, emulando il cosiddetto falco nel tennis e il VAR nel calcio, anche la scherma, almeno per ora limitatamente alle gare più prestigiose, ha introdotto l’utilizzo della moviola. Ora l’arbitro, per sua iniziativa o su richiesta di uno dei due contendenti, ha la possibilità di esaminare la frase schermistica a velocità ridotta per poter avvicinarsi sempre più alla verità dei fatti. E dire che, questo è un mio ricordo personale quando tiravo di fioretto senza segnalazione automatica, il maestro mi diceva di cercare di fermare la punta arrivata sul bersaglio avversario, affinché i giurati e il presidente di giuria riuscissero a vedere meglio il colpo! Potenza della tecnologia, che riesce a far vivere l’uomo fuori della sua dimensione umana.
L’ovvia conclusione di questi ragionamenti è che la scherma, come già fa, dovrà sempre più preparare adeguatamente gli arbitri e questo a tutti i livelli, affinché tra i diversi gradi delle competizioni non ci siano strappi comportamentali, ma si affermi sempre più quell’uniformità di arbitraggio che rappresenti per i giovani schermitori un’ulteriore occasione di formazione tecnica.
Con il mio personale augurio e speranza, che si voglia tenere sempre ben distinto il combattimento di spada ispirato da vicino alla realtà dello scontro sul terreno, da quello del fioretto e della sciabola quali armi convenzionali, soggette a dinamiche e bersagli ideali.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno del 2020
Scherma e Convenzione schermistica
La nostra disciplina affonda le sue radici in quanto di più pragmatico possa esistere, la sopravvivenza. In effetti le cosiddette armi bianche, sino ai primi tentativi di applicazione nel XII secolo della polvere da sparo, hanno costituito, in una miriade di fogge, l’unico mezzo con cui un uomo, da solo o in schiere organizzate, cercava di prevaricare fisicamente un avversario.
Dal rame si è passati al bronzo, poi al ferro e finalmente all’acciaio, ma il fine era sempre uguale: sottomettere, il più delle volte con le cattive e fino alle estreme conseguenze, un nemico.
La scherma sportiva ha ovviamente eliminato tutte le zavorre più o meno cruente della realtà storica; ha filtrato oculatamente tutte le sue componenti pericolose per l’incolumità fisica e, normalizzando regole di combattimento e conformazione delle armi, ha mantenuto l’essenza, per noi magnifica e divertente, dello scontro: due persone, armi bianche alla mano, si contendono la vittoria.
In effetti si è dovuti intervenire convenzionalmente per meglio organizzare le singole tenzoni ed evitare le spiacevoli situazioni (viste spesso nei film di cappa e spada) tramite le quali il cattivo di turno cerca di vincere a tutti i costi: gettare terra o peggio ancora sabbia negli occhi dell’avversario, scagliargli addosso vasellame e quant’altro di contundente è a portata di mano, ferirgli artatamente il cavallo che sta cavalcando e, cosa vilissima, mettersi due tre o più contro uno solo (roba da guardie del cardinale Richelieu).
Quindi è di facile intuito, come abbiamo ricordato poco sopra, il ricorso a tutta una serie di norme che regolassero in modo minuzioso sia la fattezza delle armi, sia il comportamento dei due contendenti.
Gli attrezzi utilizzati sono tutti normalizzati, ovvero tutte le loro caratteristiche, peso – lunghezza – conformazione di lame e cocce – manici, sono specificate in dettaglio al fine di rendere uguali per tutti le opportunità di partenza.
Si interviene anche sul modo di agire dei due schermitori: il gioco non deve essere violento, è vietato utilizzare il braccio non armato, quando uno dei due contendenti perde la presa sull’arma viene dato l’alt e così via.
Anche lo spazio, la cosiddetta pedana, ed il tempo, ovvero la durata dell’incontro, sono oggetto di minuziosa regolamentazione.
Bene, logico, anzi molto logico: ogni competizione deve prevedere certe situazioni e, più queste sono previste e collegate ad una sanzione conosciuta, più il gioco fila via liscio.
Ma tutto questo che cosa c’entra con la Convenzione schermistica?! L’attacco inizia da destra e tocca; ma chi è a sinistra e tira sul tirare? La stoccata finisce sul braccio appena al di fuori del tronco del corpo e quindi non vale!
Eppure la scherma deriva dalla realtà (bruttissima) del duello (speriamo almeno al primo sangue!). Per capirci qualcosa dobbiamo fare alcune considerazioni, soprattutto di carattere storico.
Lo spartiacque tra il principio di realtà e la Convenzione nasce allorché qualche intelligente e futurista collega maestro elabora una metodologia d’insegnamento basata su un attrezzo sconosciuto alla storia, il fioretto.
Ed è proprio l’esigenza didattica a richiedere un principio di astrazione: un’arma teorica che riesca a sunteggiare tutti i principi portanti della tecnica schermistica e consenta un’esposizione organica di tutti i concetti relativi sia alle posture delle varie parti del corpo dello schermitore, sia alle possibili evoluzioni spaziali della lama, sia ai potenziali rapporti di quest’ultima con quella dell’avversario.
Ovviamente si sceglie un’arma leggera che innanzitutto affatichi il meno possibile il braccio armato e che consenta, approfittando della sua maneggevolezza, di poter acquisire tutte quelle doti connesse alla destrezza: precedenza di pugno, economia e quindi velocità negli spostamenti, capacità di svincolo ed elusione del ferro avversario, stretta in tempo per i vari tipi di rapporto con la lama antagonista, sentiment du fer.
In tal modo allievo e maestro, tramite una frattura con la realtà, hanno l’opportunità di affrontare i grandi temi della tecnica schermistica: il concetto di attacco, di difesa, di controtempo e soprattutto il concetto di consequenzialità della frase schermistica, composta, come ben sappiamo ed apprezziamo, da un intreccio collegato tra presupposti e relative possibili contrarie.
Così facendo, viene a crearsi una specie di mondo delle idee di platonica memoria, mondo in cui, permangono sì i principi della realtà, ma un habitat a mezza strada, appunto tra realtà e teoria, in cui il riferimento base è la logica schermistica.
In effetti, per dare un certo ordine sistematico allo scontro, si è scelto il criterio che l’iniziativa d’attacco, portata secondo certi canoni (braccio naturalmente disteso e punta minacciante un bersaglio valido) ha sempre ragione (in termini simili al codice della strada potremmo dire che ha la precedenza); ma la condizione è che esso arrivi su un bersaglio (anche non valido), altrimenti ecco che, ovviamente, torna alla ribalta il criterio della realtà. Il discorso, come sappiamo, continua, con la parata ed il relativo diritto alla risposta; in terza battuta alla contro parata …e così all’infinito, appunto a confermare e certificare l’andazzo assolutamente teorico dell’impostazione dello scontro.
Una scelta successiva, più o meno indotta e clamorosamente in contrasto con la realtà, è quella poi di restringere l’ampiezza del possibile bersaglio ritenuto convenzionalmente valido: dal corpo dell’avversario vengono così enucleati gli arti e la testa (come abbiamo già riferito nella sciabola solo le gambe, in quanto troppo vicine per poter garantire l’incolumità del cavallo sottostante); la superficie da colpire è individuata solo in quello che in gergo è denominato bersaglio grosso ed è difficile non pensare al fatto di ravvedere in esso la sede degli organi vitali, quindi bersaglio, se raggiunto, da considerarsi definitivo.
A questo proposito è molto interessante fare una considerazione di carattere tecnico: il fatto di poter colpire validamente l’avversario solo al tronco del corpo indubbiamente costringe i due contendenti alla cosiddetta stretta misura (e questo differentemente dalla realtà storica: duello docet).
In tal modo viene posto in primo piano il rapporto tra i due ferri e, mi si perdoni il termine, il gioco tra di essi. In effetti quando due persone si affrontavano sul terreno ben si guardavano da certe azioni e situazioni: ad esempio, chi si arrischiava a fare un arresto in primo tempo su un’azione composta dell’avversario, rimanendo magari colpito in parallelo?! Chi eseguiva un filo, dopo essersi necessariamente scoperto per andare a cercare il legamento sulla lama dell’avversario, giusto prodromo di questa tipologia di colpo (i vecchi trattati lo denominavano appunto molto realisticamente invito di legamento)?! Con quale padronanza di sé un duellante cercava una seconda intenzione così dappresso all’antagonista?!
Ebbene oggi possiamo fare tutto ciò e provarne la relativa ebbrezza (attrezzatura di sicurezza a parte), perché esistono le armi convenzionali: il fioretto in primis, la sciabola come attaché. L’ansia da duello, fortunatamente oggi solo in ottica sportiva, è relegata alla sola specialità della spada, non a caso rubricata ancora come arma da terreno.
Il fiorettista e lo sciabolatore sono i veri teorici della scherma, scherma recepita, considerata e vissuta come una teoria basata su postulati precostituiti e accettati, appunto, come Convenzione schermistica.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2018
Scherma e evoluzione della tecnica schermistica in funzione della segnalazione automatica delle stoccate
L’uomo sin dai tempi più remoti si evolve senza sosta e affida alla tecnologia compiti sempre più importanti.
Oggi anche il mondo della scherma è dominato da strumentazioni sempre più avanzate, ma, ovviamente, non è stato sempre così.
Uno dei problemi fondamentali della nostra disciplina è sempre stato quello della verifica dell’esito del colpo, cioè del raggiungimento della punta o della lama sulla superficie di un bersaglio.
In origine, appunto senza il supporto di alcuna tecnologia, ciò era demandato alla sola capacità visiva umana e la questione era affidata addirittura a cinque coppie di occhi: in effetti il match era condotto da un presidente di giuria che si avvaleva della consulenza oculare di ben quattro assessori o giurati che fossero. Due, posizionati davanti ad uno dei due contendenti ciascuno da una parte diversa della pedana, avevano il compito di osservare chi i bersagli interni chi i bersagli esterni; gli altri due, naturalmente, erano disposti in modo simmetrico. Il presidente occupava la parte centrale dello schieramento e, per distribuire nel tempo equamente la sua ottica, ad un certo punteggio faceva addirittura scambiare la posizione ai due schermitori.
La questione quindi era non solo di raggiungere il bersaglio avversario, ma anche di rendere visibile il colpo alla giuria.
E’ intuibile cosa sia successo quando la tecnologia ha consentito ad un’apparecchiatura di sostituire la vista dell’uomo e quindi di divenire l’unica testimone della bontà del colpo; la cosiddetta materialità della stoccata da valore soggettivo (pur con tutta la buona volontà ed onestà dei giurati) e divenuto valore oggettivo. Hegel avrebbe parlato di salto qualitativo; tuttavia, senza naturalmente mettere in alcuna discussione la bontà complessiva del sistema automatico, permangono, come tutti sappiamo, alcune falle: ad esempio un colpo effettivamente giunto sul bersaglio può non essere registrato per una alterazione tecnica e in questo caso, anche se l’arbitro lo vede chiaramente, non può convalidarne in alcun modo la validità; oppure, caso contrario anche se piuttosto raro, la macchina segnalatrice può, sempre per guasti tecnici, evidenziare un colpo che non è stato vibrato e chi dirige il match deve effettuare una serie di considerazioni circa la distanza esistente tra i due contendenti e il contatto o meno tra le loro lame.
Comunque per arrivare a questo traguardo tecnologico la strada è stata dura e soprattutto lunga.
La spada, arma di sola punta, è stata la prima, diciamolo pure con termine improprio, ad elettrificarsi: in effetti la validità come bersaglio di tutto il corpo rendeva possibile la realizzazione di un circuito, abbastanza semplice, a cosiddetta chiusura. In pratica un interruttore a pulsante che, pressato secondo certi parametri regolamentari, consentiva l’accensione di una spia luminosa connessa alla vibrazione di un cicalino; per la registrazione del previsto colpo doppio era sufficiente un temporizzatore di chiusura di contatto per impedire la registrazione di un secondo colpo giunto con un previsto distacco temporale. E siamo verso la metà degli anni trenta.
Il fioretto, anche lui arma di sola punta, presentava un problema non indifferente in quanto, come sappiamo, distingue i suoi bersagli in validi e non validi. La strada del circuito a chiusura quindi non era la sola praticabile e in effetti i tecnici hanno risolto la questione ricorrendo in parallelo ad un circuito ad apertura: in pratica la corrente continua a passare su un apposito giubbetto intessuto di conduttori che ricopre solo il bersaglio ritenuto valido e il colpo che lo raggiunge ha l’effetto di interrompere appunto tale passaggio di corrente, producendo la segnalazione del raggiungimento solo della superficie di tale bersaglio; qui la speranza è quella di essere riuscito a farmi capire! E questa fu una conquista della metà degli anni cinquanta.
La sciabola, oltre la questione condivisa con il fioretto della bipartizione tra bersagli validi e non validi, evidenziava il grosso problema connesso al fatto che, oltre che di punta, i colpi possono essere portati anche di taglio e controtaglio. I tecnici sono comunque riusciti a bypassare anche questa difficoltà; e siamo alla fine degli anni ’80.
Finalmente nella scherma gli occhi insistentemente fisi sui bersagli sono stati sostituiti da appositi sensori cui compete in modo esclusivo dirimere la questione della materialità della stoccata: tocca, non tocca, tocca ma in bersaglio non valido.
Da tutto ciò una serie di considerazioni sui risvolti che la fruizione della tecnologia ha comportato sia sulla tecnica che sulla tattica schermistica.
In primis sulla fruizione della velocità: come abbiamo accennato poco sopra per essere visibile il colpo doveva essere portato in modo tale da essere percepito dalla giuria; di conseguenza un tempo, si fa così per dire, supersonico rischiava di nascondere la stoccata.
Soprattutto nelle due armi convenzionali, lo stesso sviluppo ordinato del fraseggio tra le due lame, o almeno questo era il tentativo che entrambi gli schermitori perseguivano, era quello di sviluppare un preordinato dialogo preconfezionato dal punto di vista tecnico, dialogo in cui il raggiungimento finale del bersaglio era inserito come tappa finale del colpo, prima in relazione all’attacco, poi alla risposta e così via. In altre parole un’azione ordinata favoriva non poco anche la verifica dell’esito della stoccata stessa.
Anche il ricorso alla metodologia in attacco della doppia finta, oggi divenuta desueta, testimoniava un’esigenza di limitare l’applicazione della velocità, fruendo in sostituzione ad essa di un meccanismo più complesso per invischiare ed ingannare il ferro avversario.
La nuova realtà tecnologica permetteva invece la piena esaltazione della velocità; conseguentemente la prestazione poteva sempre più esaltare la componente atletica rispetto a quella tecnica, invertendo quella che era stata la polarizzazione storica dei due valori in discussione. Prima si tendeva, una volta portata la stoccata, a far permanere la punta sul bersaglio quanto più possibile, quasi in modo ostentativo per farne constatare il buon esito; ora questo non serviva più.
Altra importantissima questione tecnica connessa all’introduzione della macchina segnalatrice dei colpi fu, ovviamente soprattutto nel fioretto, l’equiparazione di tutti i bersagli
Prima, naturalmente, si cercava di indirizzare i colpi nelle zone corporee più visibili in quanto meno coperte dal braccio armato dell’avversario, ovvero ai bersagli interni, prediligendo quello alto, cioè il petto; tirare al fianco anche con la giusta angolazione già esponeva a certi rischi, per non parlare poi dei colpi indirizzati alla schiena o all’esterno alto.
In effetti, torno a dirlo, toccare e far vedere il colpo, era il binomio inscindibile su cui poter contare per aggiudicarsi la stoccata: completamente inutile essere veloci come la luce e mettere la stoccata in un batter d’occhio oppure far giungere il colpo sotto il braccio armato in una zona poco controllabile dal presidente di giuria e dai suoi giurati. In una sola parola, vedere per credere.
La segnalazione automatica delle stoccate ha anche, se si può dir così, liberalizzato al massimo l’utilizzo delle uscite in tempo: in effetti il ravvicinamento dei corpi dei due schermitori prodotto da questa categoria di azioni aumentava a dismisura la difficoltà di constatare con la vista il raggiungimento dei bersagli; prima vigeva una presunzione di giudizio, tipo quella esistente nel gioco del calcio a favore del difensore contro l’attaccante nella propria area: chi sviluppava l’attacco era senz’altro molto più ben “visto” che non l’avversario che magari eseguiva una contrazione o un’inquartata (questi colpi dovevano proprio essere netti). Oggi quello che conta, ed è giusto che sia così, è toccare e non essere toccati.
Altra grande innovazione garantita dalla realtà dei colpi effettivamente pervenuti sul bersaglio fu la sospirata ed agognata equalizzazione degli schermitori. Attenzione questo non vuole assolutamente essere un atto di accusa nei confronti delle giurie dell’epoca; vuol solo significare quello che era sotto gli occhi di tutti: ad un campione bastava un urletto più acuto per far vedere e giudicare la sua stoccata meglio di quella di un signor nessuno che c’era dall’altra parte. Chiamatela sudditanza psicologica, presunzione di valore o come volete, si trattava di una dato reale, torno a dire di natura assolutamente involontaria, ma reale. Prova ne sia che molti campioni di prima cominciarono a vincere meno e a perdere di più.
Tutto bene, anzi benissimo nella spada, la specialità dei triangolari dove la tecnologia ha potuto addirittura discernere in modo assoluto la giusta condivisione del colpo doppio; come si potesse prima dell’avvento tecnologico vigilare sia sulla validità del colpo, sia sull’eventuale differenza temporale tra le due stoccate concomitanti, resta un mistero.
Non altrettanto bene sono andate le cose per gli sciabolatori in quanto la Federazione Internazionale ha dovuto stabilire una serie di priorità tra scelte in conflitto tra loro.
Prima il raggiungimento di un bersaglio non valido bloccava il proseguo dell’azione nella ricostruzione a cura del presidente di giuria; e prima i colpi dovevano essere portati di taglio o di controtaglio, mentre le cosiddette piattonate non procuravano l’assegnazione della stoccata. Prima potevi letteralmente “portar via la testa” con una sciabolata al tuo avversario e magari ti sentivi dire “non tocca”!
Oggi se tocchi o non tocchi te lo certifica solo la macchinetta, ma se colpisci sotto la cintura il tuo avversario, l’azione continua e quindi sei esposto alla sua reazione (sia in attacco che in risposta), quindi è stata cambiata e adattata alla situazione la Convenzione Schermistica. Oggi è sufficiente appoggiare qualsiasi parte della tua lama sul bersaglio valido del tuo antagonista, nessuno è in grado di vedere con quale zona del tuo ferro tocchi; e come avrebbero fatto i tecnici a rendere valido solo il contatto del taglio e del controtaglio?!
Personalmente concordo con la scelta della Federazione, perché ormai la velocità acquisita dagli sciabolatori era tale da essere, come si dice, più veloce della luce; l’enigma tocca o non tocca, in certe situazioni, era assurto a dubbio amletico. Indubbiamente certe soluzioni sono un po’ laceranti, ma bisogna anche riflettere che il problema è anche generazionale: in effetti i giovani sciabolatori non si porranno mai questi tormentosi dubbi tecnici!
Vorrei concludere queste brevi considerazioni con una provocazione o forse come un vero e proprio vaticinio: risolto il problema della materialità della stoccata e risolto anche, almeno per i più grossi tornei, il problema dei rulli e dei loro lunghi fili a fine pedana con la sostituzione di segnalazioni tramite impulsi radio, perché non ridisegnare il campo di gara, sostituendo il lungo rettangolo con un largo cerchio?! In effetti la definizione geometrica della pedana è nata per la possibile disposizione dei giurati, ma, se i giurati non ci sono più, ecco un’esaltante alternativa, diciamo alla Quattro moschettieri.
Chissà, vedremo.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno del 2020
Scherma e replay
Moviola è il termine italiano che imparammo a conoscere in ambito sportivo ovviamente con il football, scusate (!), con il calcio.
Inizialmente era piuttosto strano ed anche buffo quando i giocatori che si muovevano piano piano addirittura tornavano indietro nei loro movimenti. Poi si arrivò persino alla Filosofia, più precisamente all’etica: è giusto o non è giusto utilizzare la tecnologia per vedere ciò che l’occhio umano non riesce a percepire nell’attimo fuggente del gesto sportivo?! Sabiniani e Proculiani combatterono senza risparmio di colpi sino a quando prevalse la fazione dei realisti: l’uomo deve andare oltre se stesso e afferrare la realtà (o almeno tentare di farlo).
Il nostro mondo schermistico sotto questi aspetti tecnici è sempre stato un po’ conservatore, ma alla lunga ha dovuto allinearsi a questa filosofia arbitrale che si è imposta ormai quasi in ogni disciplina: nel calcio replay tridimensionale, nella pallavolo palle che si spiaccicano per terra, nel tennis il falco che tutto vede e così via.
Che dire …nulla! Perché il pericolo di essere “la voce che grida nel deserto” è decisamente incombente; quindi mi limiterò solo ad alcune questioni collaterali che per me, tuttavia, hanno una certa rilevanza.
Tutto nasce fondamentalmente per il fatto che la teoria schermistica ha deciso di dare un ordine teorico al fraseggio schermistico, rendendolo almeno in prima battuta avulso dalla realtà: nelle armi convenzionali, il fioretto e la sciabola, in caso di doppia segnalazione dei colpi tocca “chi ha ragione”.
La priorità assegnata alla precedenza di attacco, come ben sappiamo, è stata giustamente vincolata all’osservanza di determinati canoni quali la precedenza temporale dell’iniziativa, la percussione del ferro avversario o il suo dominio in partenza e così via. L’atleticizzazione del gesto tecnico e conseguentemente la sua velocità esecutiva rendono talvolta ardua la percezione in termini chiari di questi dati, per cui, tramite l’utilizzo del flessibile mezzo visivo si è cercato di ovviare ai limiti umani.
Ciò premesso, la prima considerazione da fare è che queste tecnologie per ovvie implicazioni di carattere economico non possono essere garantite a tutti: in effetti questi mezzi di ausilio agli arbitri sono presenti solo alle gare più importanti e prestigiose.
Viene quindi a crearsi una discrepanza tra competizione e competizione circa la qualità dell’arbitraggio e ci saranno schermitori che nella loro carriera mai potranno fruire degli indubbi vantaggi oggettivi offerti dalla tecnologia, vantaggi che invece andranno solo ad altri.
Ma non si tratta qui di problemi di presunta “democrazia sportiva”; qui si tratta del fatto che il sapere che sono un osservato speciale da parte di un sensore può indurmi a fare o anche a non fare certi gesti tecnici.
Mi spiego meglio: nelle armi convenzionali, dove come sappiamo lo sviluppo dell’attacco ha una priorità nella ricostruzione del fraseggio, c’era e c’è tuttora un vecchissimo trucco: comincio a muovermi in avanti (magari con il braccio armato un po’ rattrappito) e, quando vedo che il mio avversario prende l’iniziativa e mi tira addosso, allora produco un allungo e lo camuffo da passo avanti affondo. Quindi, se l’arbitro ha a disposizione il replay, posso essere facilmente smascherato, altrimenti probabilmente posso continuare a giocare sull’equivoco.
Una seconda delicata questione è rappresentata dalla tenuta psicologica dell’arbitro in caso che la ripetizione della frase schermistica lo costringa, coram populo, a dover cambiare la sua primitiva opinione. Siamo d’accordo che i direttori di combattimento hanno raggiunto al giorno d’oggi una grande professionalità, ma un paio di centimetri di mancata distensione del braccio armato, una frazione di secondo di ritardo in una partenza, una velocissima ricerca del ferro o similari situazioni prospettate dal Regolamento possono mettere statisticamente in crisi anche i migliori e andare ad alterare quella che forse è la più importante qualità di chi giudica, la serenità d’animo.
In effetti nel caso in cui, come da Regolamento, viene richiesta la consultazione del replay e la stoccata-contro sentenziata in un primo momento dall’arbitro non solo viene poi annullata, ma, in certi casi, addirittura ribaltata, si registra un pericolosissimo 1 per il tiratore contestatore – 0 per il direttore di scontro.
Terza riflessione; anche il mezzo tecnico può avere talvolta i suoi limiti: una prospettiva errata può alterare l’esatta percezione di un determinato gesto tecnico e la sua conseguente valutazione oppure una copertura ne può addirittura impedire la completa visione. Sicuramente sono casi limite, ma non possono essere completamente esclusi e statisticamente hanno una certa incidenza.
Anche in questi casi la frustrazione dell’arbitro non è da sottovalutare e un tipo di precedente può innestare un pericoloso iter in caso di ripetizione di nuove ritrattazioni di giudizio sul fraseggio schermistico.
Una quarta riflessione si riferisce al continuum che il Regolamento impone allo svolgimento del match sulla pedana: ogni ritardo della ripresa del combattimento al di fuori della precisa casistica da esso prevista comporta una sanzione da parte dell’arbitro, proprio perché un’interruzione del confronto può in linea teorica favorire o sfavorire uno dei due combattenti.
E in effetti tra richiesta di replay, spostamento fisico dell’arbitro nell’apposita postazione, visione dello spezzone (talvolta anche doverosamente visto più volte), consultazione con l’assistente e infine ritorno a bordo pedana non passa certo poco tempo: il ritmo dello scontro è piuttosto alterato e certe situazioni di ordine fisico o psicologico subiscono un’inopportuna alterazione. E questo, come sappiamo, si può ripetere più volte nell’ambito del match.
Ma è soprattutto un’ultima conclusiva considerazione che non può non essere presa in debito conto.
Il match è una manifestazione di capacità umane messe in competizione: prestazioni fisiche, acquisite abilità tecniche, controllo emozionale, generale controllo delle risorse in prospettiva tattica e strategica; tutte utilissime doti umane, compreso il celebre alibi dell’errare humanum est.
Ebbene tutto questo umanesimo nel suo manifestarsi ben si accompagna e si accorda ad un altrettanto uguale umanesimo di chi dirige il combattimento, pur con tutti i suoi pari limiti dell’errare humanum est.
Un evento umano non può essere gestito da macchine senza anima e quindi senza intuizione o interpretazione: che valore ha un evento che supera la capacità percettiva dell’uomo se non può essere visto e apprezzato nella sua manifestazione e si deve ricorrere ad uno strumento?
Sono stato arbitro anch’io, anzi a dire il vero presidente di giuria: la sensazione dell’efficacia di un’uscita in tempo, della priorità di un attacco portato secondo i canoni prescritti o di una riuscita parata e risposta erano supportati da una vera e propria sensazione tutta umana, senza valutazione di millimetri o millisecondi. L’errore, ovviamente in buonissima fede, era sempre al varco, ma, essendo messo in doveroso preventivo, era un elemento imprescindibile dell’esito del match e la teoria dei maestri, probabilmente mai ben verificata, era che a fine gara le stoccate tolte e quelle regalate facevano, come si dice qui a Firenze, poggio e buca.
L’attuale replay certamente permette di correggere una certa percentuale di errori arbitrali, ma gli errori arbitrali in senso lato continuano a imperversare sulle pedane di tutto il mondo: conveniva alla Scherma vendere la sua anima?
Come vedete alla fine sono riuscito a gridare la mia voce nel deserto; c’è qualcuno che mi fa da eco?
M° Stefano Gardenti
A Montemignaio nell’agosto del 2020
Scherma e sciabola non elettrificata
Le ultime generazioni di sciabolatori, tutte figlie della dilagante tecnologia, forse non tutte sanno che prima la sciabola, ultima tra le specialità della scherma, non era dotata di segnalazione automatica delle stoccate.
Infatti si navigava a vista …andando molto spesso a sbattere contro gli scogli! E la cosa era talmente vera che i maestri, veri saggi dell’ambiente, consolavano i loro allievi bitaglienti con la celeberrima ed usurata frase: “Non ti arrabbiare con l’arbitro, tanto alla fine della gara le stoccate che non ti hanno dato pareggiano con quelle che ti hanno invece regalato”.
Non ci credevano nemmeno loro, perché visibilmente il campione già affermato aveva, diciamo, un credito di stima da parte degli assessori, mentre il meno titolato doveva mettere magari un paio di stoccate in più! Anche le targhe dei club (quelle che ogni schermitore non espone là dove non splende il sole) garantivano un certo vantaggio, ma, si sa, è l’eterna legge dei potenti.
Voglio specificare subito: tutto frutto non di corruzione o simpatie, ci mancherebbe altro; ma gli sciabolatori, credetemi, non partivano dalla stessa linea dei blocchi di partenza.
Comunque i bitaglienti avevano un altro mestiere tra le mani, quello di attore: per influenzare gli assessori realizzavano delle sceneggiate alla Mario Merola e nel descrivere, naturalmente a proprio vantaggio, la ricostruzione delle azioni diventavano dei mimi migliori del francese Marcel Marceau. Negli assalti di sciabola c’era quindi uno spettacolo nello spettacolo.
In un altro articolo credo di avervi illustrato il cervellotico sistema di punteggio, d’altra parte non c’era altro da fare che aguzzare la vista e l’udito; sì, proprio l’udito, perché tante volte la stoccata era tirata così velocemente che l’occhio non la percepiva, ma il timpano sì. E anche la tonalità era importantissima, perché il suono tap evidenziava acusticamente che la stoccata era stata portata non di taglio bensì di piatto, quindi era da ritenere nulla.
Comunque per gli sciabolatori era una pacchia e ve lo so dire bene perché per un paio d’anni abbondanti della mia carriera agonistica sono stato bitagliente anch’io: gli altri avevano pendagli elettrici da tutte le parti e per di più nel fioretto c’era il giubbetto elettrico, la cui età veniva calcolata in base al verderame che compariva nelle vicinanze della ascelle o della gorgiera della maschera. Invece i bitaglienti, così soprannominati dai più attenti perché potevano colpire di taglio e di controtaglio ma mai di piattonata, non avevano orpelli voltiani di sorta, ma erano tutti al naturale, stile tragico duello tra Achille ed Ettore.
Da sciabolatore evitavi una lunga serie di noiose incombenze: innanzitutto evitavi di doverti tirare su la zip del giubbetto di fioretto che era come chiudere lo sportello di un forno, in qualche frangente tipo girone duro o periodo di gara non invernale una vera e propria fornace, forno in cui cuocevi a fuoco non lento – poi c’era da infilare il passante, magari con macchinoso ingresso a baionetta, nella presa di coccia – poi c’era da sistemare la lunghezza del passante che fuoriusciva dalla manica; con il mistero che non era mai di lunghezza giusta, ma sempre troppo corto o troppo lungo e quindi tira di qui o tira di là.
Poi c’erano da sopportare anche lunghe e incresciose situazioni: ti mettevi in guardia, ti davano l’a-voi e solo dopo, quasi sempre solo dopo e non prima, la macchina segnalava luce bianca per un contatto; come prima cosa invertivi il verso del passante della presa di coccia più per cabala che per una appurata verità scientifica; ti facevi battere sul ferro dall’avversario e andava tutto bene; poi ti rimettevano in guardia, davano l’a-voi e rieccoci con segnale bianco. Invertivi l’arma con l’avversario per un primo responso, poi arrivava il tecnico delle armi …e il peggio che ti poteva capitare era che dovevi cambiare il passante.
Invece gli sciabolatori scendevano in pedana quasi come mamma li aveva fatti, niente tecnologia, schermitori, come dire, acqua e sapone.
Altra cosa interessante era l’aspetto economico: in mancanza di orpelli elettrici, l’equipaggiamento degli sciabolatori era molto meno costoso dei cugini fiorettisti e spadisti e quando ti capitava di rompere una lama, non essendoci di mezzo la sua elettrificazione, pagavi solo l’acciaio (o quello che era) e non ti mettevi a piangere per il suo costo.
D’altra parte le puntate nella sciabola sono abbastanza rare e quindi si evita la dinamica che statisticamente procura più rotture della lama. Nella sciabola, lo ricordo bene, la lama si spezza quasi sempre sotto la percussione di quella dell’avversario; sarà il secco suono di metallo, tipo duello al cinema, che percepisci, sarà il fatto che ti potevi permettere di romperne tre o quattro per far pari in quanto a costi con gli amici fiorettisti e spadisti, che in fin dei conti non ti dispiaceva più di tanto di disarmare o essere disarmato dall’antagonista …faceva tanto situazione duello!
Infine passatemi una constatazione: D’Artagnan sarà stato anche affascinante, ma sappiamo tutti che non impugnava il fioretto perché non esisteva nella realtà storica; Re Artù e Orlando per alzare la loro spada dovevano ricorrere faticosamente ad entrambe le braccia e i loro movimenti erano lenti ed impacciati.
In effetti il più simpatico e scattante era don Diego de la Vega, il celeberrimo Zorro e, cosa di non poco conto, combatteva da solo contro tanti cattivi (tranne il sergente Garcia); e Zorro impugnava una sciabola.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel maggio del 2019
I
Scherma e Convenzione schermistica
La nostra disciplina affonda le sue radici in quanto di più pragmatico possa esistere, la sopravvivenza. In effetti le cosiddette armi bianche, sino ai primi tentativi di applicazione nel XII secolo della polvere da sparo, hanno costituito, in una miriade di fogge, l’unico mezzo con cui un uomo, da solo o in schiere organizzate, cercava di prevaricare fisicamente un avversario.
Dal rame si è passati al bronzo, poi al ferro e finalmente all’acciaio, ma il fine era sempre uguale: sottomettere, il più delle volte con le cattive e fino alle estreme conseguenze, un nemico.
La scherma sportiva ha ovviamente eliminato tutte le zavorre più o meno cruente della realtà storica; ha filtrato oculatamente tutte le sue componenti pericolose per l’incolumità fisica e, normalizzando regole di combattimento e conformazione delle armi, ha mantenuto l’essenza, per noi magnifica e divertente, dello scontro: due persone, armi bianche alla mano, si contendono la vittoria.
In effetti si è dovuti intervenire convenzionalmente per meglio organizzare le singole tenzoni ed evitare le spiacevoli situazioni (viste spesso nei film di cappa e spada) tramite le quali il cattivo di turno cerca di vincere a tutti i costi: gettare terra o peggio ancora sabbia negli occhi dell’avversario, scagliargli addosso vasellame e quant’altro di contundente è a portata di mano, ferirgli artatamente il cavallo che sta cavalcando e, cosa vilissima, mettersi due tre o più contro uno solo (roba da guardie del cardinale Richelieu).
Quindi è di facile intuito, come abbiamo ricordato poco sopra, il ricorso a tutta una serie di norme che regolassero in modo minuzioso sia la fattezza delle armi, sia il comportamento dei due contendenti.
Gli attrezzi utilizzati sono tutti normalizzati, ovvero tutte le loro caratteristiche, peso – lunghezza – conformazione di lame e cocce – manici, sono specificate in dettaglio al fine di rendere uguali per tutti le opportunità di partenza.
Si interviene anche sul modo di agire dei due schermitori: il gioco non deve essere violento, è vietato utilizzare il braccio non armato, quando uno dei due contendenti perde la presa sull’arma viene dato l’alt e così via.
Anche lo spazio, la cosiddetta pedana, ed il tempo, ovvero la durata dell’incontro, sono oggetto di minuziosa regolamentazione.
Bene, logico, anzi molto logico: ogni competizione deve prevedere certe situazioni e, più queste sono previste e collegate ad una sanzione conosciuta, più il gioco fila via liscio.
Ma tutto questo che cosa c’entra con la Convenzione schermistica?! L’attacco inizia da destra e tocca; ma chi è a sinistra e tira sul tirare? La stoccata finisce sul braccio appena al di fuori del tronco del corpo e quindi non vale!
Eppure la scherma deriva dalla realtà (bruttissima) del duello (speriamo almeno al primo sangue!). Per capirci qualcosa dobbiamo fare alcune considerazioni, soprattutto di carattere storico.
Lo spartiacque tra il principio di realtà e la Convenzione nasce allorché qualche intelligente e futurista collega maestro elabora una metodologia d’insegnamento basata su un attrezzo sconosciuto alla storia, il fioretto.
Ed è proprio l’esigenza didattica a richiedere un principio di astrazione: un’arma teorica che riesca a sunteggiare tutti i principi portanti della tecnica schermistica e consenta un’esposizione organica di tutti i concetti relativi sia alle posture delle varie parti del corpo dello schermitore, sia alle possibili evoluzioni spaziali della lama, sia ai potenziali rapporti di quest’ultima con quella dell’avversario.
Ovviamente si sceglie un’arma leggera che innanzitutto affatichi il meno possibile il braccio armato e che consenta, approfittando della sua maneggevolezza, di poter acquisire tutte quelle doti connesse alla destrezza: precedenza di pugno, economia e quindi velocità negli spostamenti, capacità di svincolo ed elusione del ferro avversario, stretta in tempo per i vari tipi di rapporto con la lama antagonista, sentiment du fer.
In tal modo allievo e maestro, tramite una frattura con la realtà, hanno l’opportunità di affrontare i grandi temi della tecnica schermistica: il concetto di attacco, di difesa, di controtempo e soprattutto il concetto di consequenzialità della frase schermistica, composta, come ben sappiamo ed apprezziamo, da un intreccio collegato tra presupposti e relative possibili contrarie.
Così facendo, viene a crearsi una specie di mondo delle idee di platonica memoria, mondo in cui, permangono sì i principi della realtà, ma un habitat a mezza strada, appunto tra realtà e teoria, in cui il riferimento base è la logica schermistica.
In effetti, per dare un certo ordine sistematico allo scontro, si è scelto il criterio che l’iniziativa d’attacco, portata secondo certi canoni (braccio naturalmente disteso e punta minacciante un bersaglio valido) ha sempre ragione (in termini simili al codice della strada potremmo dire che ha la precedenza); ma la condizione è che esso arrivi su un bersaglio (anche non valido), altrimenti ecco che, ovviamente, torna alla ribalta il criterio della realtà. Il discorso, come sappiamo, continua, con la parata ed il relativo diritto alla risposta; in terza battuta alla contro parata …e così all’infinito, appunto a confermare e certificare l’andazzo assolutamente teorico dell’impostazione dello scontro.
Una scelta successiva, più o meno indotta e clamorosamente in contrasto con la realtà, è quella poi di restringere l’ampiezza del possibile bersaglio ritenuto convenzionalmente valido: dal corpo dell’avversario vengono così enucleati gli arti e la testa (come abbiamo già riferito nella sciabola solo le gambe, in quanto troppo vicine per poter garantire l’incolumità del cavallo sottostante); la superficie da colpire è individuata solo in quello che in gergo è denominato bersaglio grosso ed è difficile non pensare al fatto di ravvedere in esso la sede degli organi vitali, quindi bersaglio, se raggiunto, da considerarsi definitivo.
A questo proposito è molto interessante fare una considerazione di carattere tecnico: il fatto di poter colpire validamente l’avversario solo al tronco del corpo indubbiamente costringe i due contendenti alla cosiddetta stretta misura (e questo differentemente dalla realtà storica: duello docet).
In tal modo viene posto in primo piano il rapporto tra i due ferri e, mi si perdoni il termine, il gioco tra di essi. In effetti quando due persone si affrontavano sul terreno ben si guardavano da certe azioni e situazioni: ad esempio, chi si arrischiava a fare un arresto in primo tempo su un’azione composta dell’avversario, rimanendo magari colpito in parallelo?! Chi eseguiva un filo, dopo essersi necessariamente scoperto per andare a cercare il legamento sulla lama dell’avversario, giusto prodromo di questa tipologia di colpo (i vecchi trattati lo denominavano appunto molto realisticamente invito di legamento)?! Con quale padronanza di sé un duellante cercava una seconda intenzione così dappresso all’antagonista?!
Ebbene oggi possiamo fare tutto ciò e provarne la relativa ebbrezza (attrezzatura di sicurezza a parte), perché esistono le armi convenzionali: il fioretto in primis, la sciabola come attaché. L’ansia da duello, fortunatamente oggi solo in ottica sportiva, è relegata alla sola specialità della spada, non a caso rubricata ancora come arma da terreno.
Il fiorettista e lo sciabolatore sono i veri teorici della scherma, scherma recepita, considerata e vissuta come una teoria basata su postulati precostituiti e accettati, appunto, come Convenzione schermistica.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2018
Scherma e evoluzione della tecnica schermistica in funzione della segnalazione automatica delle stoccate
L’uomo sin dai tempi più remoti si evolve senza sosta e affida alla tecnologia compiti sempre più importanti.
Oggi anche il mondo della scherma è dominato da strumentazioni sempre più avanzate, ma, ovviamente, non è stato sempre così.
Uno dei problemi fondamentali della nostra disciplina è sempre stato quello della verifica dell’esito del colpo, cioè del raggiungimento della punta o della lama sulla superficie di un bersaglio.
In origine, appunto senza il supporto di alcuna tecnologia, ciò era demandato alla sola capacità visiva umana e la questione era affidata addirittura a cinque coppie di occhi: in effetti il match era condotto da un presidente di giuria che si avvaleva della consulenza oculare di ben quattro assessori o giurati che fossero. Due, posizionati davanti ad uno dei due contendenti ciascuno da una parte diversa della pedana, avevano il compito di osservare chi i bersagli interni chi i bersagli esterni; gli altri due, naturalmente, erano disposti in modo simmetrico. Il presidente occupava la parte centrale dello schieramento e, per distribuire nel tempo equamente la sua ottica, ad un certo punteggio faceva addirittura scambiare la posizione ai due schermitori.
La questione quindi era non solo di raggiungere il bersaglio avversario, ma anche di rendere visibile il colpo alla giuria.
E’ intuibile cosa sia successo quando la tecnologia ha consentito ad un’apparecchiatura di sostituire la vista dell’uomo e quindi di divenire l’unica testimone della bontà del colpo; la cosiddetta materialità della stoccata da valore soggettivo (pur con tutta la buona volontà ed onestà dei giurati) e divenuto valore oggettivo. Hegel avrebbe parlato di salto qualitativo; tuttavia, senza naturalmente mettere in alcuna discussione la bontà complessiva del sistema automatico, permangono, come tutti sappiamo, alcune falle: ad esempio un colpo effettivamente giunto sul bersaglio può non essere registrato per una alterazione tecnica e in questo caso, anche se l’arbitro lo vede chiaramente, non può convalidarne in alcun modo la validità; oppure, caso contrario anche se piuttosto raro, la macchina segnalatrice può, sempre per guasti tecnici, evidenziare un colpo che non è stato vibrato e chi dirige il match deve effettuare una serie di considerazioni circa la distanza esistente tra i due contendenti e il contatto o meno tra le loro lame.
Comunque per arrivare a questo traguardo tecnologico la strada è stata dura e soprattutto lunga.
La spada, arma di sola punta, è stata la prima, diciamolo pure con termine improprio, ad elettrificarsi: in effetti la validità come bersaglio di tutto il corpo rendeva possibile la realizzazione di un circuito, abbastanza semplice, a cosiddetta chiusura. In pratica un interruttore a pulsante che, pressato secondo certi parametri regolamentari, consentiva l’accensione di una spia luminosa connessa alla vibrazione di un cicalino; per la registrazione del previsto colpo doppio era sufficiente un temporizzatore di chiusura di contatto per impedire la registrazione di un secondo colpo giunto con un previsto distacco temporale. E siamo verso la metà degli anni trenta.
Il fioretto, anche lui arma di sola punta, presentava un problema non indifferente in quanto, come sappiamo, distingue i suoi bersagli in validi e non validi. La strada del circuito a chiusura quindi non era la sola praticabile e in effetti i tecnici hanno risolto la questione ricorrendo in parallelo ad un circuito ad apertura: in pratica la corrente continua a passare su un apposito giubbetto intessuto di conduttori che ricopre solo il bersaglio ritenuto valido e il colpo che lo raggiunge ha l’effetto di interrompere appunto tale passaggio di corrente, producendo la segnalazione del raggiungimento solo della superficie di tale bersaglio; qui la speranza è quella di essere riuscito a farmi capire! E questa fu una conquista della metà degli anni cinquanta.
La sciabola, oltre la questione condivisa con il fioretto della bipartizione tra bersagli validi e non validi, evidenziava il grosso problema connesso al fatto che, oltre che di punta, i colpi possono essere portati anche di taglio e controtaglio. I tecnici sono comunque riusciti a bypassare anche questa difficoltà; e siamo alla fine degli anni ’80.
Finalmente nella scherma gli occhi insistentemente fisi sui bersagli sono stati sostituiti da appositi sensori cui compete in modo esclusivo dirimere la questione della materialità della stoccata: tocca, non tocca, tocca ma in bersaglio non valido.
Da tutto ciò una serie di considerazioni sui risvolti che la fruizione della tecnologia ha comportato sia sulla tecnica che sulla tattica schermistica.
In primis sulla fruizione della velocità: come abbiamo accennato poco sopra per essere visibile il colpo doveva essere portato in modo tale da essere percepito dalla giuria; di conseguenza un tempo, si fa così per dire, supersonico rischiava di nascondere la stoccata.
Soprattutto nelle due armi convenzionali, lo stesso sviluppo ordinato del fraseggio tra le due lame, o almeno questo era il tentativo che entrambi gli schermitori perseguivano, era quello di sviluppare un preordinato dialogo preconfezionato dal punto di vista tecnico, dialogo in cui il raggiungimento finale del bersaglio era inserito come tappa finale del colpo, prima in relazione all’attacco, poi alla risposta e così via. In altre parole un’azione ordinata favoriva non poco anche la verifica dell’esito della stoccata stessa.
Anche il ricorso alla metodologia in attacco della doppia finta, oggi divenuta desueta, testimoniava un’esigenza di limitare l’applicazione della velocità, fruendo in sostituzione ad essa di un meccanismo più complesso per invischiare ed ingannare il ferro avversario.
La nuova realtà tecnologica permetteva invece la piena esaltazione della velocità; conseguentemente la prestazione poteva sempre più esaltare la componente atletica rispetto a quella tecnica, invertendo quella che era stata la polarizzazione storica dei due valori in discussione. Prima si tendeva, una volta portata la stoccata, a far permanere la punta sul bersaglio quanto più possibile, quasi in modo ostentativo per farne constatare il buon esito; ora questo non serviva più.
Altra importantissima questione tecnica connessa all’introduzione della macchina segnalatrice dei colpi fu, ovviamente soprattutto nel fioretto, l’equiparazione di tutti i bersagli
Prima, naturalmente, si cercava di indirizzare i colpi nelle zone corporee più visibili in quanto meno coperte dal braccio armato dell’avversario, ovvero ai bersagli interni, prediligendo quello alto, cioè il petto; tirare al fianco anche con la giusta angolazione già esponeva a certi rischi, per non parlare poi dei colpi indirizzati alla schiena o all’esterno alto.
In effetti, torno a dirlo, toccare e far vedere il colpo, era il binomio inscindibile su cui poter contare per aggiudicarsi la stoccata: completamente inutile essere veloci come la luce e mettere la stoccata in un batter d’occhio oppure far giungere il colpo sotto il braccio armato in una zona poco controllabile dal presidente di giuria e dai suoi giurati. In una sola parola, vedere per credere.
La segnalazione automatica delle stoccate ha anche, se si può dir così, liberalizzato al massimo l’utilizzo delle uscite in tempo: in effetti il ravvicinamento dei corpi dei due schermitori prodotto da questa categoria di azioni aumentava a dismisura la difficoltà di constatare con la vista il raggiungimento dei bersagli; prima vigeva una presunzione di giudizio, tipo quella esistente nel gioco del calcio a favore del difensore contro l’attaccante nella propria area: chi sviluppava l’attacco era senz’altro molto più ben “visto” che non l’avversario che magari eseguiva una contrazione o un’inquartata (questi colpi dovevano proprio essere netti). Oggi quello che conta, ed è giusto che sia così, è toccare e non essere toccati.
Altra grande innovazione garantita dalla realtà dei colpi effettivamente pervenuti sul bersaglio fu la sospirata ed agognata equalizzazione degli schermitori. Attenzione questo non vuole assolutamente essere un atto di accusa nei confronti delle giurie dell’epoca; vuol solo significare quello che era sotto gli occhi di tutti: ad un campione bastava un urletto più acuto per far vedere e giudicare la sua stoccata meglio di quella di un signor nessuno che c’era dall’altra parte. Chiamatela sudditanza psicologica, presunzione di valore o come volete, si trattava di una dato reale, torno a dire di natura assolutamente involontaria, ma reale. Prova ne sia che molti campioni di prima cominciarono a vincere meno e a perdere di più.
Tutto bene, anzi benissimo nella spada, la specialità dei triangolari dove la tecnologia ha potuto addirittura discernere in modo assoluto la giusta condivisione del colpo doppio; come si potesse prima dell’avvento tecnologico vigilare sia sulla validità del colpo, sia sull’eventuale differenza temporale tra le due stoccate concomitanti, resta un mistero.
Non altrettanto bene sono andate le cose per gli sciabolatori in quanto la Federazione Internazionale ha dovuto stabilire una serie di priorità tra scelte in conflitto tra loro.
Prima il raggiungimento di un bersaglio non valido bloccava il proseguo dell’azione nella ricostruzione a cura del presidente di giuria; e prima i colpi dovevano essere portati di taglio o di controtaglio, mentre le cosiddette piattonate non procuravano l’assegnazione della stoccata. Prima potevi letteralmente “portar via la testa” con una sciabolata al tuo avversario e magari ti sentivi dire “non tocca”!
Oggi se tocchi o non tocchi te lo certifica solo la macchinetta, ma se colpisci sotto la cintura il tuo avversario, l’azione continua e quindi sei esposto alla sua reazione (sia in attacco che in risposta), quindi è stata cambiata e adattata alla situazione la Convenzione Schermistica. Oggi è sufficiente appoggiare qualsiasi parte della tua lama sul bersaglio valido del tuo antagonista, nessuno è in grado di vedere con quale zona del tuo ferro tocchi; e come avrebbero fatto i tecnici a rendere valido solo il contatto del taglio e del controtaglio?!
Personalmente concordo con la scelta della Federazione, perché ormai la velocità acquisita dagli sciabolatori era tale da essere, come si dice, più veloce della luce; l’enigma tocca o non tocca, in certe situazioni, era assurto a dubbio amletico. Indubbiamente certe soluzioni sono un po’ laceranti, ma bisogna anche riflettere che il problema è anche generazionale: in effetti i giovani sciabolatori non si porranno mai questi tormentosi dubbi tecnici!
Vorrei concludere queste brevi considerazioni con una provocazione o forse come un vero e proprio vaticinio: risolto il problema della materialità della stoccata e risolto anche, almeno per i più grossi tornei, il problema dei rulli e dei loro lunghi fili a fine pedana con la sostituzione di segnalazioni tramite impulsi radio, perché non ridisegnare il campo di gara, sostituendo il lungo rettangolo con un largo cerchio?! In effetti la definizione geometrica della pedana è nata per la possibile disposizione dei giurati, ma, se i giurati non ci sono più, ecco un’esaltante alternativa, diciamo alla Quattro moschettieri.
Chissà, vedremo.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno del 2020
Scherma e replay
Moviola è il termine italiano che imparammo a conoscere in ambito sportivo ovviamente con il football, scusate (!), con il calcio.
Inizialmente era piuttosto strano ed anche buffo quando i giocatori che si muovevano piano piano addirittura tornavano indietro nei loro movimenti. Poi si arrivò persino alla Filosofia, più precisamente all’etica: è giusto o non è giusto utilizzare la tecnologia per vedere ciò che l’occhio umano non riesce a percepire nell’attimo fuggente del gesto sportivo?! Sabiniani e Proculiani combatterono senza risparmio di colpi sino a quando prevalse la fazione dei realisti: l’uomo deve andare oltre se stesso e afferrare la realtà (o almeno tentare di farlo).
Il nostro mondo schermistico sotto questi aspetti tecnici è sempre stato un po’ conservatore, ma alla lunga ha dovuto allinearsi a questa filosofia arbitrale che si è imposta ormai quasi in ogni disciplina: nel calcio replay tridimensionale, nella pallavolo palle che si spiaccicano per terra, nel tennis il falco che tutto vede e così via.
Che dire …nulla! Perché il pericolo di essere “la voce che grida nel deserto” è decisamente incombente; quindi mi limiterò solo ad alcune questioni collaterali che per me, tuttavia, hanno una certa rilevanza.
Tutto nasce fondamentalmente per il fatto che la teoria schermistica ha deciso di dare un ordine teorico al fraseggio schermistico, rendendolo almeno in prima battuta avulso dalla realtà: nelle armi convenzionali, il fioretto e la sciabola, in caso di doppia segnalazione dei colpi tocca “chi ha ragione”.
La priorità assegnata alla precedenza di attacco, come ben sappiamo, è stata giustamente vincolata all’osservanza di determinati canoni quali la precedenza temporale dell’iniziativa, la percussione del ferro avversario o il suo dominio in partenza e così via. L’atleticizzazione del gesto tecnico e conseguentemente la sua velocità esecutiva rendono talvolta ardua la percezione in termini chiari di questi dati, per cui, tramite l’utilizzo del flessibile mezzo visivo si è cercato di ovviare ai limiti umani.
Ciò premesso, la prima considerazione da fare è che queste tecnologie per ovvie implicazioni di carattere economico non possono essere garantite a tutti: in effetti questi mezzi di ausilio agli arbitri sono presenti solo alle gare più importanti e prestigiose.
Viene quindi a crearsi una discrepanza tra competizione e competizione circa la qualità dell’arbitraggio e ci saranno schermitori che nella loro carriera mai potranno fruire degli indubbi vantaggi oggettivi offerti dalla tecnologia, vantaggi che invece andranno solo ad altri.
Ma non si tratta qui di problemi di presunta “democrazia sportiva”; qui si tratta del fatto che il sapere che sono un osservato speciale da parte di un sensore può indurmi a fare o anche a non fare certi gesti tecnici.
Mi spiego meglio: nelle armi convenzionali, dove come sappiamo lo sviluppo dell’attacco ha una priorità nella ricostruzione del fraseggio, c’era e c’è tuttora un vecchissimo trucco: comincio a muovermi in avanti (magari con il braccio armato un po’ rattrappito) e, quando vedo che il mio avversario prende l’iniziativa e mi tira addosso, allora produco un allungo e lo camuffo da passo avanti affondo. Quindi, se l’arbitro ha a disposizione il replay, posso essere facilmente smascherato, altrimenti probabilmente posso continuare a giocare sull’equivoco.
Una seconda delicata questione è rappresentata dalla tenuta psicologica dell’arbitro in caso che la ripetizione della frase schermistica lo costringa, coram populo, a dover cambiare la sua primitiva opinione. Siamo d’accordo che i direttori di combattimento hanno raggiunto al giorno d’oggi una grande professionalità, ma un paio di centimetri di mancata distensione del braccio armato, una frazione di secondo di ritardo in una partenza, una velocissima ricerca del ferro o similari situazioni prospettate dal Regolamento possono mettere statisticamente in crisi anche i migliori e andare ad alterare quella che forse è la più importante qualità di chi giudica, la serenità d’animo.
In effetti nel caso in cui, come da Regolamento, viene richiesta la consultazione del replay e la stoccata-contro sentenziata in un primo momento dall’arbitro non solo viene poi annullata, ma, in certi casi, addirittura ribaltata, si registra un pericolosissimo 1 per il tiratore contestatore – 0 per il direttore di scontro.
Terza riflessione; anche il mezzo tecnico può avere talvolta i suoi limiti: una prospettiva errata può alterare l’esatta percezione di un determinato gesto tecnico e la sua conseguente valutazione oppure una copertura ne può addirittura impedire la completa visione. Sicuramente sono casi limite, ma non possono essere completamente esclusi e statisticamente hanno una certa incidenza.
Anche in questi casi la frustrazione dell’arbitro non è da sottovalutare e un tipo di precedente può innestare un pericoloso iter in caso di ripetizione di nuove ritrattazioni di giudizio sul fraseggio schermistico.
Una quarta riflessione si riferisce al continuum che il Regolamento impone allo svolgimento del match sulla pedana: ogni ritardo della ripresa del combattimento al di fuori della precisa casistica da esso prevista comporta una sanzione da parte dell’arbitro, proprio perché un’interruzione del confronto può in linea teorica favorire o sfavorire uno dei due combattenti.
E in effetti tra richiesta di replay, spostamento fisico dell’arbitro nell’apposita postazione, visione dello spezzone (talvolta anche doverosamente visto più volte), consultazione con l’assistente e infine ritorno a bordo pedana non passa certo poco tempo: il ritmo dello scontro è piuttosto alterato e certe situazioni di ordine fisico o psicologico subiscono un’inopportuna alterazione. E questo, come sappiamo, si può ripetere più volte nell’ambito del match.
Ma è soprattutto un’ultima conclusiva considerazione che non può non essere presa in debito conto.
Il match è una manifestazione di capacità umane messe in competizione: prestazioni fisiche, acquisite abilità tecniche, controllo emozionale, generale controllo delle risorse in prospettiva tattica e strategica; tutte utilissime doti umane, compreso il celebre alibi dell’errare humanum est.
Ebbene tutto questo umanesimo nel suo manifestarsi ben si accompagna e si accorda ad un altrettanto uguale umanesimo di chi dirige il combattimento, pur con tutti i suoi pari limiti dell’errare humanum est.
Un evento umano non può essere gestito da macchine senza anima e quindi senza intuizione o interpretazione: che valore ha un evento che supera la capacità percettiva dell’uomo se non può essere visto e apprezzato nella sua manifestazione e si deve ricorrere ad uno strumento?
Sono stato arbitro anch’io, anzi a dire il vero presidente di giuria: la sensazione dell’efficacia di un’uscita in tempo, della priorità di un attacco portato secondo i canoni prescritti o di una riuscita parata e risposta erano supportati da una vera e propria sensazione tutta umana, senza valutazione di millimetri o millisecondi. L’errore, ovviamente in buonissima fede, era sempre al varco, ma, essendo messo in doveroso preventivo, era un elemento imprescindibile dell’esito del match e la teoria dei maestri, probabilmente mai ben verificata, era che a fine gara le stoccate tolte e quelle regalate facevano, come si dice qui a Firenze, poggio e buca.
L’attuale replay certamente permette di correggere una certa percentuale di errori arbitrali, ma gli errori arbitrali in senso lato continuano a imperversare sulle pedane di tutto il mondo: conveniva alla Scherma vendere la sua anima?
Come vedete alla fine sono riuscito a gridare la mia voce nel deserto; c’è qualcuno che mi fa da eco?
M° Stefano Gardenti
A Montemignaio nell’agosto del 2020
Scherma e sciabola non elettrificata
Le ultime generazioni di sciabolatori, tutte figlie della dilagante tecnologia, forse non tutte sanno che prima la sciabola, ultima tra le specialità della scherma, non era dotata di segnalazione automatica delle stoccate.
Infatti si navigava a vista …andando molto spesso a sbattere contro gli scogli! E la cosa era talmente vera che i maestri, veri saggi dell’ambiente, consolavano i loro allievi bitaglienti con la celeberrima ed usurata frase: “Non ti arrabbiare con l’arbitro, tanto alla fine della gara le stoccate che non ti hanno dato pareggiano con quelle che ti hanno invece regalato”.
Non ci credevano nemmeno loro, perché visibilmente il campione già affermato aveva, diciamo, un credito di stima da parte degli assessori, mentre il meno titolato doveva mettere magari un paio di stoccate in più! Anche le targhe dei club (quelle che ogni schermitore non espone là dove non splende il sole) garantivano un certo vantaggio, ma, si sa, è l’eterna legge dei potenti.
Voglio specificare subito: tutto frutto non di corruzione o simpatie, ci mancherebbe altro; ma gli sciabolatori, credetemi, non partivano dalla stessa linea dei blocchi di partenza.
Comunque i bitaglienti avevano un altro mestiere tra le mani, quello di attore: per influenzare gli assessori realizzavano delle sceneggiate alla Mario Merola e nel descrivere, naturalmente a proprio vantaggio, la ricostruzione delle azioni diventavano dei mimi migliori del francese Marcel Marceau. Negli assalti di sciabola c’era quindi uno spettacolo nello spettacolo.
In un altro articolo credo di avervi illustrato il cervellotico sistema di punteggio, d’altra parte non c’era altro da fare che aguzzare la vista e l’udito; sì, proprio l’udito, perché tante volte la stoccata era tirata così velocemente che l’occhio non la percepiva, ma il timpano sì. E anche la tonalità era importantissima, perché il suono tap evidenziava acusticamente che la stoccata era stata portata non di taglio bensì di piatto, quindi era da ritenere nulla.
Comunque per gli sciabolatori era una pacchia e ve lo so dire bene perché per un paio d’anni abbondanti della mia carriera agonistica sono stato bitagliente anch’io: gli altri avevano pendagli elettrici da tutte le parti e per di più nel fioretto c’era il giubbetto elettrico, la cui età veniva calcolata in base al verderame che compariva nelle vicinanze della ascelle o della gorgiera della maschera. Invece i bitaglienti, così soprannominati dai più attenti perché potevano colpire di taglio e di controtaglio ma mai di piattonata, non avevano orpelli voltiani di sorta, ma erano tutti al naturale, stile tragico duello tra Achille ed Ettore.
Da sciabolatore evitavi una lunga serie di noiose incombenze: innanzitutto evitavi di doverti tirare su la zip del giubbetto di fioretto che era come chiudere lo sportello di un forno, in qualche frangente tipo girone duro o periodo di gara non invernale una vera e propria fornace, forno in cui cuocevi a fuoco non lento – poi c’era da infilare il passante, magari con macchinoso ingresso a baionetta, nella presa di coccia – poi c’era da sistemare la lunghezza del passante che fuoriusciva dalla manica; con il mistero che non era mai di lunghezza giusta, ma sempre troppo corto o troppo lungo e quindi tira di qui o tira di là.
Poi c’erano da sopportare anche lunghe e incresciose situazioni: ti mettevi in guardia, ti davano l’a-voi e solo dopo, quasi sempre solo dopo e non prima, la macchina segnalava luce bianca per un contatto; come prima cosa invertivi il verso del passante della presa di coccia più per cabala che per una appurata verità scientifica; ti facevi battere sul ferro dall’avversario e andava tutto bene; poi ti rimettevano in guardia, davano l’a-voi e rieccoci con segnale bianco. Invertivi l’arma con l’avversario per un primo responso, poi arrivava il tecnico delle armi …e il peggio che ti poteva capitare era che dovevi cambiare il passante.
Invece gli sciabolatori scendevano in pedana quasi come mamma li aveva fatti, niente tecnologia, schermitori, come dire, acqua e sapone.
Altra cosa interessante era l’aspetto economico: in mancanza di orpelli elettrici, l’equipaggiamento degli sciabolatori era molto meno costoso dei cugini fiorettisti e spadisti e quando ti capitava di rompere una lama, non essendoci di mezzo la sua elettrificazione, pagavi solo l’acciaio (o quello che era) e non ti mettevi a piangere per il suo costo.
D’altra parte le puntate nella sciabola sono abbastanza rare e quindi si evita la dinamica che statisticamente procura più rotture della lama. Nella sciabola, lo ricordo bene, la lama si spezza quasi sempre sotto la percussione di quella dell’avversario; sarà il secco suono di metallo, tipo duello al cinema, che percepisci, sarà il fatto che ti potevi permettere di romperne tre o quattro per far pari in quanto a costi con gli amici fiorettisti e spadisti, che in fin dei conti non ti dispiaceva più di tanto di disarmare o essere disarmato dall’antagonista …faceva tanto situazione duello!
Infine passatemi una constatazione: D’Artagnan sarà stato anche affascinante, ma sappiamo tutti che non impugnava il fioretto perché non esisteva nella realtà storica; Re Artù e Orlando per alzare la loro spada dovevano ricorrere faticosamente ad entrambe le braccia e i loro movimenti erano lenti ed impacciati.
In effetti il più simpatico e scattante era don Diego de la Vega, il celeberrimo Zorro e, cosa di non poco conto, combatteva da solo contro tanti cattivi (tranne il sergente Garcia); e Zorro impugnava una sciabola.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel maggio del 2019
Interiorità
Indice
1 Scherma e aggressività
2 Scherma e amici – nemici
3 Scherma e amore
4 Scherma e armonia
5 Scherma e le attese di un tempo
6 Scherma e benefici
7 Scherma e i benefici influssi dell’avversario
8 Scherma e concentrazione
9 Scherma e coraggio
10 Scherma e decalogo
11 Scherma e desiderio
12 Scherma e doti dello schermitore
13 Scherma e esperienza
14 Scherma e logica
15 Scherma e rabbia
16 Scherma e sacrificio
17 Scherma e sangue freddo
18 Scherma e sconfitta
19 Scherma e sconfitta – bis
20 Scherma e stati d’animo
21 Scherma e touché
22 Scherma e volontà
Scherma e aggressività
Certa letteratura e certa filosofia talvolta non concedono molti alibi all’uomo: il Foscolo nei Sepolcri parla di umane belve e l’Hobbes parla di homo homini lupus, ricalcando tra l’altro un’immagine già di Plauto.
L’uso delle armi, a cominciare da quelle bianche, non è certo un bel viatico: dopo la clava o suoi parenti stretti, per secoli chi ne aveva la possibilità economica si cingeva al fianco una spada per difesa personale o almeno questa era la velata scusa in quanto ne erano in possesso anche i malfattori o quantomeno i prepotenti.
Poi la polvere da sparo alla fine liquidò la diatriba tra spade e sciabole e le lame sopravvissero e sopravvivono ancora oggi come strumenti edulcorati.
Il testimone però intanto era già stato passato dalla realtà quotidiana alle sale di scherma di carattere sportivo: quindi non più scuole militari dove le armi sono di casa e nemmeno le sale private nobiliari dove si apprendeva il maneggio delle lame come oggi si prende la patente di guida.
Quale verbo più di edulcorare spiega questo passaggio di consegne: il pallino applicato alla punta rende meno grave o sgradevole l’uso delle armi; anzi fa di una cosa orribile forse uno dei più bei giochi al mondo come lo testimonia la diffusione in ordine storico della figura di D’Artagnan, Zorro, Duke Skywalker e similari.
Quindi, edulcorata la possibilità di procurarsi delle ferite volontarie, edulcorata la consuetudine di risolvere con un duello le controversie personali, edulcorate le prepotenze perpetrate con un’arma in mano, dell’antico passato resta quindi solo l’aggressività; di questa sembra proprio che l’uomo non possa fare proprio a meno.
Già, ma un aggressività ingentilita e incanalata da un Regolamento sportivo che nulla concede alla slealtà: ecco gli equipaggiamenti normalizzati per tutti, ecco il saluto prima e dopo lo scontro sulla pedana, ecco l’alt dell’arbitro quando si perde l’equilibrio oppure la presa sul manico, ecco sanzioni di varia entità per tutti i comportamenti illeciti.
Ecco, anche e soprattutto, il touché cioè l’accusare di avere torto nello svolgimento della frase schermistica e quindi il riconoscimento spontaneo che la stoccata deve essere assegnata all’avversario. E’ l’apoteosi del valore dello scontro cortese, dove la verità regna sovrana e domina le passioni, i desideri e le pulsioni di carattere soggettivo. Non sono molte le Discipline che additano ai loro adepti questi valori morali ed etici per farne o almeno tentare di farne uomini migliori.
L’aggressività quindi si realizza tramite il potere di concentrazione che si deve tenere sempre vivo; si realizza con la decisione e la perentorietà di un proprio gesto tecnico, sia di attacco sia di difesa; si realizza nella giusta contrazione dei muscoli interessati e il loro fulmineo rilascio; si realizza nel credere fermamente nelle proprie possibilità e nell’utilizzarle al meglio; si realizza nel potere di concentrazione e nella capacità quasi spasmodica di attendere la giusta misura e il giusto tempo per scatenare un proprio attacco; si realizza nella precisa scansione spazio-temporale di meccanismi complessi tipo il controtempo o la finta in tempo.
Questi i variegati e suntati significati quando il maestro pronuncia la famosa frase: dai, aggressivo.
Se poi vogliamo essere sinceri, esiste anche un aspetto dell’aggressività che può rappresentare per lo schermitore una vera e propria zavorra comportamentale: l’accrescimento dei valori della fisiologia può innalzarsi troppo e quindi far sì che venga meno la razionalità e soprattutto la fluidità di azione sia mentale che fisica. Caricarsi fa bene, ma, memori delle molle dei vecchi giochi quando non c’erano le pile a fornire l’energia, il pericolo è di fare troppi giri con la chiavetta sino a far saltare la molla stessa; e allora sono guai seri.
L’aggressività quindi deve consistere in un caricamento delle energie dello schermitore , ma tale caricamento deve essere calibrato, misurato, controllato e non creare nessun eccesso psicomotorio.
L’aggressività si può espletare tecnicamente, soprattutto nell’attacco: le azioni semplici dei trattati poggiano l’efficacia del colpo soprattutto nella perentorietà del colpo ovviamente accompagnate da un’idonea scelta di misura e di tempo.
L’aggressività si espleta anche tatticamente tramite un’azzeccata uscita in tempo, talmente decisa e autoritaria che deve annichilire l’attacco dell’avversario senza ricorrere alla parata; addirittura nel controtempo ci sono due tipologie di aggressività: una simulata, che si prefigge di stimolare l’uscita in tempo antagonista, e una finale, che, dopo aver neutralizzato quest’ultima, si concretizza nel risolutivo colpo finale.
Se poi sussistessero ancora dubbi sul significato pregnante di aggressività, ci si può procurare un ideale sheker e buttarci dentro tutti questi aggettivi: pronto, deciso, risoluto, sicuro, pertinace, volitivo, saldo, fermo, tenace e perseverante …ma probabilmente mancherebbe ancora qualcosa, tanto composita e variegata è questa predisposizione, prima della mente e poi del corpo.
Tutto ciò però, inutile dirlo, negli ovvi limiti di un comportamento corretto e sportivo: in effetti il Regolamento, come ben sappiamo, vieta nel modo più assoluto un gioco violento; a questo proposito in effetti lo schermitore non deve mai dimenticare due cose: la prima è che, anche se edulcorate, impugniamo sempre delle armi bianche – la seconda che la scherma sportiva è la diretta erede non della tecnica di una Durlindana o di Excalibur, ma delle spade-sciabole che, dopo l’avvento delle armi da fuoco, basavano la loro fortuna non più sulla forza fisica, ma sulla destrezza fisica e mentale.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2021
Scherma – Amici e nemici
Sì, amici – nemici; talvolta basta poco, un semplice gesto come tirarsi giù la maschera da scherma sul viso, ed ecco la metamorfosi Ovidiana o, se preferite, Kafkiana: il tuo miglior amico, col quale avevi scherzato e riso sino a due secondi e mezzo fa, il veloce tempo di effettuare il saluto con l’arma ed ecco che lo vuoi sopraffare e battere sulla pedana, proprio come un nemico, come un avversario ostile dal quale temi qualcosa.
Questo ovviamente accade nelle sale di scherma dove in genere tutti si sentono fratelli, perché figli di uno stesso maestro e perché combattono per gli stessi colori sociali; purtroppo non si esclude la presenza talvolta di un Caino, l’inguaribile invidioso di turno; ma se il maestro e i dirigenti sono vigili e accorti sorge invece un sano e produttivo spirito di emulazione e …si ritorna fortunatamente a sorridere quando si alzano le maschere.
Un po’ diverso invece è ciò che accade alle competizioni, piccole o grosse che siano: magari c’è un po’ troppo campanilismo tra due società della stessa realtà territoriale oppure, purtroppo, non ottimi rapporti tra due maestri; magari c’è un precedente che altera un po’ i rapporti tra due tiratori, tipo una vittoria all’ultima stoccata con giudizio contestato all’arbitro o altro. I sorrisi sono un po’ più tirati, magari sarcastici, ma sono comunque sempre sorrisi. E poi, per rinsaldare certi principi, il Regolamento obbliga a fine match anche la stretta di mano, anche se per comodità quella non armata.
Comunque, magia della scherma: evoca i primordiali istinti di supremazia che transitano necessariamente da uno scontro che deve dare un verdetto assoluto: vittoria di uno, sconfitta dell’altro. Abbiamo edulcorato le nostre armi bianche, togliendo loro la possibilità di nuocere e procurare danno fisico (ci mancherebbe altro!), ma tutte le altre caratteristiche della sfida permangono: aggressività, fisicità, istintualità o raziocinio quando all’occasione servono l’una o l’altro, inganno utilizzato nella finte, perfidia applicata nel controtempo e nella seconda intenzione, astuzia infinita nella finta in tempo. Insomma lo schermitore non conosce: quando vede l’avversario da sotto la maschera diventa una pericolosa fiera con tutti i muscoli tesi al combattimento e in simultanea, una perfetta e implacabile macchina da guerra; almeno questo è il fine escatologico dell’insegnamento dei maestri.
Ma, torniamo a dirlo, basta un altro gesto, quello di sollevare le due maschere alla fine dello scontro, che torna il sorriso sul volto, almeno di quello che appartiene al vincitore si potrebbe sarcasticamente dire. Torna l’amico di sala o comunque l’avversario a cui sei legato da stima reciproca: torna la quiete dopo la tempesta, dice il poeta e il mondo riprende il suo normale ritmo affettivo e relazionale.
Tuttavia quando sei nel match, chi può negarlo, bracchi e sei braccato – pensi a te e pensi a ciò che l’altro può pensare di te – attacchi e sei attaccato – insegui e sei inseguito – osi e ti aspetti che osi anche il tuo avversario – decidi e sai che decide anche l’altro; il meglio di te diventa inesorabilmente, ma logicamente il peggio per chi hai di fronte e la cosa è vicendevole. Il match è una lotta senza quartiere: sul tuo piatto della bilancia butti tutto ciò che è lecito sportivamente; se di caso togli e sostituisci i pesi rappresentati dalla tua tattica e dalla tua strategia; la fortuna, intesa come buona sorte, talvolta aggiunge qualche grammo, intesa invece come sfortuna talvolta ne sottrae qualcuno. Poi si va alla pesa finale per il responso sull’esito della sfida.
Così assalto dopo assalto nella propria sala, match dopo match nelle competizioni ufficiali, stagione agonistica dopo stagione agonistica. Inesorabilmente diventiamo amanti del confronto, dobbiamo metterci sempre alla prova: siamo diventati dei guerrieri, del XXI secolo, ma sempre guerrieri.
Il fatto è che per nostra fortuna le guerre non ci sono più, almeno vicine alle nostre pedane da scherma e quindi il nemico lo trovi solo calandoti la maschera sul volto e, in fin dei conti, è solo un competitore; non sarà forse sempre l’ideale amico del cuore, ma siamo sempre debitori verso di lui: ci ha permesso di guerreggiare e provare in specie l’antico sapore del duello, di quello sportivamente vero e non di quello causato nella passata storia molto spesso da futili motivi.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel settembre del 2019
Scherma e amore
Nella gamma dei sentimenti umani l’amore è probabilmente quello che offre le più numerose e diverse sfaccettature: magica e palpitante forza attrattiva.
Nasce tra gli esseri umani con diverse gradazioni e indirizzi sociali; dura per sempre o tramonta nell’arco di qualche primavera, chissà perché.
Nasce anche tra l’uomo e gli appartenenti al Regno animale e in questo caso è sicuramente molto più fedele.
Nasce per gli oggetti: il collezionista “ama” i suoi francobolli, il malacologo le sue conchiglie e il numismatico le sue monete. Le cose assumono quasi un’anima e trasmettono sentimenti.
Ci sono amori poi che vanno oltre, di più ampio respiro, di afflato metafisico: sono gli ideali, cioè proiezioni nel mondo delle idee di valori profondi e viscerali; valori sociali, politici e religiosi. Ecco che Alessandro Magno sogna un impero universale per tutti gli uomini o l’Alfieri ed il Foscolo sognano un’Italia unita. Un tipo di amore questo che, ahimè, molto spesso nel corso della Storia ha condotto anche alla morte.
Il tipo di amore di cui ora vorrei parlarvi non arriva sicuramente a queste vette, ma certamente non è di livello solo collinare: parlo dell’amore per la scherma.
Quando uno entra per la prima volta in sala di scherma è sicuramente curioso e qualcosa evidentemente l’ha mosso in questo approccio, ma non si può certo amare ciò che ancora non si conosce.
Poi, quasi di volta in volta impercettibilmente e senz’altro inconsapevolmente, cominciano a spuntare i primi sentimenti.
In genere si fa amicizia con i propri compagni di corso: siamo tutti nelle stesse condizioni di neofita e il nostro non sapere è come una colla che ci unisce. Poi siamo umani e quindi nel gruppo troviamo il simpatico, ma anche l’antipatico; troviamo il generoso, ma anche l’egoista; opportunità ce ne sono tante e comunque cominciamo a fraternizzare.
Poi c’è la relazione con l’insegnante, maestro o istruttore che sia: noi non conosciamo lui e lui non conosce noi, ma sicuramente dopo un paio di allenamenti comincia in genere a piacerci, anche (e basterebbe solo questo) perché ogni volta ci insegna cose nuove e ci fa conoscere un mondo a noi finora sconosciuto.
Quando in seguito disputiamo i primi assalti facciamo conoscenza con l’essenza della scherma, il combattimento; magari le prime volte siamo talmente concentrati e siamo così emozionati che non lo percepiamo subito, ma poi un giorno ci rendiamo conto del divertimento che deriva dal tirare sulla pedana. Così cominciamo a spersonalizzare la Scherma e ad amarla come cosa in sé.
Il maestro nel corso del tempo ci svela nuove posture e nuovi colpi, ci fa percepire la tecnica schermistica come una costruzione logica fatta di presupposti ed opportune contrarie. La nostra curiosità si accende e ogni lezione può rivelarci nuove verità; ci innamoriamo del sapere.
Quando poi, aiutati dall’insegnante, scopriamo il mondo della tattica e quello della strategia restiamo affascinati da queste nuove ambientazioni della scherma, quasi come leggere il Viaggio al centro della terra o entrare nella giunga con Sandokan (magari il giovane lettore utilizzi similitudini per lui più attuali!). Ami quello che fai perché hai ancora tanto da scoprire.
Un bel giorno poi ti portano alla tua prima gara: in genere palpitazioni a non finire, che però scompaiono quando sei impegnato a combattere sulla pedana, magia della concentrazione! Anche se sei ancora giovane capisci che vincere è bello e tu vuoi vincere, ma spesso capita che non riesci a farlo; se hai fortuna, hai chi con giusti toni e giuste parole ti fa capire la verità: impegnati al massimo con l’allenamento, poi in gara si starà a vedere! Se riuscirai a recepire che il bello sta, oltre ovviamente nella vittoria, soprattutto nel cercare con tutti i tuoi mezzi di ottenerla, avrai capito l’intima forza che deve animare lo schermitore. In altre parole amerai la sfida, il combattere di per sé.
E intanto passa il tempo: con i compagni di sala le conoscenze diventano amicizie talvolta anche profonde e con il maestro cresce un’intima stima reciproca; non tutti, ma molti avversari che incontri alle gare anche loro diventano per te amici – nemici e nemici – amici; conosci e simpatizzi (questo è un po’ più difficile!) con arbitri, presidenti di torneo, armieri, maestri di altri club, con genitori vari. Il tuo mondo schermistico si popola di tanti volti e rapporti reciproci.
Se poi ti capita di essere bravo, si dischiudono altri orizzonti: vai a competere all’estero e le occasioni di conoscere e fraternizzare si moltiplicano, vedi nuove città e nuove nazioni. Come si fa a non apprezzare e amare queste belle opportunità?!
Un giorno, dopo anni che tiri di scherma, ti giri indietro e guardi il tuo cammino: ora sei un cittadino di un vasto mondo e, a prescindere dalle tue personali fortune agonistiche, fai parte del popolo degli schermitori, di tutti gli schermitori, anche di quelli che ancora non conosci e probabilmente non conoscerai mai.
Ci sarebbe un’ultima interessantissima opportunità: dopo la nostra iniziazione, dopo la nostra crescita tecnica, dopo la nostra attività agonistica, ci sarebbe da scoprire, naturalmente a suo tempo, la galassia della scherma, cioè tutte le cose che stanno dietro al solo impugnare un’arma e salire su una pedana a combattere contro l’avversario.
C’è da scoprire la storia della nostra disciplina: i vecchi magari sorpassati trattati al fine di capire come si sia evoluta la tecnica, i volti dei vecchi campioni e dei loro maestri per tributare loro il nostro giusto apprezzamento.
C’è da capire la geometria e le leggi fisiche che stanno dietro a ciascuna postura tecnica o colpo da vibrare; questo per andare oltre gli insegnamenti di carattere pratico che ci sono stati impartiti da allievi.
C’è da documentarsi sulle varie soluzione tecniche che le diverse scuole offrono come soluzione alternative ai problemi insorgenti sulla pedana.
C’è tutto un mondo da scoprire e cercare di soddisfare …”L’amore della sapienza schermistica”.
Ora avete capito perché l’amore per la Scherma è …per sempre!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e armonia
Il dizionario, oltre i tanti significati del termine armonia relazionati al suono, cita testualmente anche: “con significato più ampio, armonia significa proporzione e conveniente accordo di più parti o elementi”.
Ed è proprio questo l’aspetto che vogliamo trattare in modo specifico in questo articolo.
Ho già avuto più occasioni per evidenziare il fatto che lo schermitore quando sale in pedana viene a costituire un vero e proprio sistema, appunto il sistema-schermitore.
Ma praticamente di cosa stiamo parlando?
Per rispondere a questa domanda basta osservare con attenzione uno schermitore, diciamo di buona caratura agonistica, mentre sta competendo con il suo avversario.
La prima impressione è appunto quella di vedere deambulare agilmente il corpo in avanti e all’indietro secondo le variabili circostanze: il lavoro degli arti inferiori viene prodotto senza che il tronco risenta eccessivamente di questi spostamenti repentini, quindi niente marcati sobbalzi o sensibili inclinazioni del busto dovuti a passi di ampiezza esagerata. Infatti questi effetti collaterali del movimento andrebbero ad influenzare negativamente l’operatività della parte superiore del corpo dello schermitore.
Comunque la maggiore attenzione dell’osservatore, per ovvi motivi, viene sempre incentrata sul braccio armato, che costituisce, senza alcun dubbio di sorta, la parte apicale di tutto il surricordato sistema-schermitore, che in effetti elabora le azioni di attacco e quelle di difesa, subito seguite da quelle di auspicata risposta.
L’impressione visiva complessiva che si percepisce trasmette all’osservatore una piacevole sensazione di coordinazione di movimento, una sensazione di ritmo e di progressione, in una parola una sensazione di armonia.
In effetti gli equilibri delle singole parti del corpo devono coordinarsi tra loro per poter passare da una postura all’altra senza influenzare l’equilibrio generale dell’intero corpo, che deve soprassedere alla realizzazione dei gesti tecnici prescelti. Non a caso la scherma spesso è accostata alla danza e, in specie, alla danza classica: l’armonia musicale, l’armonia delle sfere di aristotelica memoria, guida i movimenti del ballerino come dello schermitore; entrambi hanno l’esigenza di muoversi in leggerezza secondo schemi e coordinate spaziali precostituite, che rappresentano il sunto di una tecnica maturata negli anni, fissata e teorizzata nei rispettivi trattati. Per transitare da una determinata postura ad un’altra il gioco degli equilibri fisici è indotto e cadenzato e il sistema muscolare non fa altro che percorrere strade indotte, sfruttando l’energia potenziale immagazzinata negli arti inferiori e adoperando gli arti superiori per compensare squilibri di passaggio.
Ovviamente per lo schermitore tutta l’attenzione viene riposta nel braccio armato, come sopra detto, e tutto converge nel metterlo nelle migliori condizioni di portare a compimento il suo scopo, cioè portare la stoccata su un bersaglio dell’avversario. Al braccio armato, o meglio alla sua parte apicale costituita dalla punta e/o dalla lama, deve essere garantita la più ampia libertà di movimento e tutto il corpo opera in questa direzione diventando una specie di enorme differenziale: le gambe lo accostano o al contrario lo discostano alla ricerca della migliore misura per tirare la stoccata, il busto all’occasione reclina nella direzione più consona, lo stesso braccio armato si slancia in avanti o si raccorcia, piegandosi alla spalla o al gomito. Tutto ciò in ossequio ad un unico disegno generale e a un convergere di differenti intenti, ad una vero e proprio concetto armonico.
E sin qui siamo nel reale, cioè nel mondo concreto delle leggi fisiche che governano il movimento.
Ma esiste un’altra dimensione nella nostra disciplina dove regna sovrana l’armonia: la dimensione della tecnica schermistica, una specie di mondo delle idee platonico.
Un mondo dove si affermano i principi del razionale, dell’essenziale, del sistematico; un mondo dove la bellezza di un gesto non è di per sé, ma è quella rispondente ad esigenze di ordine meramente materiale e pragmatico come ci insegnano i trattati di scherma delle varie epoche sino ai nostri giorni.
Se lasciamo per un istante alle nostre spalle la realtà di pedana e, speculativamente, ci addentriamo per esempio nell’ambito delle azioni composte che contemplano due finte con la conseguente elusione di due parate dell’avversario, entriamo in un mondo dove l’armonia si deve affermare per necessità: altrimenti come potrebbero le due lame, rincorrendosi l’una con l’altra, tracciare disegni così meravigliosi con le loro traiettorie curvilinee?
Armonico è il divenire tattico che si sviluppa durante il match sulla pedana: c’è uno dei due contendenti che prende l’iniziativa, sia essa un attacco di prima oppure di seconda intenzione; l’altro che cerca di neutralizzare questa iniziativa e proporre a sua volta un colpo; il primo che si oppone a quest’ultimo e reimposta la sua azione di rimando …e così via, teoricamente all’infinito, in pratica sino a quando un colpo dei due contendenti raggiunge il bersaglio, interrompendo il ritmato flusso tecnico, rendendone inutile la prosecuzione.
Armonico è il doveroso saluto iniziale tramite le due armi in pugno, armonica è la tendenziale condotta di gara nel rispetto del Regolamento tenuta comunque sotto controllo dall’arbitro, armonica è la pur doverosa stretta di mano che sancisce una vittoria e una sconfitta finale.
Questa è bellezza, questa è armonia; e allo schermitore spetta uno dei compiti più ardui: quello di riprodurre nel reale ciò che risiede nell’ideale.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2019
Scherma e le attese di un tempo
La scherma è lo sport delle attese; la gara comincia e non si sa mai quando finisce: la prestazione dello schermitore è intervallata, spezzetata, quasi sminuzzata, più lunga in proporzione di un attuale sequel televisivo.
Ora è già meglio, molto meglio; ma lasciatemi raccontare cosa accadeva ai miei tempi, grosso modo dalla metà degli anni sessanta alla metà degli anni settanta; non cinquant’anni fa, ma poco ci manca.
Innanzitutto alle gare c’erano molti meno concorrenti rispetto alle folte schiere odierne: quindi formula del girone all’italiana dal primo turno sino alla finale della gara. Ovviamente non si poteva far durare le competizioni un paio di orette e via, quindi la parola d’ordine era tutti contro tutti, almeno nell’ambito dello stesso girone. Talvolta però si esagerava un po’, come ad esempio nelle finali ad otto: 23 assalti, salvo spareggio in caso di parità di vittorie; una maratona durava senz’altro meno. La caratteristica di questa formula era che ogni schermitore doveva intervallare le sue prestazioni con quelle degli altri; il che comportava lunghe attese del proprio turno di pedana (1-4 , 2-5, 3-6 ricordo la partenza dell’ordine degli assalti nei gironi a 6). Questi gruppi rappresentavano delle battaglie relative a 6 e quindi il tempo veniva occupato seguendo il numero di vittorie e di sconfitte di ciascuno in vista del conteggio finale del girone e intanto i maestri, molto saggiamente, ci dicevano di studiare l’avversario. Tutto questo ovviamente comportava un’enorme impiego di tempo e le gare si allungavano a dismisura tra prestazioni e attese.
Per di più i gironi non sempre eliminavano il 50% dei loro componenti come attualmente si fa con l’eliminazione diretta; talvolta uscivano 3 su 6, talvolta solo 2 su 6; questo al fine di giungere ad un multiplo di 6 e determinare la scaletta di gara.
In secondo luogo il Regolamento per le gare non era lo stesso circa la durata del match: era non di tre minuti effettivi come è attualmente, ma ben di cinque con l’aggiunta di un altro minuto in caso di parità di stoccate. Un assalto, soprattutto in specialità come la spada, poteva durare anche quanto la celebre e triste Guerra dei cent’anni tra Francia e Germania: l’ambito temporale era veramente smisurato e dava ampio spazio quindi sia alla tattica che alla strategia d’assalto. Facciamo un ragionamento da ragioniere, partendo dalla considerazione che prima veniva concesso un minuto per le cinque teoriche stoccate da mettere per giungere alla vittoria, più, ricordiamoci, il possibile celebre minuto supplementare: oggi, nel girone di qualificazione alla diretta, sempre sulla lunghezza delle cinque stoccate , il tempo per por fine al match è di 3 minuti; quindi, sulla falsariga del ragionamento appena fatto, per ogni stoccata sono concessi 35 secondi, quasi il 50% in meno di prima, senza considerare poi il solito tempo supplementare surricordato. Vero è che non c’è l’obbligo di arrivare alla quinta botta, ma senza alcun dubbio c’è stata una considerevolissima diminutio temporis. Pochissimo cambia, 36 secondi, se parametriamo i 9 minuti per le 15 teoriche stoccate dell’eliminazione diretta. Ovvia conclusione: i due contendenti avevano molto più tempo per competere e la durata degli assalti si allungava e, di conseguenza, le pause degli altri concorrenti si dilatavano rispetto ad oggi.
Un’altra considerazione sul Regolamento circa la fuoriuscita rispetto al fondo pedana: attualmente, se entrambi i piedi di un concorrente superano la linea finale, viene direttamente assegnata la stoccata di penalità; prima invece sulla pedana era tracciata la linea di avvertimento, 1 metro dal fondo pista per il fioretto e 2 per la sciabola e la spada, linea che obbligava l’allora presidente di giuria a dare l’alt, avvertire il tiratore prossimo alla fuoriuscita e quindi a dare un nuovo a-voi; se poi lo schermitore avvertito riguadagnava la linea di mezzeria della pedana, aveva diritto ad essere riavvertito alle distanze sopra ricordate. Tradotto in dinamica di assalto: oggi l’azione è maggiormente fluida, mentre prima le interruzioni e le ripartenze non potevano non influire tecnicamente sul fraseggio schermistico successivo. Oltretutto anche questo era un fattore che comportava sicuramente un maggior tempo per la conclusione del match.
Un’altra considerazione aggiunta: anni addietro non c’erano i computer o cose del genere: quindi, esattamente come accadeva nelle banche per i conti correnti, ogni schermitore aveva un proprio cartellino cartaceo dove venivano trascritti i risultati dei singoli gironi. Oggi inserisci i dati, poi premi un tasto ed ecco i turni di gara bell’è fatti e addirittura stampati; prima invece i cartellini di cui sopra dovevano essere ordinati per merito e in base a questi venivano dettati i cartelloni ad uno ad uno e trascritti da attenti amanuensi dalla bella calligrafia. Alcune volte capitava che, anche ad assalti iniziati, la gara fosse sospesa, ritirati i cartelloni e poi modificata la composizione dei gironi: credo che i nostri padri latini, quasi preveggenti, abbiano coniato la frase Errare humanum est, pensando agli errori che avrebbero commesso secoli e secoli dopo i direttorio tecnico delle gare di scherma. Tra un turno e l’altro passava un’eternità e il problema per tutti era quello di mantenersi fisicamente e mentalmente pronti alla ripartenza.
Oggi tutto è più veloce di un tempo anche se l’enorme numero di partecipanti a certe gare costringe il vincitore ad una vero e proprio tour de force di passaggi di eliminazione diretta.
Non indifferente è anche lo stress che si accumula, tanto per rifiatare, nelle due pause regolamentari dell’assalto alle 15 stoccate; anche se talvolta l’intervallo può essere tecnicamente terapeutico grazie alla possibilità di colloquiare con il proprio maestro.
Insomma, maggiori o minori che siano, le pause, vissute sicuramente più come attese, rappresentano un momento ineluttabile per lo schermitore, un momento caratterizzante per la sua prestazione: saperle gestire al meglio rappresenta un sicuro viatico per aspirare con maggiori probabilità alla vittoria.
M° Stefano Gardenti
a Montemignaio nel settembre del 2019
Scherma e benefici
“Mens sana in corpore sano”, l’avevano già capito i nostri saggi antenati romani.
Le attività mentali andrebbero scecherate e bene ogni giorno con quelle fisiche; ciò soprattutto in una Società come quella contemporanea in cui tutto sembra sospingerci ad andare in macchina a fare la spesa nel supermercato con ampio parcheggio appena dietro l’angolo, sempre la macchina la puoi lavare all’autolavaggio, la legna non la spacchi più perché ora le stufe vanno sempre di più a pellet …insomma mai fare tu oggi quello che una macchina può fare per te domani!
Ai nostri giorni le palestre di ginnastica sono stracolme di coloro che hanno le possibilità economiche per frequentarle: molti cercano di smaltire le eccedenze alimentari improvvidamente consumate con eccessivo gusto sulla tavola giorno per giorno, i più virtuosi solo quelle accumulate ree le festività, mentre i frequentatori più normali sono le persone di una certa età che con il movimento indotto cercano di rimandare gli acciacchi della vecchiaia.
Luoghi tristi le palestre, a mio parere: non c’è ludo, gioco, gusto della competizione e relativi stati d’animo. Si fa movimento per utilità, come abbiamo appena detto poco sopra, ma null’altro. Si bruciano grassi e si espellono tossine …e tanta forza…. va sprecata e si disperde senza un utile nell’ambiente; ma qualche scienziato sta studiando il da farsi, cominciando ad esempio a recuperare l’energia dal camminamento dei pedoni sui marciapiede.
Capite, amici schermitori, che fortuna abbiamo noi?
Primo: nei nostri balocchi sulla pedana utilizziamo innanzitutto il cosiddetto cervello: osserviamo, consideriamo, ideiamo, verifichiamo ecc. ecc.; poi ci si mettono anche le leggi della tattica e della strategia a intasare il nostro cerebro.
Secondo: il corpo ed il braccio armato lo dobbiamo spostare in continuazione il più velocemente possibile, sempre stimolati dalla competizione con quel furfante del nostro avversario; aggravante: coperti poi come siamo da divisa, maschera, guanto, corazzetta (le donne hanno anche il paraseno in pura plastica), calzettoni al ginocchio e altri orpelli ordinari, sudiamo peggio che in una sauna finlandese di prima classe.
Terzo: il bello è che poi dobbiamo fare tutto questo nello stesso istante; mente e corpo devono essere accordati come si deve e tutto deve procedere all’unisono (almeno è quello che cerchiamo di fare al nostro meglio, sempre in competizione con quell’insistente del nostro antagonista che ci soffia perennemente sul collo). Sempre sotto pressione forse è un’espressione che riesce ad esprimere il concetto.
Quarto: ma la cosa più stupefacente della scherma è che sulla pedana il divertimento è garantito.
Forse meno quando curiamo la preparazione atletica e ci esercitiamo con il maestro, ma quando tiriamo in sala è uno sballo, meglio del calcio balilla e del flipper (giochi della mia gioventù) e degli infiniti videogames (di oggi).
Ogni assalto è una guerra e la guerra la vince chi conquista le singole battaglie rappresentate dalle stoccate; quindi indirettamente si gioca anche a Risico!
Ora, dopo esserci abbandonati all’enfasi, cerchiamo di ricomporci e fare gli schermitori seri.
Quali sono i benefici dei frequentatori di sale, ovvero quali vantaggi personali consegue lo schermitore nella sua configurazione extra sportiva?
Diamo per scontati tutti quelli che condividiamo con tante altre discipline sportive: divertimento, movimento fisico, abilità motorie specifiche, sviluppo della socializzazione, consolidamento della personalità e sviluppo dell’ego, adesione (più o meno) impegnativa ad un programma di allenamento, appartenenza ad una comunità con relative norme comportamentali da introiettare ed osservare e altri aspetti similari.
Altri li condividiamo solo con determinati sport: la destrezza sportiva, il competere nella dimensione velocità, la gestione della propria individualità e altri aspetti analoghi.
Bene; ma di specifico cosa c’è nella scherma che poi trasportiamo come utility, anche inconsciamente, nella vita di tutti i giorni?
Per capirlo è necessario riportarci all’essenza di un match sulla pedana: null’altro è che l’edulcorazione di quello che storicamente era un duello, uno scontro, una battaglia il cui esito, inderogabilmente, era la sopraffazione di una parte ai danni dell’altra.
In queste condizioni il soggetto è ovviamente chiamato alla migliore prestazione globale del proprio essere, mente e corpo all’unisono tanto per esemplificare.
Ripetiamo, sintetizzando, i concetti espressi poco sopra.
Dopo l’a-voi, inizia la deambulazione con lo scopo di preservare un idoneo spazio di azione – reazione, la cosiddetta misura.
La percezione è costantemente allertata, l’osservazione incamera dati, la mente li elabora e produce output tecnici, ovvero la cosiddetta contraria.
Il disco rigido dello schermitore risulta bipartito: 1) in caso di opzione di attacco, la mente guida il corpo alla misura più opportuna, attendendo magari una specifica configurazione del braccio armato dell’antagonista; 2) intanto si tiene sotto controllo le sue eventuali iniziative d’attacco alle quali contrapporre le opportune misure difensive.
Velocità di pensiero, velocità di esecuzione, precisione di punta e/o di lama, determinazione, capacità di reazione, capacità di adattamento alla situazione, capacità di esame critico dell’accaduto, capacità di coscienza spazio-temporale, perseveranza, dominio delle emozioni; questi sono i principali parametri sui quali avviene lo scontro sulla pedana.
A ben pensare queste doti accennate potrebbero essere le doti richieste a una specie di super-uomo: in effetti questo modus cogitandi e operandi, che tra l’altro lo schermitore vive in competizione con l’avversario, lo inseriscono nel migliore dei modi nel rapporto con la realtà.
Ovviamente questo è in teoria; poi spetta a ciascuno valorizzare i propri eventuali carismi, svilupparli e mantenerli effettivi tramite l’allenamento.
Non si possono comunque negare alcune situazioni vantaggiose per chi frequenta le sale di scherma.
I riflessi sempre vigili e pronti possono concorrere a prevenire e ad evitare piccoli e grandi pericoli della vita quotidiana.
L’agilità che si persegue sulle pedane aiuta a muoversi con disinvoltura nelle varie situazioni motorie che si possono presentare.
La velocità decisionale può aiutare a districarsi in circostanze dalle quali è meglio uscire al più presto.
L’abitudine al ragionamento e all’esame critico dell’accaduto favorisce senz’altro la scelta della risoluzione più idonea in certi frangenti.
La tendenza al controllo delle proprie emozioni cerca di conferire ponderatezza al proprio comportamento.
La capacità di reazione garantisce la possibilità di contrastare positivamente in tempi brevissimi le situazioni sfavorevoli.
La generale attitudine al combattimento fornisce le giuste motivazioni per non darsi mai per vinto, almeno sino all’ultimo istante o possibilità.
Lo ripeto: sono tutte tendenze di prestazione, per le quali lo schermitore non smette mai di allenarsi, ognuno secondo le proprie possibilità ed anche secondo le proprie aspettative. Ma è incontestabile che esse abbiano un benevolissimo riverbero nella vita di tutti i giorni, quando cioè non si ha un’arma in mano, ma si studia, si lavora, si gioca, ci si sposta nel mondo o si hanno rapporti di vario tipo con le altre persone.
In conclusione cerchiamo di ribaltare il concetto: lo schermitore forte non è altro che un soggetto che riesce a pensare e ad agire nel migliore dei modi; poi naturalmente dovrà cavarsela anche con circolate, parate e traversoni, ci mancherebbe altro. Ma sottolineiamo che la tecnica è solo lo specifico che va a sovrapporsi sul generico: la base è e resta l’uomo con le sue qualità quotidiane.
Tutto il ragionamento è del resto confermato dalla sempre maggiore importanza che in sala viene attribuita alla preparazione atletica nei suoi variegati settori.
Ora ditemi: come si fa a non fare e a non far fare scherma?!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e i benefici influssi dell’avversario
Per i neofiti è difficile ammetterlo, è forse anche inconcepibile il solo razionalizzarlo, ma spesso lo schermitore ha una fonte di informazioni e di stimolo molto importante per la sua evoluzione tecnica nel tempo: l’avversario.
Si, l’avversario, proprio quello su cui si incentra tutta l’attenzione al fine di prevaricarlo nel corso del match; ed è appunto l’intensità di tale focalizzazione che spesso non ci permette di comprendere quanta importanza abbia nella nostra formazione: lo vediamo solo e soltanto come un antagonista e non come occasione di allenamento e di crescita.
La nostra non è una prestazione sportiva solo contro lo spazio e il tempo o meglio non lo è in sé e per sé, ma soprattutto in relazione ad un avversario, cioè in concorrenza ad un’altra diversa realtà dinamica.
Ma questo cosa vuol dire?
Vuol dire che per lo schermitore le opportunità di incrociare il ferro sono di tre tipologie.
La prima è costituita dalla lezione, che è la sede preposta all’apprendimento iniziale, seguito poi dal perfezionamento e dall’allenamento dei vari gesti tecnici; e di lezioni ce ne sono di diverse tipologie e carature, lezioni che vengono attentamente variate nel tempo per un’adeguata costruzione grandangolare dell’allievo; magari a quest’ultimo sembrano tutte pressappoco uguali o quantomeno simili, ma in realtà non lo sono o perlomeno non lo dovrebbero essere. Con il maestro, ovviamente, non può esserci competizione, anche se un giorno, sotto le mentite spoglie dello spratico di assalto, alla fine di una certa lezione ha dato l’impressione all’allievo di mettercela tutta per non fargli vincere il suo primo assalto; tutta una mirata sceneggiata per cominciare a calarlo nella realtà dello scontro, per metterlo alla prova e fargli assaporare il vero gusto del tirare di scherma. Poi magari, nel tempo, toccherà agli allievi più affermati far vincere i loro maestri negli eventuali e fortuiti scontri; ma questo rientra pienamente nello spirito della nostra disciplina.
La seconda opportunità che lo schermitore ha di incrociare il proprio ferro con un altro è quella dell’ambito dei cosiddetti esercizi con l’arma: un mondo, almeno ai miei tempi, poco e mal frequentato dai giovani schermitori, perché ritenuto falso, precostituito e quindi limitato. In effetti, come ben sappiamo, si tratta solo di schemi fissi, dove non esiste il sommamente gradito e ambito libero arbitrio del tiratore: tutto è già prestabilito e si può competere solo nella qualità dell’esecuzione del gesto e, al massimo, nello sviluppare la velocità per precedere la reazione obbligata dell’avversario, se lo schema dell’esercizio contempla questa possibilità.
Comunque lo schermitore sottovaluta (ed io da giovane mi posso accusare in prima persona) il fatto che la dimensione dell’esercizio con l’arma consente di vivere una realtà a metà strada tra la lezione con il maestro e il libero assalto con l’avversario: non è presente l’autorità dell’insegnante (quantomeno dopo l’impostazione dell’esercizio) a dirimere le eventuali incomprensioni tecniche; il bersaglio non è costituito dal suo esteso piastrone ma dalla reale e magari scivolosa divisa dell’avversario, per guadagnare la misura idonea a svolgere l’azione prestabilita non c’è la generosità del maestro a compensarla e l’avversario appare spesso o troppo lontano oppure troppo vicino. E in tutto questo lo schermitore comincia ad abituarsi a stare da solo e da solo ad affrontare i problemi che possono insorgere, di qualunque tipologia possano essere.
Ed eccoci, finalmente, alla terza possibilità, cioè a quando si fa davvero la scherma con le armi in pugno: davanti ho l’avversario e posso fare tutto quello che voglio; anzi speriamo che il maestro, come fa qualche volta, non prenda una seggiola e si metta a guardarci tirare tra di noi!
Intendiamoci bene, quando ci caliamo la maschera, se davanti a noi non c’è un maestro, c’è il nemico; e nemico è non solo quello che incontriamo alle gare ufficiali, ma anche il più caro dei nostri amici di sala; c’è stato uno scambio di visite tra club e sono venuti alcuni tiratori di una vicina città, quelli sì che sono sempre nemici! Lo schermitore ha solo e sempre “nemici”, questa è la condanna che si va a cercare per sua scelta.
Tuttavia, come già accennato in apertura, riflettiamo sul fatto che vediamo il nostro antagonosta talmente come bersaglio e ci ingegniamo a tal punto di batterlo con tutte le nostre forze intellettuali e fisiche che difficilmente gli riconosciamo un gran merito che indubbiamente ha: quello di migliorarci come schermitori.
Se volete qualche esempio state a sentire.
Considerazione preliminare per quanto ovvia: se l’avversario non c’è non si tira, la scherma quindi non si può fare e, se capita qualche rara volta in sala, ci si annoia mortalmente.
Prendiamo in prima battuta una cosa che sta molto a cuore allo schermitore, cioè la velocità. Se competo solo con avversari veloci quanto me o addirittura meno di me, di una cosa posso essere sicuro: che non avrò alcuno stimolo o possibilità di aumentare la mia personale velocità in quanto la cosa risulterebbe assolutamente superflua; diversamente, incontrando qualcuno più lesto di me sia nello spostamento sulla pedana che nei gesti del braccio armato, sarò incentivato dalla situazione di svantaggio a migliorarmi, tirando fuori da me tutto il mio potenziale, almeno in quell’istante.
In seconda battuta passiamo al valore tecnico del mio contendente.
Qui non traggo solo indubbi vantaggi psicologici dall’abituarmi a competere al di là delle mie forze con chi è più forte di me e con chi con molte probabilità ho già perso sulla carta.
Ho un’utilità anche quando competo con chi si approssima al mio potenziale di rendimento: in effetti in questo caso, consapevole delle mie reali possibilità, non devo vigilare ma produrle al massimo, visto che la vittoria sarà con probabilità sul nastro come si dice in atletica.
Mi serve molto incrociare il ferro persino con chi è palesemente meno forte di me: con questo tipo di avversario tirerò molto rilassato, mi eserciterò a limare i miei fondamentali e sfrutterò le limitate capacità difensive del mio antagonista provando e riprovando con lui attacchi composti o, al contrario, lo aspetterò in parata per poi rispondere al massimo delle mia velocità.
Quindi, detto in breve, ogni taratura tecnica di avversario è congeniale a un tipo di allenamento che, anche del tutto inconsapevolmente, va a sollecitare lo sviluppo di specifici aspetti tecnici.
Un caso molto analogo al precedente è quello dell’avversario mancino: per chi lo deve affrontare le complicanze, oltre che di natura tecnica, sono di natura prettamente psicologica; in effetti spazialmente c’è un ribaltamento dei bersagli rispetto ad uno stesso tipo di azione. Comunque statisticamente, anche se oggi molto meno, i destrimani costituiscono di gran lunga la popolazione schermistica più diffusa.
Temo il mancino? Il rimedio è semplicissimo: monopolizzo, auspicando che ce ne siano, tutti i mancini della mia sala e ci tiro, si fa così per dire, per ore. E, se sono dubbioso sul da farsi, non faccio altro che osservarlo e ripetere esattamente i suoi gesti: in effetti è come se fossi davanti ad uno specchio e quindi il suggerimento tecnico me lo fornisce lo stesso avversario, stessa azione e stesso bersaglio.
Ma continuiamo l’excursus sui benefici influssi che derivano, neanche a dirlo, dal nostro stesso avversario.
Indubbiamente nell’ultimo periodo storico la scherma si è alquanto globalizzata e le cosiddette scuole di scherma, che esprimevano diverse modalità e concezioni tecniche, ormai si sono molto avvicinate se non proprio sovrapposte.
Comunque qui il concetto si incentra nell’eventualità che durante lo svolgimento del match uno schermitore osservi un gesto tecnico o almeno una sua particolare configurazione, che magari finisce validamente su un suo bersaglio; se poi la stoccata si ripete, la cosa diventa ancor più macroscopica.
Non è necessario avere uno spirito si osservazione fuori dal comune per accorgersi di questa situazione: ed ecco che l’avversario ti fa conoscere una nuova modalità di combattimento. Invero il bello della scherma è che devi fare tutto alla luce del sole e, se vuoi toccare, devi mostrare al mondo come fai.
Non tralascerei un ultimo benefico influsso dell’avversario, legato questo all’aspetto psicologico e intimistico dello schermitore.
La cosa si può configurare in un ambiente alquanto ristretto come ad esempio (soprattutto) in una stessa sala, o in un ambito maggiore, tipo città, regione o addirittura in una Nazione. Sto alludendo allo stimolo che l’affermazione di un atleta, appartenente appunto ad uno stesso gruppo, può esercitare sugli altri; in una parola, all’emulazione.
In sintesi: ce l’ha fatta lui, posso farcelo anch’io; anzi devo superare la sua prestazione e guadagnarmi l’ammirazione di tutti gli altri.
Attenzione però, perché questi meccanismi mentali, se viene distorta la loro componente positiva, possono facilmente prendere dei brutti indirizzi: ed ecco che alla vantaggiosa emulazione può subentrare la negativissima invidia, che, quasi sempre, produce l’effetto della celeberrima zizzania, adulterando con effetti disastrosi il rapporto personale e molto spesso anche quello nel gruppo. La classe magistrale e quella dirigenziale devono vigilare con la massima attenzione ed intervenire subitaneamente e drasticamente su queste dannose forze centrifughe del gruppo.
Ho lasciato volutamente per ultimo quello che ritengo il valore più positivo che lo stesso avversario ci offre su un piatto d’argento; per ultimo perché, a pensarci bene, la cosa ha veramente del clamoroso.
Parlo della sua stoccata vincente e, in subordine, anche al solo tentativo di portarla a termine. Eh sì! Per vincere lo schermitore deve necessariamente scoprire le sue carte, deve mostrare proprio all’avversario come riesce o come tenta di toccarlo; chi attacca, ma anche chi si difende, quando esegue il relativo colpo svela completamente i suoi piani tecnici.
“Presa la prima stoccata dal tuo avversario, a quel punto sai perfettamente come batterlo”, affermava uno dei miei tanti maestri. Forse aveva un po’ di ragione, ma sicuramente non partecipava più da tanto tempo alle gare, pensavamo noi allievi. Comunque il principio logico non faceva una grinza.
Ne discende che lo schermitore dopo ogni stoccata, attenzione che sia o meno giunta a bersaglio in attacco o sia riuscita a bloccare la difesa seguita poi dalla risposta, lo schermitore, dicevo, deve essere camaleontico, ovvero cambiare di pelle, almeno per un certo lasso di tempo, altrimenti sarebbe aspettato al varco dall’avversario sul precedente storico; dopo qualche scambio diverso, potrà poi tornare a proporre i suoi precedenti colpi.
Ebbene a questo punto non mi resta altro che chiudere quest’articolo, perché altrimenti, continuando di questo passo, non sarebbe più necessario nemmeno scendere in pedana per battere il nostro avversario!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2019
Scherma e concentrazione
Quante volte da giovane quando ero sulla pedana mi sono sentito dire dal maestro “concentrati” e quante volte ho gridato anni dopo ai miei allievi “concentrati”.
Sulla pedana, come ben sappiamo, le cose da fare sono numerosissime: stare attenti alla misura, studiare l’avversario sia in attacco che in difesa, frugare nel nostro bagaglio tecnico alla ricerca della giusta contraria, ricordarsi del punteggio, quando occorre dare un’occhiata anche al cronometro e altri impegni del genere.
Da questo punto di vista viene da pensare come lo schermitore abbia il tempo per potersi distrarre e pensare ad altro! In verità si conduce il match sotto stress e l’ansia invero può giocare talvolta brutti scherzi: la percezione spazio – temporale può venire alterata e quindi la scelta del comportamento tecnico più opportuno e soprattutto la sua realizzazione pratica possono non essere le più indicate; talvolta la fortuna non ci aiuta, magari manchiamo il bersaglio avversario per un nonnulla e invece il nostro avversario è baciato in fronte dalla dea bendata; e così via. Il rischio incombente è quindi quello di perdere il controllo della situazione e di non rendere sulla pedana almeno quanto siamo in grado di fare.
In effetti lo sportivo in genere, lo schermitore nello specifico, ha, prima di ogni altro tipo di problema, quello di riuscire a concretizzare la propria potenzialità in modo statisticamente ottimale: ha bisogno come di una specie di differenziale interiore, di una bussola giroscopica mentale interna che faccia da stabilizzatore rispetto ai compiti che deve svolgere soprattutto in determinati stati d’animo.
Ecco la concentrazione: un buon dizionario la descrive testualmente come la capacità volontaria di fissare il pensiero su un oggetto o sul compimento di un gesto o di un’azione predeterminata ed elaborata dalla propria mente; in altre parole una specie di RAM informatica che soprassiede alle diverse attività di pensiero.
Innanzitutto quella di selezionare i dati della percezione utili al combattimento, derubricando tutti gli altri e, in altre parole, focalizzando quindi l’attenzione solo su ciò che è essenziale: perciò controllo costante della misura, osservazione delle attività tecniche svolte dall’avversario, controllo della spazialità, ovvero del punto della pedana dove si sta operando, e controllo dello scorrere del tempo.
In seconda battuta quella di dirigere, in tempi molto stretti, l’attenzione sull’esame dei dati acquisiti sull’antagonista e sulla ricerca della contraria più idonea a contrastarlo.
In terza battuta mantenere alta la vigilanza sulle iniziative d’attacco dell’avversario al fine di avere più tempo utile possibile per realizzare una valida difesa e una pronta risposta.
Tutte le facoltà percettive dello schermitore dopo l’a – voi devono non solo essere attivate, ma portate al massimo grado possibile di vigilanza: la vista deve sorvegliare innanzitutto tutti i movimenti del braccio armato antagonista, che non solo costituisce il punto più avanzato del corpo dell’avversario, ma anche il veicolo dei colpi ai quali ci si deve opporre; in parallelo la vista globale, cioè quella non focalizzata, deve controllare gli spostamenti macroscopici di tutto il corpo ai fini del mantenimento della distanza di sicurezza, cioè della misura – il tatto, mediante il progressivo sviluppo del cosiddetto sentiment du fer, deve percepire tramite il contatto con il ferro avversario le sue intenzioni ricollegate a pressioni, battute e legamenti – l’udito deve vigilare su ogni rumore o suono che possa fornire dati sensibili nel corso del match: naturalmente i comandi impartiti dall’arbitro, ma anche la segnalazione acustica (o la sua mancanza) del colpo tirato, per non dire dei segnali che i piedi dell’avversario possono produrre sulla pedana.
Ci sono poi delle particolari situazioni tecniche in cui entra in campo un ulteriore superiore grado di percezione attentiva, la cosiddetta appercezione, che, richiedendo una grande quantità di energia mentale, può essere attivata solo per brevissimi momemti. Un esempio classico può essere quello della finta in tempo, cioè della contraria al controtempo: l’avversario, percepite le nostre attitudini a rispondere al suo attacco mediante una nostra uscita in tempo, giustamente ricorre al controtempo, ovvero finge solo il suo attacco per attendere la nostra reazione sulla quale poi poterci costruire il suo colpo finale. Ebbene, per la buona riuscita della finta in tempo, la tempistica tra la ricerca del ferro attuata dall’attaccante e la sua elusione da parte dell’attaccato è affidata a frazioni di secondo, né prima né dopo il dovuto: solo una grande concentrazione può permettere di seguire l’intero sviluppo della prolungata azione e di intervenire solo nel breve intervallo di tempo utile.
Come accennato all’inizio, ci sono tanti fattori che possono alterare la nostra capacità di concentrazione: vari stati emotivi (i timori dell’esordio in gara come addirittura la celebre paura di vincere), situazioni tecniche particolari (mi tocca a tirare con un mancino o con la mia bestia nera), contingenze di match (sono in un certo svantaggio di stoccate), contesti negativi (la nostra stoccata è uscita per un nonnulla, una stoccata fortunosa messa a segno dal nostro avversario o pensiamo di avere subito un torto dall’arbitro). Appare evidente che la capacità di resistere psicologicamente a queste situazioni avverse e continuare quindi a gestire mentalmente in modo ottimale lo scontro con l’avversario è la miglior garanzia per potersi esprimere al meglio e quindi cercare di vincere il match.
Questa non è la sede opportuna per entrare nel dettaglio, comunque esiste tutta una serie di attività mirate a migliorare e consolidare la concentrazione; la questione è sicuramente quella di affidarsi a specialisti preparati e attendibili.
La preparazione ottimale di uno schermitore, a mio avviso, è come la composizione di un mosaico; e in questo mosaico la tessera concentrazione non è certo delle più piccole o generiche. Quindi, mi raccomando, in pedana concentratevi!
M° Stefano Gardenti
a Firenze novembre 2018
Scherma e coraggio
Ti ammaliano con fioretti, spade e sciabole scintillanti, con maschere che ti rendono quasi invulnerabile; poi ti ricordi di D’Artagnan e di Zorro con piume e bandana sul viso ; ti piace l’idea di portare la spada al fianco nel fodero (comunque dopo ti fanno capire che non è proprio il caso!). E tu vai a fare scherma.
Nessuno però ti ha mai parlato dell’avversario; è così ovvio, che tutti preferiscono sorvolare e nessuno ne fa esplicito riferimento.
Entri in sala e l’avversario non c’è.
Ti fanno passare un mare di tempo a fare giochetti atletici, salti e scatti, ma sei fra amici e ti va bene così.
Poi ti fanno vedere come s’impugna un’arma bianca, ti insegnano a stare in guardia, ad andare avanti e indietro sulla pedana; ma sei ancora in gruppo con tutti i tuoi amici e ancora non sai che l’avversario esiste.
Un bel giorno qualcuno ti chiama e ti fa salire da solo su una specie di corridoio stretto (imparerai dopo a chiamarla pedana): ti insegna a colpirlo in vari modi con i nomi più strani, una specie di gioco ad incastro dove lui fa qualcosa e tu devi capire come comportarti. Appunto solo un gioco con uno più grande, che ti fa sempre vincere.
Passa del tempo e sulla pedana ti ritrovi con un compagno di corso per un nuovo gioco: lui si scopre e tu lo devi colpire; poi ci si scambia le parti. Dopo lui mette l’arma in linea e tu devi battere e poi colpire …changez les dames e così via di seguito. Un po’ monotono, ma almeno impugniamo un’arma.
E così via per qualche mese: giochetti atletici, lezione con l’insegnante ed esercizi con i compagni; niente male, siamo sempre tra amici.
Poi, un giorno, la realtà: tu e tu, prendete fioretto e maschera e venite qua; gli altri tutti a sedere a guardare, dice il maestro.
Cosa sarà, un nuovo gioco?!
Ci spiega il “pronti – a voi” e “l’alt”, ci parla di limiti della pedana e poi ci dice di combattere.
Combattere?! Ma per combattere ci vuole un nemico e qui siamo tutti amici!
Avversario, si dice, avversario; ci disse il maestro. Dovete mettercela tutta e battere l’avversario.
Allora ci facciamo coraggio (sì! Coraggio) e combattiamo.
Impariamo quindi a dominare quel turbine di sensazioni che sentiamo dentro (paure, dubbi, scoramenti e incertezze), concentrandoci al massimo sul raggiungimento del nostro fine: battere questo famoso avversario.
Partendo dal coraggio di quel primo giorno diventiamo mano a mano più calmi e più padroni dei nostri movimenti, più determinati e più efficienti, almeno per quanto è concesso ad ognuno di noi; questa RAM informatica, questo modo di gestire noi stessi non ce lo scrolliamo più di dosso e, sicuramente in positivo, condiziona il resto della nostra vita.
Un altro motivo per cui essere profondamente grati alla Disciplina a cui apparterremo per sempre.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2018
Scherma e decalogo
Avevo quindici anni quando fu edito il libro La vera scherma; campeggia ancora, come allora, in bella vista nella mia biblioteca e il suo valore aggiunto è che in prima pagina c’è la dedica del suo autore Edoardo Mangiarotti, il campione dei campioni.
Allora eravamo dei giovani diversi, non migliori rispetto ad oggi, ma sicuramente diversi: ricordo di avere letto e riletto questo decalogo e avere ragionato o fantasticato a seconda dei vari precetti.
Oggi, dopo tanto tempo, mi è ricapitato tra le mani e, in vostra compagnia, vorrei commentalo, così, alla buona, senza naturalmente alcuna pretesa moralistica da Operette Morali, né tantomeno quella di voler paragonare le diverse epoche, diciamo l’altro ieri e oggi.
Mi colpì subito la forma del decalogo, che non è difficile ricondurre alla nostra religione, ma credo che la cosa sia del tutto casuale: dai pentametri di Tibullo, dagli esametri di Orazio, dagli endecasillabi di Dante siamo giunti al decalogo della scherma!
Addentriamoci nella lettura.
I Ricordati che sei il rappresentante più nobile di tutti gli sport. Esso affratella nello stesso ideale gli schermitori di tutto il mondo.
Confesso che queste parole mi inorgoglivano non poco e, anche se ero ancora piuttosto giovane, allo stesso tempo mi preoccupavano non poco. In effetti, pensavo, il concetto di nobiltà mi impegnava alquanto, obbligandomi rispetto a tutta una serie di regole: nel tirare con le armi in pugno dovevo cercare di non far male all’avversario (altrimenti, se capitava, dovevo quasi vergognarmi); non potevo essere volgare né con le parole né con atteggiamenti del corpo; dovevo essere rispettoso e cortese con gli avversari; dovevo accettare le decisioni dell’arbitro che, come sapete, all’epoca veniva chiamato molto più pomposamente presidente di giuria (in effetti coordinava altri quattro giurati); in certe stoccate molto evidenti avevo un quasi obbligo morale di accusare di avere ricevuto la stoccata, era il cavalleresco touché. Riflettevo che tutti questi comportamenti erano belli e giusti anche se erano appartenuti all’aristocrazia di sangue, la classe sociale che era stata cancellata dalla Rivoluzione francese!
Sentivo già anche per mio conto , e fortemente, il senso di appartenenza alla disciplina, a cui faceva espressamente riferimento il secondo capoverso: chi tirava di scherma era senz’altro un mio potenziale amico e lo credevo veramente. In effetti quando andavamo ai campionati nazionali e incontravamo i compagni affrontati in pedana l’anno precedente, era come se ci fossimo conosciuti da sempre. Non a caso ancor’oggi sul mio sito passionescherma.it chiamo gli altri schermitori fratelli di spada.
II Pratica il tuo sport con disinteresse ed assoluta lealtà.
Vi devo proprio dire che questa prima indicazione, pratica con disinteresse il tuo sport, non riuscivo proprio a capirla; forse sono ancora troppo giovane ed è una cosa da grandi, mi dissi. Oggi invece ho capito: il professionismo, bene o male che sia, è entrato anche nella scherma e la regola su cui ci stiamo intrattenendo non è più attuale, perché, sempre e in ogni dove, l’ideale è sconfitto dal materiale, protagonista complice il denaro, che non a caso Martin Lutero definiva lo sterco del diavolo (absit iniuria verbis).
Quanto alla lealtà niente da dire, era un valore su cui batteva molto l’educazione dei miei genitori; da parte mia quindi nessuna virtù sulla pedana, anzi un ideale mondo da vivere. Nonostante questo nella decina di anni in cui sono stato agonista ne ho viste di cose negative: i passaggi di vittoria e girava anche la voce di qualcuno che addirittura staccava assegni a bordo pista! Quindi, è vero, c’era già lo sterco del diavolo di cui appena sopra!
III Sulla pedana e fuori comportati da gentiluomo, da sportivo e da uomo sociale.
Insomma l’individuo visto non come un sommergibile a camere stagne, ma come un tutto globale, un uomo migliore in tutti i frangenti dell’esistenza, quasi un superuomo alla Nietzsche, quantomeno il tentativo di esserlo. Il termine gentiluomo è oggi sicuramente alquanto démodé e con molta probabilità qualcuno tra i più giovani lettori dovrà ricorrere a Wikipedia, ma, a mio modesto parere, quanta necessità c’è di questi valori nell’attuale Società postmoderna!
IV Non discutere di scherma se prima non hai imparato la scherma ed i suoi regolamenti
Questa raccomandazione mi sembra molto attuale, mentre all’epoca aveva solo un valore profetico. Negli anni ’60 – ’70 il pubblico presente alle gare, costituito in gran parte come sempre da genitori e da tecnici, era molto corretto: invero corretti ed educati ancora erano i comportamenti della Società in genere e chi si discostava vistosamente da essi veniva osservato con curiosità e catalogato come meritava. Poi piano piano anche nel nostro ambiente il protagonismo ignorante prese piede; ignorante sia nel senso di ignorare le cose, sia nel senso di comportamento scorretto.
Da giovane maestro mi ricordo ancora delle male bolge che caratterizzavano le gare dei bambini e dei ragazzi e, purtroppo, non ho fatto in tempo a beneficiare delle pedane transennate, cioè del box – gara; ricordo anche qualche genitore, completamente a digiuno di tecnica schermistica, che mi consigliava questo o quel colpo che aveva visto tirare a qualche ragazzo di altri club. Mi ricordo nitidamente che ad uno di essi risposi di accettare volentieri i suoi suggerimenti e lo pregavo, in tal senso, di scrivere all’Associazione Italiana Maestri per far abolire gli esami atti al conseguimento del titolo professionale! Poi, per mia fortuna, ho staccato la spina da questi ambienti.
V Impara a perdere con onore e a vincere con dignità.
Queste parole mi entravano dentro, non so come dirvelo diversamente: soprattutto le prime che si riferivano a quanto succede alla gran parte degli sportivi e schermitori in parola. Capii quasi subito che la sconfitta era una sconfitta, ma subito dopo che era importante come si perdeva e mi riferisco non tanto e solo al punteggio, ma soprattutto all’impegno profuso; quando successivamente lessi per intero la celebre raccomandazione del barone Pierre De Coubertin (non solo la parte che mistificava e limitava il suo pensiero), l’importante è partecipare, ma anche il necessario completamento, l’importante è essersi battuti bene, fu per me una conferma.
Da non sottovalutare anche la seconda parte della raccomandazione: vincere con dignità. In effetti prima il costume schermistico era molto più rigoroso anche nella manifestazione dei sentimenti, quasi li volesse reprimere al minimo; e questo sicuramente era un po’ troppo robotico. Poi evidentemente si sono rotti gli argini e anche noi, magari importandoli da altri sport meno disciplina della scherma, ci siamo abbandonati ad urla, contrazioni del volto e gesticolazioni da ballo di San Vito; molta gioia sì, poco stile molto; questo ovviamente è il mio sommesso parere.
VI Rispetta in ogni occasione il tuo avversario, chiunque esso sia, ma cerca di superarlo in combattimento con tutte le tue energie.
A 15 anni non mi veniva proprio in mente come avrei fatto a non rispettare il mio avversario, forse perché non ero ancora così forte in pedana da surclassare nessuno?! Comunque non l’ho mai fatto, perché è semplicemente inconcepibile il farlo.
La seconda parte mi sembrava veramente superflua: ho capito sin dal mio primo assalto che la vittoria va sudata e, da questo punto di vista, non mi sono certo mai tirato indietro …infatti sudavo moltissimo!
VII Ricordati che fino all’ultima stoccata il tuo avversario non ha ancora vinto.
A questo proposito un mio vecchio maestro, come si suol dire, rigirava la frittata e mi diceva: Ricordati che sino all’ultima stoccata tu non hai vinto. Battute a parte, mi sono ritrovato, sopra e anche fuori della pedana, con un carattere fortemente competitivo nelle grandi ma anche nelle piccole cose, per cui da questo punto di vista, questa raccomandazione per me poteva essere anche non scritta. Le rimonte hanno una loro grandissima spettacolarità, ma attenzione, come detto poche righe sopra, si possono gloriosamente effettuare, ma anche inopinatamente subire.
Basta non mollare e, sotto questo punto di vista, carattere a parte, la concentrazione fa miracoli.
VIII Accetta serenamente una sconfitta piuttosto di approfittare di una vittoria ottenuta con l’inganno.
Confronto ai tempi d’oggi a 14 anni eravamo ancora alquanto ingenui e fuori dal mondo. State a sentire: un giorno cominciamo in sala a parlare tra noi ragazzi di questa ottava regola e ci poniamo un dubbio amletico riguardante il fatto se un’azione con finta, appresa proprio in quei giorni, potesse o meno configurare appunto l’inganno citato. Uno di noi ebbe il coraggio di andare a chiederlo nientepopodimenoche al maestro, che, dopo aver fintato un colpo alla testa con sciabola che aveva in pugno, vibrò una consistente sciabolata su una gamba del nostro sventurato compagno e disse: Vedi questa stoccata non è valida perché è finita in bersaglio non valido, ma la potete tirare tranquillamente senza che nessuno vi accusi di qualcosa. Cos’ i maestri di scherma insegnavano!
IX Non salire sulla pedana con armi difettose o con la bianca divisa in disordine.
Francamente non riuscivamo a capire questo invito; pensavamo: Già ha le sue difficoltà il riuscire a toccare l’avversario, se poi la punta segnala una volta sì e una no, allora addio! Comunque prima di partire per ogni gara, andavamo già allora diligentemente per nostro conto dal tecnico delle armi della sala per un controllo generale …e facevamo anche presto perché ognuno di noi possedeva a testa un solo fioretto o spada che fosse, più al massimo un paio di armi della Società di scorta per tutti.
La seconda parte della norma non l’abbiamo mai mostrata alle nostre mamme: non tanto per preservarle dalla fatica di lavarle perché comunque per loro fortuna nelle nostre case c’era già la lavatrice, quanto per evitare di andare in giro a fare la pubblicità al Dixan! Contestavamo (e quella era proprio l’era della Contestazione) di metterci l’abito buono o comunque pulito della domenica; volevamo il vissuto bianco stanco, magari leggermente puzzolente.
X Onora, difendi e rispetta il tuo nome, il prestigio del tuo maestro, i colori della tua Società, la bandiera del tuo paese
Vi devo confessare che nei temi, almeno quelli della scuola media, accanto al voto di solito più che confortante, campeggiava spesso il commento del professore: retorico.
Da ciò potete presumere che il morale invito grandangolare presente nell’ultima norma si coniugava perfettamente con la mia personale sensibilità di quindicenne. Comunque posso tranquillamente confessarvi che io tiravo e basta e a tutte queste ripartizioni di gloria non ci ho mai, non dico dato il giusto peso, ma addirittura pensato: io mi divertivo solamente a tirare di scherma, quello che veniva dopo, cioè la gloria con le coppe e le medaglie, l’ho sempre considerato come una fortunata eventualità.
Certo quando ho avuto la fortuna di andare all’Estero, che all’epoca vi garantisco era veramente Estero, con la tuta azzurra qualcosa ho percepito, ma, se devo essere onesto, cinque minuti dopo l’avevo già scordato: la mia vera fortuna è stata quella di tirare di scherma solo e soltanto per il mio divertimento.
Passando al dettaglio: certo che difendevo il mio nome, era proprio il combattimento il gioco di cui vi ho appena detto; con il Maestro andava sempre male ed era meglio girargli alla larga: se la gara era andata male, scherzando ti arrivavano le sue brucianti fiorettate sulle gambe (il famoso metodo Montessori B!), se invece era andata bene ti arrivavano sulle spalle delle pacche da esperto karateka; per quanto riguarda la Società il più delle volte non conoscevamo neppure il nome del Presidente: in effetti vivevamo nel regime monarchico della geocentrica figura del maestro; del mio rapporto con la Bandiera del Paese vi ho appena poco sopra detto.
Prendendo congedo da voi, vi devo forse chiedere scusa per il tono semiserio con cui ho trattato l’argomento: secondo me, spesso la fredda solennità formale vela e quindi cela pur parzialmente il vero contenuto della vita, cercando di far increspare talvolta le vostre labbra in un sorriso sono invece sicuro di essere andato più a fondo; come diceva Tito Lucrezio Caro, parlando sulla natura delle cose.
Eccovi dunque illustrato dal mio punto di vista il famoso Decalogo di Mangiarotti – Cerchiai; dalla sua stesura è passato più di mezzo secolo, per cui, ovviamente, qualche sua parte appare un po’ o anche tanto obsoleta, ma questa è la dura sorte delle umane genti, come dice il Foscolo.
Tuttavia l’impalcatura, diciamo la struttura, i valori di fondo, sono ancora vivi e attuali in quanto classici, ovvero, se mi passate l’espressione, eterni e universali; d’altra parte non dobbiamo mai scordarci che la scherma, prima di essere un’attività sportiva, è una disciplina; i valori indicati nel Decalogo ne sono un’evidente testimonianza.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2020
Scherma e desiderio
I sogni son desideri chiusi in fondo al cuor; di notte diventan veri… così canta con leggerezza e speranza l’indimenticabile Cenerentola di Walt Disney.
In effetti il desiderio esercita una grandissima spinta per gli esseri umani: è una molla che caricata con pazienza, costanza e buona cura può portare a traguardi in partenza assolutamente insperati. Così magari un ragazzino corona il sogno che ha avuto sin da piccolo di diventare ingegnere, dottore, ballerino, cantante o quant’altro; così un innamorato dopo una serrata corte sposa la sua bella; oppure qualcuno riesce finalmente a fare il giro del mondo; se volete partecipare alla lista dei desideri, accomodatevi pure!
Desiderare e sognare di concerto è una magnifica possibilità: è un’utilissima stella polare con cui muoversi nella vita quotidiana.
L’importante poi, stabilità una meta ideale, è profondere tutte le proprie energie o almeno gran parte di esse per avere la probabilità prima o poi di raggiungerla: in effetti per arrivare al fantastico si deve percorrere la dura erta del reale. Questo è molto positivo per l’essere umano in quanto, capito che la celebre manna cadeva solo nei racconti della Bibbia, potenzia la sua volontà, che rappresenta senza alcun dubbio una moltiplica fondamentale per i suoi eventuali carismi personali. La scherma non è diversa da tutte le altre attività sportive, anzi non è affatto diversa dalle vicende della vita quotidiana in genere: tutto ciò che abbiamo espresso nelle precedenti righe di esordio vale ovviamente anche per la nostra disciplina.
Si entra da neofiti in sala per provare la scherma e soprattutto per giocare assieme a nuovi amici; se ci piace ci iscriviamo anche per il secondo anno e così comincia la nostra avventura sportiva. In genere oggi si inizia così in tenera età che è difficile avere in testa dei precisi obiettivi che non siano il divertimento e la curiosità; poi comincia l’attività agonistica e, se qualcuno ha particolari doti, emerge dalla massa alle prime gare a cui partecipa e comincia a desiderare di vincere o comunque di far bella figura alle competizioni.
Più passano gli anni e più entra in funzione quello che chiamerei l’imbuto del merito: mi spiego, si parte in tanti dalla parte larga e si esce in pochi da quella stretta; i desideri si affinano sempre di più e il futuro comincia ad essere disseminato da traguardi che ci spingono sempre più in avanti: campionato sociale, campionato regionale, quello nazionale, convocazione in Nazionale giovanile e poi quella assoluta …e i gradini aumentano.
Il desiderio di arrivare si fa però sempre più esigente in quanto per continuare a progredire è necessario impegnarsi sempre di più: si rosicchia un po’ di tempo alle amicizie, agli altri hobby e ad altri interessi, si torna a casa la sera tardi, vai in trasferta per le gare e poi ti tocca far da solo il compito in classe; magari la ragazzina o il ragazzino del cuore si lamentano perché si sentono trascurati; talvolta diventa un mestiere. E’ proprio dura; ma lo spirito di sacrificio è il miglior investimento per i desideri da esaudire; i maestri raccontano sempre l’eterna favola dell’agricoltore: Chi semina, può sperare di raccogliere.
Poi il desiderio, la bella favola, diventa realtà: si veste la maglia azzurra, si vincono i Giochi Olimpici o, un gradino sotto, i campionati del mondo; scendendo ulteriormente i campionati nazionali, regionali, i trofei e così via. Ma questo compete a pochi, i migliori; mentre tutti gli altri si devono accontentare di minori conquiste, giù giù sino a chi non ha mai vinto nulla o quasi.
C’est la vie è filosofia consolatoria del poi, ma questa non è nemmeno la vera realtà; ci ha pensato Dante Alighieri ad inventare la teoria del vasel per spiegarci la beatitudine delle anime nel suo Paradiso: come fanno quelle appartenenti ad un cielo più esterno e quindi più distante da Dio ad esser beate tanto quanto quelle che si sono conquistate in vita il merito di essergli più prossime? Ognuna di esse è come un contenitore e quando questo risulta ricolmo è al suo massimo e poco importa se la quantità che riesce a contenere non è uguale. …e se lo dice Dante!
Del resto la felicità, a cui ognuno di noi aspira tramite i suoi desideri e sogni, non può essere volta a traguardi irragionevoli e deve invece sempre poggiare intelligentemente su basi almeno di possibile probabilità; altrimenti il mancato raggiungimento di un certo tipo di traguardo cagionerebbe più delusione e dolori che gioie. Noi che, ahimè siamo adulti, lasciamo le belle favole ai bambini o a chi ci vuole credere per forza e vive con la testa tra le nuvole.
Unicuique suum, dicevano gli antichi: in effetti chi riconosce i propri limiti senz’altro riesce di conseguenza ad accontentarsi dei propri risultati e quindi ha tutte le carte in regola per essere felice; a una condizione, però: come ben dice Pierre de Frédy, più noto come barone di Coubertin, nella competizione deve aver messo tutto se stesso e tutte le proprie energie.
Il detto L’importante è partecipare, in cui con colpa viene spesso buonisticamente contratto il suo pensiero, sicuramente non porta ad alcun tipo di felicità, solo ad un inganno che si concretizza in un’illusione inesistente: la felicità, quella vera, può sussistere solo se l’uomo si è confrontato, nello sport come in un altro qualsiasi campo della vita, con lo sprone del suoi desideri.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e doti dello schermitore
Lo scontro che si consuma sulla pedana di scherma è totale: ognuno mette sulla bilancia tutto quello che ha …anche le unghie e i denti (non solo in senso figurato) se solo si potesse!
Da questo si può subito desumere che le presunte doti dello schermitore ai fini del combattimento sono numerosissime e variegate: doti fisiche di varia natura (capacità coordinative e capacità condizionali, dicono gli specialisti) in quanto il corpo è il veicolo delle stoccate, doti mentali (capacità di osservazione, di elaborazione dati, logica, capacità di gestione), doti caratteriali (aggressività, perseveranza, voglia di affermazione) , doti psicologiche (controllo delle emozioni, padronanza di sé, capacità di gestione situazionale). E se vi sembra poco!
A questo riguardo io ho una mia tesi: prima di essere uno schermitore (evoluto), chi ama combattere sulla pedana, deve aspirare ad essere un grande uomo; forse non un super uomo di nietzschiana memoria, ma poco ci manca.
D’altra parte il combattere (nel nostro amato caso con un’arma bianca in mano) credo rappresenti una delle icone più ricorrenti per l’uomo (nei confronti della Natura, nei rapporti sociali e quant’altro) e in queste situazioni, al fine di affermarsi, deve cercare di esprimersi sempre al meglio.
A questo proposito mi si conceda una breve digressione: da quanto appena detto emerge incontestabilmente il fatto che il tirare di scherma rappresenta per i più giovani un grande opportunità per “affilare le armi” e prepararsi in anticipo per quella che poi sarà la loro vita futura, sociale, lavorativa e relazionale; una preziosa palestra per l’ore future, direbbe il Foscolo. Combattere è una forma mentis, le cui colonne portanti sono: desiderio di competere, consapevolezza di sé, sapersi muoversi agilmente, capacità di inquadrare il problema, cioè di analizzare i dati della situazione, di elaborarli alla luce di nozioni pregresse, di applicare l’idonea risoluzione trovata nei tempi e nei modi più consoni, capacità infine di verifica dell’operato. Il tutto, poi, non da campioni, ma quantomeno al meglio delle proprie possibilità. Quale migliore forza si potrebbe dare alla divulgazione della scherma, se non queste premesse e queste prospettive; quale pubblicità più accattivante soprattutto per genitori responsabili?!
Ma torniamo alle cosiddette doti dello schermitore.
Insegnanti di scherma, quindi, che in parallelo all’insegnamento della tecnica schermistica o fors’anche prima, si occupino anche di coadiuvare la crescita della persona in senso globale, sollecitando, a suo tempo, anche il fiorire della singola personalità degli allievi, personalità che li porterà, appunto in ossequio alle loro diversità, a cercare di dare diverse interpretazioni del modo di combattere. Precipuo compito del maestro sarà dunque quello di sviluppare le doti personali dell’allievo; tuttavia non omettendo di cercare di compensare eventuali marcati sbilanciamenti: ad esempio l’allievo che tende a non attaccare mai, deve essere aiutato ad approfittare di caso anche dell’attacco, oppure, all’opposto, è necessario sviluppare doti attendiste in chi prende insistentemente e in modo continuativo l’iniziativa d’attacco. Un buon sistema di pesi e contrappesi crea quell’equilibrio che rende il soggetto maggiormente completo e, soprattutto, pensante.
Qui di seguito mi permetto riportare in tema alcune righe del mio lavoro “Dialoghi sopra la tecnica, la tattica e la strategia schermistica”; l’argomento è appunto quello di come debba cercare di essere uno schermitore, mi si perdoni comunque l’allusivo tono alla Fedro o a La Fontaine.
Maestro Bene, Carlotta! Oggi vi porterò allo zoo.
Ecco subito un animaletto, da cui lo schermitore ha molto da imparare, il camaleonte.
Tommaso L’ho studiato a scuola proprio la settimana scorsa in scienze, Maestro.
E’ bravo a mimetizzarsi in quanto riesce a colorare la sua pelle intonandola all’ambiente che lo circonda; prima lo vedi bene, poi lui si adatta e quasi scompare.
Maestro Ecco il punto! Si adatta.
Come possiamo ricollegare questo comportamento ad un’utilità per lo schermitore che si trova di fronte all’avversario?
Elena Dobbiamo anche noi adattarci all’avversario, maestro: la misura la dobbiamo registrare rispetto alla sua altezza e alla sua velocità, se facciamo delle azioni con finta dobbiamo necessariamente adeguarci al suo tipo di parata, se si difende con un’uscita in tempo allora dobbiamo applicargli il controtempo… e così via.
Maestro Perfetto, Elena: hai spiegato molto bene e soprattutto ci hai fornito a proposito degli esempi molto calzanti.
Per completare il quadro che già ci hai offerto, potrei aggiungere anche il concetto della seconda intenzione: come sapete in questo caso l’attaccante non si ripropone di prevaricare in prima istanza la difesa dell’avversario, né con un’azione semplice che utilizzerebbe la sorpresa, né con un’azione composta che vorrebbe ingannarlo eludendo una sua parata.
La filosofia della seconda intenzione si risolve nel cadere volontariamente nelle maglie della difesa antagonista, alla quale però si è già concertato di reagire.
Chi mi fa l’esempio che campeggia in ogni trattato di scherma?
Marco Io, Maestro.
Quando ci si accorge di possedere una maggiore velocità di braccio armato rispetto all’avversario, si cade volutamente in una sua parata per poi velocemente controparare e rispondere
Maestro Da manuale, Marco!,Grazie.
E allora cosa è il controtempo, ragazzi? Non perdiamo quest’occasione per ripassarlo un po’.
Carlotta E’ una seconda intenzione che si applica quando l’avversario non attua la sua difesa tramite la parata, ma tramite un’uscita in tempo, in pratica attaccando a sua volta chi sta attaccando.
Quando tiro di spada a me piace molto fintare il colpo al piede, aspettare che il mio avversario tiri il colpo d’arresto che ho stimolato in lui abbassandomi e scoprendomi tutta, per poi fare sulla sua linea una bella presa di terza e filo. Vedessi come ci resta male: credeva di sfruttare un mio errore, invece si rende conto troppo tardi di essere caduto nella mia trappola.
Maestro E per sfuggire a questa trappola che Carlotta è stata bravissima a descrivere, cosa si può fare, ragazzi?
Tommaso Sì, maestro! Quell’azione che ci dici sempre che si trova nell’ultima pagina dei trattati di scherma. Ma come si chiama?!
Maestro Intanto descrivicela, Tommaso
Tommaso Se mi accorgo che il mio avversario, vedendo la mia propensione ad uscire in tempo, mi sta costruendo la trappola del controtempo, allora posso solo far finta di uscire in tempo, evitare la sua ricerca del mio ferro e dopo colpirlo.
Ora mi ricordo il nome di quest’azione: è la finta in tempo.
Carlotta non lo ha detto, ma qualche volta, appunto quando mi accorgo che non mi tira veramente al piede ma fa solo finta, io allungo il braccio e quando lei esegue la contro di terza per catturare la mia lama, io eseguo una circolata, così lei non trova un bel niente ed io invece le piazzo una bella stoccata.
E’ un colpo molto difficile, ma oltre che la stoccata dà una grandissima soddisfazione.
Maestro Una lotta all’ultimo camaleonte, vero?!
Ma ora vi vorrei parlare di altre doti molto utili per lo schermitore, doti da mutuare sempre da qualche altro animaletto che le impersona per antonomasia.
Forza, ragazzi, qualche idea
Elena La volpe, Maestro, che rappresenta la furbizia oppure anche la faina; mio padre mi dice sempre la volpe non deve essere più furba di noi.
Maestro Perfetto, Elena!
In effetti essere scaltro significa anche essere esperto e abile nell’agire valutando prontamente il pro ed il contro; l’astuzia poi è una specie d’innata disposizione a volgere a proprio vantaggio situazioni ostili.
La furbizia riassume queste doti aggiungendo all’atteggiamento anche la dissimulazione.
Ma questa non è la strada maestra che deve percorrere lo schermitore per giungere a toccare l’avversario?!
Quindi per chi fa scherma, ogni mattina pane e faina! Magari con una spremuta d’aquila, perché vedere bene e chiaro, nel senso di riuscire a discernere le trappole, non fa mai male, anzi.
Carlotta Anche la gazzella con la sua agilità potrebbe fare al nostro caso, maestro
Maestro Buttala via!
Sicuramente la possibilità di muoversi sulla pedana con facilità e scioltezza è importantissima: basta pensare ai termini accorciare misura o rompere misura per rendersi subito conto di quanto questa dote valga nelle due ottiche e nelle due dimensioni dello schermitore, cioè l’attacco e la difesa.
E non solo conta la scioltezza e la destrezza nei movimenti delle membra, ma anche una certa vivacità d’intuizione e la relativa prontezza.
Soprattutto il braccio armato deve letteralmente ricamare attorno alla lama dell’avversario, non tirare randellate a destra e a sinistra.
Marco Volevo portare ad esempio il rinoceronte per la sua forza, maestro, ma allora non va bene
Maestro Se lo vediamo come simbolo della forza, no, Marco! Non va bene.
Vi ho sempre detto che la forza era necessaria nella scherma quando ancora c’erano Excalibur di re Artù o la Durlindana di Orlando: grandi energie per usare grosse spade necessarie per offendere grosse corazze; poi inventarono la polvere da sparo e quindi buttarono tutti questi orpelli alle ortiche; si preferì giustamente la leggerezza delle armi gestite con destrezza e velocità.
Comunque, se non vogliamo buttare via il rinoceronte, che tra l’altro è così grosso che non saprei nemmeno dove metterlo, utilizziamolo in quanto è coriaceo.
In effetti ci richiama il concetto di solidità, di robustezza: soprattutto quando carica dà proprio l’idea di un’unità di sistema tutta coordinata e compatta che si adopera per un preciso scopo, colpire chi gli sta davanti.
Questo lo schermitore lo può assumere come esempio non tanto e solo per l’attacco – pensate, attaccare con la potenza di un rinoceronte! – ma anche per dare l’idea di una solida e impenetrabile difesa, cosa che rappresenta il primo valido deterrente da opporre alle eventuali baldanzose idee d’attacco dell’avversario.
Tommaso Per la velocità andrebbe bene il ghepardo, maestro?
Maestro Sicuramente, visto che sulla faccia della terra sembra che non ci sia nessun’altro essere vivente rapido come lui; forse il colibrì, ma è troppo di aspetto gentile e colorato per essere invischiato nei nostri rudi scontri!
E anche la velocità ha la sua importanza, vero?!
Più veloci si è rispetto all’avversario, meno problemi si hanno: chi è più lento si deve sobbarcare la costruzione delle azioni composte, che sono senz’altro più elaborate e più rischiose da eseguire.
Ma lo schermitore deve essere veloce non solo con il proprio corpo, ma anche, tramite la sua appercezione, con la propria mente: ha molte più probabilità di vittoria colui che riesce ad essere sempre in anticipo rispetto all’avversario, cioè ad avere più margine di tempo per pensare e meno margine di tempo per eseguire.
Consentitemi una riflessione!
Vista dall’ottica dello schermitore più lento, quanto è bella la scherma, ragazzi!
Tu hai doti fisiche migliori delle mie? Sei appunto più veloce, sei più alto, sei più lungo? E io ti frego con il mio cervello, cioè con le azioni che la tecnica ha elaborato appositamente per queste situazioni.
Citatemi un’altra disciplina che consenta questa equalizzazione tra corpo e mente!
Elena Senti Maestro, a me piacciono i gatti, ne ho due a casa, ma non riesco a trovare una loro particolare dote utile a noi schermitori
Maestro Ma scherzi, Elena!?
Se ce ne fosse uno qui in sala, potremmo fare un interessantissimo esperimento: il gatto si mette da una parte e noi ci mettiamo davanti a lui, poi qualcuno fa cadere in mezzo a noi una ghiottoneria… vediamo chi l’afferra per primo.
Graffi a parte, perderemmo quasi sempre; potremmo anche osservare una certa nostra goffaggine nell’espletare la velocità del nostro gesto per afferrare la cosa, mentre lui, che vincerebbe sempre, resterebbe bello e composto e sembrerebbe quasi ai nostri occhi che si muovesse al rallentatore.
E’ che il gatto possiede un’innata e spiccata scelta di tempo: basta pensare a quell’orrida scena quando tormenta la sua proverbiale vittima, il topo. Se vi capita, guardate da un’altra parte!
Questa sua dote va ad accentuare clamorosamente la sua prestazione veloce.
Ragazzi, provate a miagolare quando andate in affondo; vediamo cosa succede!
Carlotta Maestro, ma quanto costa il biglietto?
Maestro Quale biglietto, Carlotta?
Carlotta Ma quello dello zoo nel quale ci stai facendo fare un giro, maestro
Maestro Ah, quello! Non so quanto costi, comunque sono comprese le noccioline, Carlotta
Carlotta Noccioline?!
Maestro Sì! Quelle che poi si danno alla scimmietta che ti assomiglia, chiusa nell’ultima gabbia a sinistra!
Parata e risposta, Carlotta: uno a zero per me!
Carlotta Non vale, Maestro: con te si perde sempre!
Ecco elencate in modo un po’ bizzarro altre doti richieste allo schermitore.
In punto centrale, lo ribadisco, è capire che il tirare di scherma è un modo complessivo di esprimersi: il corpo agisce eseguendo input che sono partoriti diciamo dallo spirito dello schermitore.
M° Stefano Gardenti
a Firenze del dicembre del 2018
La scherma e l’esperienza
“Il passato è il miglior insegnante per il futuro”, dicevano i nostri padri latini: in effetti, l’esperienza, intesa come precedente storico, è un ottimo viatico per affrontare i quotidiani problemi della vita …compreso un avversario su una pedana di scherma.
Da giovane, molto spesso, ti senti citare questo termine: esperienza. Dicono che è importante, fondamentale per alcuni, preziosissima per altri; magari annuisci con la testa, ma la cosa ti appare nebulosa: ci credo, vista la tua età, di esperienza ancora non ne hai e quindi quasi non capisci di cosa si stia parlando.
Ebbene, la scherma, assieme a tantissime altre utilità, mi ha aiutato (e non poco) a capire cosa fosse questa famosa esperienza.
Mi sembra ieri (!): disputavo la mia prima gara e, pur con il cuore in gola, riuscivo ancora a ragionare, anche se a basso regime di giri! Parto in attacco e il mio avversario para con un’ottima quarta e risponde, toccandomi; dopo un po’, stando più attento alla misura e al tempo, riparto in attacco …riquarta dell’avversario e risposta vincente! Poiché qualcuno ha inventato quel disastroso proverbio (non c’è due senza tre), riparto in attacco …stesso, identico risultato. Per pudicizia intellettuale non vi racconto il proseguo dell’assalto e il suo epilogo.
Sceso dalla pedana, mi si avvicina il maestro, mi fa sedere e poi punta i suoi occhi dentro i miei: “Ma era sempre lo stesso Stefano che c’era sulla pedana? Risposta molto indotta: “Certo, maestro” – “Ma allora perché lo Stefano che ha preso la prima stoccata non ha avvertito di ciò che era successo lo Stefano che continuava l’assalto per non fargli fare lo stesso errore?!”.
Poi mi chiese perché mai non avessi ripetuto quell’azione che mi aveva portato a toccare l’avversario (almeno una volta!); ma io non seppi dargli una risposta convincente.
Toccato! E direttamente al cervello: il maestro mi parlò di cassettini (sì, proprio di cassettini) dove riporre per ogni avversario ciò che dovevo stare attento a non fare: non so, cadere su una determinata parata, un tipo di misura, un tipo di azione. Di cassettini poi c’era un’altra serie: quella dove riporre le azioni che mi avevano invece portato felicemente a bersaglio.
Una pacca sulle spalle ed una frase che cominciò a dischiudermi la porta della vita: lascia perdere l’assalto che hai perso e pensa invece che stai facendo esperienza.
Da quel dì, sulla pedana ed anche fuori, è stato tutto un riporre dati in cassettini di varia forma e grandezza: d’altra parte a partire da Galileo in poi, sono in buona compagnia con tutti gli scienziati del mondo.
Comunque, a prescindere dalla mia personale storia, l’esperienza riveste una grandissima importanza anche nel tirare di scherma.
Innanzitutto esperienza intesa come conoscenza a priori, perché per poter concepire e poi eseguire la propria contraria lo schermitore deve essere in possesso del maggior numero di informazioni circa il suo avversario; quindi, indubbiamente, una conoscenza pregressa delle sue attitudini e consuetudini, ottenute magari nel corso di un precedente assalto, fornisce un’ottima base di partenza per le nostre scelte tecniche. Ovviamente questa conoscenza a priori dell’avversario è utile in entrambi i sensi delle azioni: conoscendo il suo modo di difendersi, si potrà più proficuamente attaccarlo; al contrario, conoscendo il suo modo di attaccare, si potrà più proficuamente difenderci.
In secondo luogo (e in modo affine) esperienza intesa come categoria, perché le caratteristiche di cui abbiamo appena sopra detto possono essere riferite non solo ad un singolo avversario, ma a tutti gli avversari che ne condividono specificità di ordine fisico e tecnico. Ed ecco che possiamo inquadrare il tipo di avversario che tende a parare sempre, che tende ad effettuare una solita parata, un avversario che tende ad attaccare sempre, che esce sempre in tempo e così via.
L’esperienza serve anche a saper calare lo schermitore negli aspetti tattici e strategici dell’assalto: valutare la dimensione spaziale della stoccata (ho spinto il mio avversario al limite posteriore della pedana o, al contrario, mi ha spinto lui) – valutare la dimensione temporale dell’intero match (gestione di un vantaggio nel computo delle stoccate o, al contrario, necessità di un veloce recupero).
L’esperienza può supportare validamente lo schermitore anche da un punto di vista psicologico: possiamo tutti immaginare (se non abbiamo avuto la fortuna di poterlo provare direttamente) cosa significhi entrare per la prima volta in una finale, vieppiù entrare in una finale nazionale o addirittura internazionale – far parte della prima squadra del proprio club o, ancor di più, della Nazionale e così via). Anche in questo caso le “prime volte” in genere insegnano a contenere le emozioni, in modo tale che nelle successive non ci siano più inutili orpelli mentali.
Sotto l’ottica globale della persona, l’esperienza agonistica aiuta e supporta lo schermitore nella formazione del suo “Io”: nell’accettazione di sé e dei propri limiti, nella prefigurazione di traguardi da cercare di raggiungere, nel rispetto di rigorose norme comportamentali da ossequiare nella competizione. In questa vera e propria anticamera esperienziale della vita che ridda di emozioni: il supporto della volontà durante l’allenamento, la gioia di aver conseguito un risultato lusinghiero o la delusione per non averlo raggiunto, la voglia di superarsi, il desiderio di ascendere sempre di più.
L’esperienza di sentirsi “adottato” da un maestro, percependo un’autorità nuova ed alternativa a quella dei genitori; un’autorità che ti insegna cose nuove e che poi ti fa “sudare le famose sette camicie” per perfezionarti sempre di più; un’autorità dalla quale accetti anche i rimproveri più severi e che ti insegna, per la sua parte, a vivere sulla, ma anche fuori della pedana.
Per tutto questo l’esperienza, in senso lato, rappresenta un fondamentale istante di crescita per lo schermitore-uomo e per l’uomo-schermitore.
Quindi l’esperienza, schermistica e non, positiva o negativa che possa essere, arricchisce comunque e in modo sempre continuativo l’uomo e costituisce il più delle volte la più attendibile bussola per navigare nel migliore dei modi nei marosi della vita.
M° Stefano Gardenti
Firenze aprile del 2018
Scherma e logica
Ci perdonerà Cartesio e ci perdoneranno i latinisti più puri, ma “Tiro di scherma, ergo sum”.
Non è uno stucchevole autoreferenzialismo, non è un profumato autoincensamento e non siamo nemmeno al “bar scherma”, ma è la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.
Non escludo, anzi posso anche ammetterlo pubblicamente, che altre discipline sportive utilizzino le facoltà mentali come strumento nella competizione agonistica, ma, quando si parla di scherma, si parla del tempio della logica.
Puoi essere fisicamente un Carneade, puoi essere veloce come Flashman, puoi conoscere la tecnica schermistica come D’Artagnan, ma se non possiedi una buona RAM mentale sulla pedana non sei nessuno.
Ed è questo l’aspetto affascinante della nostra disciplina: tutte le altre facoltà che abbiamo descritto in modo forse un po’ colorito sono equalizzate dalle nostre capacità intellettive.
Non ci credete? Allora state a sentire.
Io non sono alto, diciamolo pure in forma diretta sono proprio basso rispetto alla media dei miei compagni, ma non devo giocare a pallacanestro e la scherma mi dà alcune chances tecniche: proprio per la mia conformazione sono veloce come una saetta e nel corpo a corpo sono il principe delle rimesse o del secondo colpo; per i casi più complicati ho ben meccanicizzato con l’aiuto del maestro il controtempo e i cosiddetti lungagnoni cascano quasi sempre in questa vera e propria trappola tecnica; non ho poi spalle da paura o torace erculeo, ma in compenso presento tanto meno bersaglio per il mio avversario, soprattutto se tiro di fioretto.
Io sono un lungagnone e sopravanzo di almeno una testa i miei compagni di sala, però sono lento, molto lento nei movimenti e vi confesso che non mi hanno nemmeno voluto nella squadra di pallavolo della mia scuola perché dicono che non basta essere alti. Ma il maestro mi ha parlato della spada, dove chi colpisce prima ha sempre ragione, e mi ha insegnato il colpo d’arresto e le azioni di svincolo: finalmente ho trovato la giusta applicazione per le mie lunghe braccia e per giunta utilizzo il manico francese che impugno a mano allungata …molti avversari non arrivano mai a toccarmi.
Io sono un po’ grassoccio perché mi piacciono troppo le merendine e di conseguenza sono abbastanza lento a portare a spasso il mio corpo; ma il maestro mi tiene sempre allenato nelle parate, in tutte le parate, e il mio braccio armato gira come un frullino e sono molto poche le stoccate dell’avversario che riescono a passare da questa barriera.
Io sono timido e scontroso, quindi, purtroppo, ho dei limiti nel rapporto con i miei amici, con i professori a scuola, per non parlare poi degli estranei; mi sento un po’bloccato. Per fortuna un mio amico un giorno mi ha trascinato in sala di scherma e, dopo alcune iniziali difficoltà dovute al mio carattere, un giorno mi hanno fatto mettere la maschera e, con il viso riparato, all’improvviso mi sono sentito più tranquillo e mi è sembrato di non temere più nulla, infatti il maestro mi ha detto di essere soddisfatto.
Io mi sono sempre sentito dire sin da piccolo di stare un po’tranquillo, di non agitarmi e di stare un po’ fermo. Quando il maestro mi ha messo in guardia ho dovuto fare solo quello che mi diceva lui e piano piano sono cambiato, dicono che ora sono più calmo.
Detto tutto questo, intendiamoci bene, la sala di scherma non è una corsia di ospedale pediatrico, una panacea a tutti gli eccessi, veri o presunti. Ma sicuramente è un luogo ideale per esercitarsi a far prevalere le facoltà mentali su tutto il resto; posture ed azioni diventano dei contenitori psichici dove si impara a muoversi sempre meglio e al meglio; di contenitori tecnici, poi, ce ne sono tanti e diversi e ognuno può scegliere secondo le proprie caratteristiche fisiche e psicologiche.
Ma esaminiamo ora in dettaglio tutte le prestazioni a livello mentale di cui si deve far carico lo schermitore quando affronta l’avversario sulla pedana.
Deve padroneggiare, sia in modo sincrono che asincrono, il corpo nel suo complesso e in specifico molte distinte sue parti come il braccio armato e gli arti inferiori.
Deve mantenere sempre attiva la vigilanza sulle iniziative dell’avversario come il suo avanzamento o lo scatenarsi del suo attacco.
Deve osservare e catalogare le caratteristiche dell’avversario: che prestanza fisica ha, che velocità possiede, quali azioni predilige e, tramite lo scandaglio, che reazioni spontanee produce. E questi dati li deve parametrare ai suoi in modo corrispettivo.
Deve elaborare, frugando nel suo bagaglio tecnico, una o più contrarie in attacco e una o più tipologie di difesa; e in questa attività, quasi si trattasse di un disco rigido di un computer, deve ripartire la sua mente operativa in due distinte zone. Deve poi ovviamente tener ben presente le modalità tecniche operative delle azioni prescelte, siano esse relative all’attacco o alla difesa.
Deve sempre analizzare i pro ed i contro di una sua decisione e tenersi sempre pronto all’evenienza: a continuare il fraseggio schermistico o a realizzare improvvisamente un piano B.
Deve verificare in modo critico tutto quello che succede sulla pedana così da poter confermare un certo tipo di comportamento oppure passare ad un altro: modalità di stoccate andate a segno, modalità di stoccate ricevute, modalità di stoccate non andate a segno con i relativi perché.
Deve costantemente monitorare la precisa posizione occupata sulla pedana, il tempo regolamentare residuo, lo stato del punteggio.
Deve infine mantenere sempre la piena lucida ed evitare di essere preda di decisioni avventate, precipitose o emotive.
Tutte queste attività hanno un fil rouge ben definito: la logica. Più razionale sarà il comportamento tenuto sulla pedana dallo schermitore, maggiori saranno le sue probabilità di affermazione. In effetti nelle molteplici situazioni in cui si può venire a trovare durante lo scontro c’è sempre una soluzione (talvolta anche due, raramente tre) da poter adottare per uscirne vittoriosi: la possibilità di imboccare questi stretti vicoli è affidata al 98% alla capacità di ragionamento, lasciando all’imponderabile la restante ben misera percentuale di possibilità.
Considerazione aggiunta: abituare la propria mente a ragionare e a cercare d’informare quanto più è possibile il proprio comportamento, tra l’altro, non è solo una virtù utile su una pedana di scherma, ma credo proprio possa essere vantaggiosa anche sul palcoscenico della vita. Per cui, mi raccomando, fate e fate fare scherma.
Tra l’altro ho la sensazione, forse più di un sospetto, che se Cartesio avesse fatto scherma (e magari l’ha fatta veramente!) avrebbe vinto la maggior parte dei suoi incontri.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e rabbia
L’accezione comune del termine “rabbia” evoca di primo acchito uno spiacevole stato emotivo che va ad alterare l’animo di una persona.
La Psicologia la definisce come uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva.
In questa sede naturalmente non ci interessano le manifestazioni degenerative della rabbia che, notoriamente, si evidenziano tramite componenti espressive del corpo, come ad esempio le espressioni facciali (tanto c’è la maschera!) con tanto di aggrottare violento delle sopracciglia, lo stringere le labbra o serrare i denti. Anche se a questo proposito mi risuonano ancora nei timpani le preziose raccomandazioni che era solito farci un nostro vecchio maestro: Se in pedana durante il match si verificano delle contrarietà, come ad esempio un giudizio dell’arbitro che non condividete o la cattiva sorte nell’esito di una stoccata, non date a vederlo, non tradite in alcun modo il nervosismo che si sta impadronendo di voi; in tal modo date un vantaggio all’avversario che sicuramente, osservandovi, incamererà in positivo tutta la vostra energia negativa. E come dargli torto!
Invece qui a noi interessa la rabbia come innesco di conosciute attività fisiologiche dell’organismo: l’accelerazione del battito cardiaco con il conseguente aumento di afflusso del sangue nella periferia del corpo e la maggiore tensione muscolare. In pratica l’individuo, sfruttando un’ancestrale predisposizione, reagisce ad una contrarietà proveniente dall’esterno che si concretizza in un ingiusto ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo (nel nostro caso, ovviamente il raggiungimento della vittoria nell’assalto); è come se il nostro corpo si caricasse di energie aggiunte per aggredire o difendersi da un presunto nemico.
Mutuando la similitudine dal mondo della Formula 1 potremmo dire che questo potenziamento del corpo è simile a quando un pilota, trovandosi nelle immediate propinquaggini della vettura che lo precede, può ricorrere al DRS ovvero all’apertura della cosiddetta ala mobile: si tratta invero di un aumento di prestazione sottoposto ad una condizione e di durata limitata nel tempo.
Ma la “rabbia” può non solo rafforzare il corpo dell’atleta, ma anche la sua sfera emotiva: in effetti può andare a solleticare l’orgoglio e l’amor proprio, inducendolo ad una pronta reazione e andando quindi ad aumentare la sua forza di volontà; in fin dei conti è come applicare alla mente, sempre ricorrendo all’esempio della Formula 1, il Kers, ovvero quel meccanismo che riesce a recuperare parte dell’energia cinetica di un veicolo durante la fase di frenata e a trasformarla in un’altra forma di energia.
Comunque, per quanto ovvio, è doveroso ricordare che, sia per il corpo che per la mente, la “rabbia” pone l’atleta davanti ad un pericoloso bivio: una strada sicuramente porta a quei benefit di cui abbiamo fatto cenno poco sopra, ma l’altra porta con altrettanta certezza a un peggioramento della situazione; se la prestazione fisica ne risente in minore quantità, è soprattutto nell’ambito mentale che si prospetta il pericolo maggiore.
Sappiamo tutti che lo schermitore affida innanzitutto alla sua lucidità intellettuale le maggiori probabilità di vittoria: lo studio dell’avversario deve essere attento e quanto più completo possibile; la successiva ricerca della contraria più idonea per costruire la stoccata vincente deve essere la più logica e la più attendibile; l’esecuzione del colpo, per avere successo, deve poi tener conto della relativa idonea collocazione nel tempo e nello spazio.
L’alterazione mentale dovuta ad uno stress emotivo quale la “rabbia”, se non opportunamente controllato, va quindi direttamente a minacciare una delle colonne portanti dello scontro sulla pedana. Nulla di troppo, invocavano i Sette savi che preludono la filosofia classica greca: al solito, nella scherma come nella vita quotidiana, si tratta di trovare sempre l’ottimale punto di equilibrio, che dà i frutti migliori. Per cui lo schermitore che si arrabbia, lo faccia pure, ma non troppo; il ché, come sicuramente concordate con me, è molto facile a dirsi, ma molto meno a farsi!
Lo schermitore, se il tempo regolamentare glielo consente, deve, all’opportunità, prendersi qualche istante per, come si dice, sbollire e poi ripartire quando sente di essere tornato pienamente in grado di esercitare al meglio le sue complesse funzioni mentali, magari dopo che ha caricato le molle interiori di cui abbiamo appena sopra fatto cenno …un laccio di una scarpa può necessitare di essere rifatto o l’arma è meglio cambiarla con un’altra! Non sono comportamenti antisportivi, almeno al 100% , e il Regolamento certo non li vieta. Una delle virtù maggiori di chi compete sulla pedana è quella di riuscire a dilatare il tempo: una manciata di secondi può rappresentare non solo un’oggettiva interruzione dello scontro, ma in certi casi anche una vera e propria cesura mentale al fine di recuperare una migliore capacità di prestazione mentale; il fine diretto è quello di ricaricarsi, depurando il proprio stato d’animo da ciò che può nuocere alla propria efficienza.
Il fatto è che la battaglia per la vittoria deve essere perseguita con tutti i mezzi possibili, ovviamente leciti: questo è l’atteggiamento del vero combattente. Le contrarietà hanno sempre degli anfratti o dei risvolti che ci offrono dei punti di appiglio, si tratta di avere l’esperienza per poterli sfruttare a nostro vantaggio o almeno tentare di farlo.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2020
Scherma e sacrificio
E’ risaputo che il tempo crea delle clamorose fratture nel comune sentire delle persone: la Società da sempre muta i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e le cose. Talvolta una generazione è chiamata a vivere più intensamente di quelle che l’hanno preceduta questi passaggi di valori e di credenze diffuse.
Ebbene anche io ho vissuto nel mio piccolo questa esperienza: tutto è nato quando per la terza o quarta volta ho sentito parlare di sacrificio nelle interviste di qualche schermitore; le prime due, evidentemente, mi erano parse dei pour parler senza eccessive pretese.
Poi ho capito: molti degli schermitori di oggi affermano di sacrificarsi per la nostra disciplina.
Io naturalmente filtro il mondo ed i suoi accadimenti con le mie personali convinzioni, che, da persona spero dotata almeno di un minimo di comprendonio, cerco di adeguare al sopraccitato mutare del tempo, il famoso panta rei di eraclitiana memoria. Nonostante questo mi sono meravigliato e non poco di questo sottolineato spirito di sacrificio.
Un buon dizionario lo definisce come grave privazione o rinuncia volontaria di beni e necessità elementari di natura materiale ed umana. Ovviamente il tutto va adattato al nostro caso, comunque il senso è quello di un qualcosa che pesa, di un qualcosa che qualcuno si impone di fare.
Ed è qui che, vissuto certamente in età paleolitica per l’evoluzione attuale che c’è stata nella scherma, non riesco veramente a capire la frase “mi sono sacrificato tanto”.
Nell’epoca in cui sono stato schermitore agonista nella nostra disciplina non c’era il professionismo o meglio era considerato professionista (e quindi escluso dalle competizioni) chi conseguiva il titolo di maestro di scherma, atto all’insegnamento.
Chi frequentava una sala non aveva altro padrone che se stesso: si allenava molto, si allenava poco, tutto era subordinato al piacere di praticare la nostra disciplina. Ricordo perfettamente che c’erano anche dei miei valenti compagni che non si allenavano quasi per nulla, poi andavano alle gare e facevano ottime prestazioni; quando entrai a far parte del giro della nazionale di spada anche io mi allenavo un paio di volte a settimana, talvolta tre. L’unica pulsione era di andare a divertirsi in sala con la scherma e con gli immancabili amici; in questo spirito neanche il 50% degli iscritti al club andava a fare le gare: tutti, chi più chi meno facevamo l’escrime pour l’escrime.
Con questa impostazione non ho mai sentito qualcuno dei miei compagni che vinceva qualche gara, anche grossa, dire mi sono sacrificato: in effetti sarebbe stata una frase incomprensibile in quello stato di cose.
A questo proposito aggiungerei anche una mia confidenza personale, che naturalmente vale per quello che vale: il sabato in sala c’era attività e di solito andavo a fare qualche botta sulla pedana; ma, se nello stesso giorno ero invitato ad una festa tra coetanei in casa (questi erano i costumi e gli ambienti dell’epoca), tralasciavo la scherma per andare alla festa; ma, qualche volta, se non c’era qualche ragazzina di mio gusto con cui tentare di fare il galletto, sul tardo pomeriggio salutavo tutti e andavo a vestirmi di bianco e ad impugnare un’arma.
Questo era il paleolitico, mentre oggi la situazione è ovviamente diversa: l’agonismo è diventato il principale motore delle attività sportive (tutti vanno alle gare, anche i master) e la concorrenza impone pressanti ritmi di allenamento.
Chi dimostra di avere dei numeri ha anche la possibilità di entrare a far parte dei cosiddetti atleti di Stato ed ha la fortuna di continuare a fare ciò che gli piace con il conforto di una regolare busta paga, infarcita anche di premi in relazione alle prestazioni agonistiche; non male visto le condizioni dell’economia degli ultimi anni.
Il termine professionista a qualcuno può far storcere la bocca e forse il termine stesso non è giuridicamente applicabile agli schermitori: fatto sta che il sostentamento viene procurato con le armi sulla pedana.
Intendiamoci subito: questo non è assolutamente un male in sé, soprattutto anche per il fatto che ci siamo dovuti allineare ad una politica escogitata e applicata decenni addietro dai Paesi dell’Est, che facevano dello sport una loro bandiera politica; chi vuol competere a livello internazionale oggi deve fare così o si è tagliati assolutamente fuori dai giochi (con battuta, anche da quelli olimpici!).
Bene, allora quando sei pagato per fare un qualcosa hai degli obblighi da rispettare al di fuori della tua volontà; magari non devi timbrare il cartellino, ma la situazione non deve essere molto dissimile.
Ecco che a questo punto riecheggia la inopportuna frase di qualcuno di questi atleti che parla di grandi sacrifici: è come, se tornando la sera dall’Istituto di Credito dove mi sono guadagnato da vivere per tutta la vita, avessi improvvidamente detto a mia moglie e ai miei figli mi sono sacrificato tanto; la mia famiglia non avrebbe capito il senso delle mie parole e, anzi, le avrebbero interpretate come se rinfacciassi loro qualcosa.
Ecco perché il concetto che sta dietro alla frase incriminata non regge: se non ci fosse un compenso come era ai miei tempi, forse la frase potrebbe anche rappresentare uno sprone morale a dare tutto se stesso per un fine e poi ognuno la interpreta come vuole; ma in presenza di una professione, al di là della frase ad effetto, non c’è tenuta logica. Ancor più, poi, se si tiene in doveroso conto che con molta probabilità anche tanti altri hanno fatto tanti pari sacrifici, ma a loro non ha arriso la sorte.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre del 2020
Scherma e sangue freddo
Sangue freddo era solito dirmi uno dei miei tanti maestri quando andavo a salutarlo alla vigilia della partenza per una gara; la psicologia non aveva fatto ancora capolino nelle sale di scherma, ma il buon senso vi ha sempre regnato.
Indubbiamente la mente soprassiede all’attività dell’uomo: ne gestisce le risorse fisiche e le capacità acquisite per determinate finalità e in fin dei conti colora appunto di umanità le sue azioni. L’uomo si differenzia dalla macchina perché possiede fortunatamente questo equalizzatore di prestazioni.
Sangue freddo, come ben sappiamo nella teoria e chi più chi meno nella pratica, significa mantenere la calma, avere il controllo della situazione e adoperarsi al meglio.
La pedana di scherma è il luogo per eccellenza per cercare di applicare questo ideale filtro tra se stesso e la realtà. In effetti un assalto con le armi in pugno è un’ottima miscela di condizioni di stress e di competizione.
Stress in quanto sei coinvolto, pur con modalità ovviamente edulcorate, in una delle più antiche e ricorrenti attività umane, l’aggressione di un simile. Competizione in quanto le “cattive intenzioni” sono reciproche e ti confronti per avere la supremazia.
Diamo per scontato che per uno schermitore maturo la realizzazione delle varie posture tecniche e l’esecuzione dei colpi sia di attacco che di difesa siano affidati ad attività cerebrali riflesse; la mente risulta quindi interamente impegnata in primis nella tattica, ovvero nel reperimento della cosiddetta contraria; in secundis nella strategia, ovvero nel reperimento di tutto ciò che ha come fine ultimo il conseguimento della vittoria.
La mente deve quindi essere nelle condizioni migliori per svolgere queste due fondamentali funzioni e per esserlo deve essere in grado di arginare quanto più è possibile la tensione emotiva di cui ciascuno di noi è, pur in diverso grado, portatore.
Paure, angosce, incertezze, indecisioni e titubanze sono appena dietro l’angolo e questi stati d’animo sono alquanto nocivi nei confronti dell’estesa attività mentale che lo schermitore deve produrre: osservazione delle caratteristiche dell’avversario, ricerca dell’idonea contraria sia per quanto riguarda l’attacco che la difesa, attesa del momento più propizio per agire, eventuale variazione della tattica strada facendo nel corso del match in funzione dell’esito delle proprie scelte, variazione della strategia in funzione del punteggio e del restante tempo regolamentare a disposizione.
Rallentamenti per non dire intoppi in queste attività fondamentali, riducendo l’efficienza del sistema-schermitore, mettono in serio dubbio l’esito favorevole dell’incontro.
Ecco a cosa serve il popolare detto che invita al sangue freddo: resistere quanto più è possibile alla pressione del momento; mantenere la calma, è ovvio, non porta necessariamente al successo, ma almeno ci consente di esprimerci al meglio.
Scrivere in tal senso è facile, realizzarlo in pedana, magari di fronte ad un avversario arrembante, molto meno; l’importante comunque è essere consapevoli di questo valore aggiunto del combattente; poi ognuno dovrà fare i conti con la propria emotività e con la propria personalità. Attenzione comunque alla misura delle cose: in queste situazioni i più pensano agli emotivi cronici, ma la cosa riguarda da vicino anche i troppo rilassati e tranquilli: l’ideale carica interiore si ottiene evidentemente nell’equilibrio di ogni singolo atleta.
E lo schermitore deve stare sempre all’erta nelle diverse situazioni in cui può venirsi a trovare: un netto svantaggio di stoccate rischia pericolosamente di avvilirlo – al contrario un buon vantaggio può portarlo altrettanto pericolosamente a sottovalutare l’avversario – un presunto errore arbitrale può irritarlo e quindi innervosirlo – il trovarsi di fronte un avversario molto forte sulla carta può intimorirlo – un mancino può essere uno spauracchio già in partenza – e quant’altro.
L’importante comunque è capire e credere che questa fattiva gravitas si può anche ottenere con l’allenamento mentale: la tecnica si affina con il maestro, l’addestramento fisico con il preparatore atletico, l’autocontrollo con se stesso. Gli psicologi si sono già affacciati alle porte delle sale di scherma; io sono figlio dei miei tempi dove questi problemi tentavi di risolverli da solo dopo le pur benevoli urlate del maestro, ma non son contrario di principio a questi aiuti esterni per chi ne fosse bisognoso.
La strada per giungere a questa specie di atarassia, come già perorava Democrito, sicuramente passa dalla capacità di concentrazione che deve necessariamente accompagnare la crescita grandangolare dell’atleta: in effetti gli aspetti da tenere sotto controllo durante lo svolgimento di un match sono talmente numerosi e variegati che la mente credo abbia poche residue riserve energetiche per dedicare a queste zavorre che inficiano la prestazione. Quindi concentrarsi al massimo sull’avversario porta automaticamente all’imperturbabilità dell’animo.
L’imperativo categorico di ogni schermitore, prima del sogno di vincere un’Olimpiade o dintorni, deve essere quello di raggiungere la sua massima forma e riuscire poi a mantenerla nel tempo: la formula è mente lucida e corpo efficiente.
Buona fortuna.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2020
Scherma e sconfitta
Un esempio molto calzante che si potrebbe fare per illustrare la cosiddetta concezione manichea della vita potrebbe essere questa: a tutti piace vincere, a nessuno perdere. Bella scoperta! (a meno di non essere dei masochisti).
Eppure perdere fa parte dei giochi: tranne la “patta” degli scacchisti, il “pareggio” sui campi di calcio e pochi altri esempi da poter fare, in tutti gli altri casi c’è chi vince e, conseguentemente, c’è chi perde.
La sfida è un nostro modello ancestrale per rapportarci con il mondo esterno e lo scontro, di qualsivoglia natura sia, fa parte del nostro DNA: confrontarsi, misurarsi, combattere per avere il sopravvento su qualcuno è un atteggiamento che ci riporta alle nostre origini e, purtroppo, anche ai nostri tempi, dove tutto nella Società è presentato oggi sotto forma di sfrenata e deregolata competizione con l’altro.
Comunque chi accetta un “duello” lo sa da prima che si può perdere; d’altra parte chi per viltà o similari non accetta “sfide” non perderà certo mai, ma la vita lo bollerà come un totale perdente ante litteram.
Ai “combattimenti” quindi è impossibile sottrarsi; tanto vale prepararsi adeguatamente e tirar fuori unghie – denti e quant’altro a disposizione.
Qui, ora, ci siamo riproposti di parlare di quell’incresciosa situazione che è la sconfitta.
Che dire?! Partirei da una canzonetta (non poi così canzonetta!) degli anni ’60: i Rokes cantavano “Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere”.
Frase molto razionale, molto pragmatica e soprattutto reale se si pensa che su tutto un numeroso lotto di concorrenti alla fine della gara uno solo è il vincitore e tutti gli altri sono gli sconfitti.
Ma ecco che già il concetto di “relativo” può soccorrere i soccombenti: ad esempio uno schermitore con una posizione molto bassa nel ranking entra in finale e poi perde; uno molto giovane di età che riesce a piazzarsi bene in una gara assoluta e poi perde magari nei quarti di finale; un tiratore specializzato in un’arma che prende parte ad un torneo di un’altra specialità e che riesce ad arrivare ai piedi del podio; uno può uscire sempre al primo turno (questo è un ricordo personale di uno dei miei numerosi compagni di sala), finché finalmente riesce un giorno a passare al secondo, dove poi regolarmente esce. In questi casi e in altri si risulta sconfitti, ma si può anche essere molto soddisfatti della propria prestazione. Quindi c’è sconfitta e sconfitta.
Poi diamo a Cesare quel che è di Cesare! Essere medaglia d’argento, di bronzo, ma anche finalista ad una gara importante, diciamo un campionato nazionale, un trofeo valido per la Coppa del mondo per non dire un’Olimpiade, non è poi cosa assolutamente da buttare via: i più ci metterebbero una firma grossa così e, a richiesta, farebbero anche salti mortali! Forse ai tempi d’oggi spesso si perde il senso della misura: il martellamento della Società contemporanea (anche non nelle competizioni sportive), è quello di vincere, vincere, solo vincere; chi segue il vincitore quasi è nulla, invece è gloriosamente 2° – 3° e così via sino al penultimo (l’ultimo invece non ha proprio scuse, anche se può appellarsi al principio “l’importante è partecipare” . La classifica di una gara da il suo responso finale: “A ciascuno il suo”, dicevano i nostri antenati romani, che erano persone molto quadrate e pragmatiche.
Ma veniamo ora alle conseguenze della sconfitta ed analizziamo le varie situazioni che possono venire a crearsi.
Diciamo innanzitutto che come insegna una sconfitta, mai nessuna vittoria potrà farlo: colui che si è affermato è alquanto distratto emotivamente dalla sua prestazione e può avere solo una conferma indiretta che la sua generale condotta di gara, risultando vincitore, è stata appunto quella più idonea. Il più delle volte non potrà aggiungere nulla di nuovo al suo bagaglio tecnico – tattico – strategico.
Al contrario, chi subisce la sconfitta, se è persona intelligente o comunque se è allenato da persona intelligente, non potrà esimersi dall’esaminare il o i perché del proprio insuccesso; e da questo esame con probabilità emergeranno lacune e/o correzioni da cercare di apportare al modo di combattere sulla pedana in modo tale da poter progredire nel proprio rendimento. Quindi la vittoria appaga, ma la sconfitta stimola.
Perdere è comunque un richiamo alla realtà; perdere offre una misura di se stesso; perdere può quindi rappresentare un ottimo corroborante di crescita.
Un altro aspetto non trascurabile di un insuccesso sulla pedana è costituito dalla sua entità: in effetti si può perdere in diversi modi. Si può essere sconfitti in modo netto e allora con il maestro si deve ripartire dal famoso detto del ciclista Bartali: “L’è tutto sbagliato l’è tutto da rifare”. Si può perdere anche all’ultima stoccata: dal punto di vista dell’esito finale non è che cambi molto, ma perdere sul celebre filo di lana, anche se la sconfitta risulta nell’immediato più cocente delle altre, almeno comporta una certa equivalenza di valori espressi nel match e fa ben sperare per il futuro.
Fondamentale poi è il lato caratteriale dello schermitore: è ammissibile che una sconfitta comporti sul momento una forte delusione e un abbattimento psicologico, ma, e qui si vede appunto la forza interiore di un soggetto, subito dopo devono subentrare nuove energie mentali che possano supportare un desiderio di rivincita, di rivalsa e di riscatto. Anzi la sconfitta, se gestita caratterialmente al meglio, può rappresentare un vero e proprio trampolino psicologico, esortando il soggetto ad incrementare la propria preparazione fisica e tecnica al fine di ottenere da se stessi una prestazione migliore. Il che, ovviamente, non vuol dire che per diventare più forte uno schermitore deve perdere; il significato invece è quello di cercare di convertire in energia positiva anche gli accadimenti avversi.
Se lo schermitore non ha questa capacità di recupero mentale, è bene che si dedichi ad altre attività che non comportino alcun tipo di competizione. Infatti il vero schermitore deve amare il confronto per il confronto; questo è il suo essenziale terreno di coltura fisico – tecnico – tattico – strategico e psicologico: il responso della pedana è ovviamente importante, ma sotto certi aspetti diventa quasi secondario.
In ultima analisi poi, di gare ce ne sono tante e si può sempre confidare nel futuro, magari cambiando un po’ il testo della canzonetta ricordata in precedenza: “Non sempre si può perdere, speriamo qualche volta di poter vincere”.
M° Stefano Gardenti
A Firenze nell’ottobre 2018
Scherma e sconfitta
Di cosa è fatta una vittoria? Chiese l’allievo; di molte sconfitte, rispose il maestro.
E non si intenda questa affermazione come una rara eccezione alla favola di Esopo della volpe e l’uva: ogni schermitore sa che è solo la vera verità.
In effetti nessun campione sulle nostre pedane ha sempre vinto; magari ha vinto tanto, ma non sempre. La scherma consiste in una prestazione sportiva talmente composita, labile e relativa che non ha mai consentito a nessuno di rimanere imbattuto per sempre; tanto per intendersi come il cubano Alberto Jantorena, mezzofondista che per dieci lunghi anni sbaragliò tutti gli avversari che gli correvano a fianco nei 400 e 800 metri.
Detto questo, è facilmente intuibile che lo schermitore debba porsi il problema del suo rapporto con la sconfitta, che, attenzione, può clamorosamente spaziare dall’eliminazione al primo turno di una competizione alla perdita della vittoria battuto dall’avversario sul 14 pari.
Come il pugile, lo schermitore deve imparare a incassare questi colpi psicologici e a costruirsi nel tempo una specie di corazza psicologica; ma non solo: punto di partenza non può essere altro che l’analisi della sconfitta, ovvero il rivissuto agonistico al fine di studiarne le cause e concause. I maestri non sono ovviamente solo dei cattedratici, ma osservando l’allievo nella realtà dello scontro, possono e devono aiutare l’allievo ad individuare e a coprire le falle del suo sistema – schermitore. Ovviamente per atleti già sufficientemente formati sia tecnicamente che tatticamente, il dopo gara rappresenta una specie di utilissima correzione della verifica in classe che è stato lo svolgimento del match: ricordare, capire, correggersi è sicuramente uno dei maggiori istanti di crescita per ogni atleta.
Sotto questa particolare ottica l’errore, così aborrito e vituperato nella contingenza reale, viene successivamente a costituire, a ben vedere, il miglior alleato per potersi migliorare; conditio sine qua non per la potenziale evoluzione sono in prima battuta l’umiltà personale, subito dopo un buon comprendonio e infine la volontà di attuazione. In effetti da tempo la saggezza popolare ha coniato il detto sbagliando s’impara.
Questo primo aspetto della sconfitta è determinante per la crescita tecnica dello schermitore: senza questa messa a punto del suo modo di interpretare lo scontro sulla pedana in collaborazione con il proprio maestro è preclusa ogni sua evoluzione.
Subito dopo i cosiddetti valori tecnici è indispensabile anche citare quelli squisitamente strategici: un match si può indubbiamente perdere anche per errori tipo il mancato opportuno studio dell’avversario prima di sferrare un proprio attacco, nel proseguo dell’incontro il precipitare l’assalto, il sottovalutare in partenza l’avversario, , il non sapere cambiare gioco quando necessario, il non riuscire a gestire un vantaggio di punteggio in relazione al tempo regolamentare restante e così via.
A ben vedere le situazioni in cui si può venire a trovare lo schermitore non sono poi così numerose da non poter essere prese in doverosa considerazione prima del combattimento: il processo esperienziale sotto questo aspetto è determinante e deve portare a non commettere lo stesso tipo di errore, dopo aver pagato appunto il fio nella sconfitta. La costruzione del proprio Io schermistico non può e non deve prescindere dalla verifica di queste meccaniche comportamentali. E, anche in questo caso, ciò che rende attuali questi processi mentali è la sconfitta: ovviamente quando si vince non si occupa né tempo né spirito per esaminare l’accaduto in senso critico; si è vinto e questo basta.
Un altro aspetto molto importante ed interessante è quello della progressiva formazione del carattere dello schermitore.
Indubbiamente il conseguimento di una vittoria rende consapevoli della proprie possibilità, dà entusiasmo, fornisce certezze, in una parola conferisce maggiore sicurezza di sé. Ma, per chi ha esperienza in questo campo, talvolta può purtroppo sortire anche effetti indesiderati e deleteri: come si suol dire un atleta si può montare la testa, oppure si può ritenere completamente soddisfatto e, sentendosi arrivato, può non avere più stimoli importanti, può alimentare negativamente la propria vanagloria e peccare poi di presunzione.
Ma, si fa così per dire, fortunatamente c’è anche la sconfitta che, soprattutto quando è bruciante, produce una reazione positiva: più voglia di allenarsi, più attenzione, maggiore desiderio di affermazione; insomma tutta energia positiva tendente al futuro. Anche in questo caso però ci sono delle possibili controindicazioni: abbattimento psicologico, minore fiducia nei propri mezzi, il perdersi d’animo e, nei casi estremi, l’idea di abbandonare il tutto.
Questa altalena emozionale è comune a tutti e non solo nella scherma: l’abilità personale o la fortuna a seconda delle proprie credenze deve riuscire a comporre queste due forze traenti di diverso segno, attingendo da ognuna di esse solo le positività di cui sono foriere, come appena sopra descritto.
Comunque va fatta un’importante affermazione: la sconfitta rappresenta sempre e comunque un valore relativo, che quindi va analizzato e a cui bisogna dare il suo giusto valore. In effetti ci possono essere numerosi risvolti, a cui poter dare diversi tipi di risposta.
Si può perdere da chi è, almeno attualmente, superiore: non so, da chi occupa rispetto a te una posizione molto più avanzata nel ranking, da chi è testa di serie nel girone all’italiana, da chi ha già vinto gare importanti oppure tu sei di una categoria giovanile e l’avversario è invece un maggiorenne. In questo caso ovviamente il giudizio sulla prestazione va relativizzato e messo magari in relazione al numero di stoccate che sei riuscito a piazzare.
Caso inverso, si può invece perdere contro un outsider, cioè da un non favorito: la sconfitta naturalmente prende qui un’altra piega ed è assolutamente necessario andare a verificare le motivazioni tecniche e tattiche che hanno reso possibile un ribaltamento dei valori in campo.
Passando alla tecnica: si può perdere con un avversario che non sei riuscito minimamente a capire e allora devi parlarne con il tuo maestro e cercare di analizzare per quanto possibile l’accaduto; in una parola devi ampliare il tuo bagaglio tecnico.
Si può perdere tirando contro un mancino non riuscendo a superare le difficoltà relative al suo ribaltamento posturale: bene, sperando che ci sia un mancino nella tua sala, requisiscilo per un’ora durante ogni tuo allenamento.
Nelle ultime fasi dell’eliminazione diretta non sei più in forze: ovviamente devi incrementare la tua preparazione atletica, basta sudare un po’ di più in sala.
Perdi sempre con la tua cosiddetta bestia nera: lavora soprattutto sulla tua mente, cercando di sconfiggere i tuoi mostri dell’Id; in parallelo lavora anche con il tuo maestro nello specifico.
Nessuno schermitore al mondo può cancellare la sconfitta dalla sua attività, a parte, e questo è il bello, che l’esito di un match si conosce solo dopo che si è combattuto. La sconfitta deve rappresentare solo e soltanto un valore episodico sulla pedana, in attesa, molto ovviamente, della più gratificante e augurabile vittoria.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno del 2020
Scherma e Stati d’animo
Durante il primo assalto della tua vita (ed anche qualcun altro dopo) in genere il tuo cuore batte all’impazzata e la mente è così occupata a pensare a tutto che …non si aspetta altro che finisca; come quando al mare ti metti maschera e pinne e vai sott’acqua.
In seguito, frequentando la sala, non solo apprendi a tirare nuovi colpi e a perfezionare quelli che già conosci, impari anche a respirare regolarmente sotto la maschera (questa volta da scherma) e a renderti conto di tantissime cose. D’altronde quando si combatte sulla pedana bisogna tenere sott’occhio una quantità enorme di dati (le strumentazioni della cabina di pilotaggio di un aereo sono meno impegnative!): le sue caratteristiche fisiche rapportate alle nostre e quindi la relativa idonea misura, le sue caratteristiche tecniche che vanno osservate e meditate, le decisioni sul da farsi e parallelamente la vigilanza continua su cosa fa all’improvviso l’avversario, lo stato del punteggio, in che punto della pedana siamo e quanto tempo manca alla fine del match e tanti altri parametri su cui vigilare con attenzione e costanza.
Non c’è che dire, la mente è molto occupata.
Tuttavia con l’andare del tempo ecco emergere, in qualcuno più e in qualcuno meno, le emozioni, tratti inconfondibili della nostra umanità che tendono a colorire le varie situazioni in cui ci troviamo.
L’imprinting è la prima gara a cui partecipi: non dormi profondamente come il celebre principe di Condé e a colazione sembra che ti abbiano cementato lo stomaco; in seguito si aggiunge anche la fantozziana “salivazione azzerata”. Anche se la sede di gara è a Capo Nord, cioè fuori della tua città, arrivi sul luogo di gara già completamente vestito da scherma, il guanto, per dignità però è ancora nella sacca delle armi e, comunque, quando lo indossi non stacchi più la mano dalla lama della tua arma che tieni con la punta rigorosamente in basso. E il maestro ti aveva detto in c… alla balena (il WWF fa finta di niente!) e soprattutto: stai tranquillo!
Innanzitutto c’è la carburazione, sì, proprio quella dei motori: quando comincia la gara c’è chi non è ha assolutamente bisogno (o almeno crede di non averne bisogno) e sta seduto con gli occhi sgranati e non parla nemmeno con chi gli sta accanto, sbadigliando a più non posso; c’è chi si impegna nel cosiddetto riscaldamento, che poi si riduce a un paio di giri di corsa del perimetro del luogo di gara; c’è chi fa una manciata di stoccate con un proprio compagno di club, quasi sempre senza nemmeno, come si dice, attaccarsi alla macchina; c’è invece chi ha bisogno di sudare abbondantemente prima della chiamata sulla pedana e quindi fa cose da Rocky 2 e c’è anche quello che chiede al maestro una minilezione sul posto (ma non poteva farlo in sala prima della gara?!).
Scherzi a parte, oltre alla naturale e provvida attenzione alla preparazione fisica, ognuno combatte contro i propri famosi mostri dell’Id: paure, paurine, dubbi e freni a mano del genere li abbiamo tutti, più o meno; e ognuno ha imparato a modo suo a esorcizzarli. Uno dei miei maestri diceva: se hai fatto sempre lezione, è come se il primo turno l’avessi già passato! Già! E se tutti quelli del mio girone avessero anche loro ossequiato questo principio esoterico?! Un altro maestro diceva: dai, sei così forte, che comincerai la vera gara al terzo turno! Maestro, allora mi firma lei il pass per il direttore di torneo?!
La verità è tutta nel titolo: scherma e stati d’animo.
Volete qualche altro esempio? Eccovi serviti.
Rompere il ghiaccio, l’importante è rompere il ghiaccio quando inizi una gara (ma poi perché proprio il ghiaccio?!), diceva un altro mio maestro: prenditi pure una stoccata (due comincerebbero ad essere un po’ troppe!), sgonfiati, poi renditi conto dove sei, ragiona su quello che devi fare e a null’altro che all’avversario, vedrai che non avrai tempo per pensare ad altre cose. Capii in seguito che una definizione più giusta di concentrazione non la potevo trovare nemmeno sulla Treccani! E miracolosamente questa formula faceva sparire i fantasmi della mia mente.
Ma i patemi d’animo possono anche nascere durante il match: conduco nel punteggio in modo significativo, mi rilasso il giusto (occhio a rilassarsi troppo!), tiro tranquillo, faccio quello che so fare e arrivo felicemente alla meta della vittoria. Nel caso inverso tendo ad agitarmi (mai agitarsi nella scherma), perdo la percezione del tempo reale, precipito le azioni e sprofondo nelle sabbie mobili della sconfitta. Attenzione però: se il mio avversario riesce a recuperare o se invece riesco a farlo io, il discorso s’inverte e le “paure” lasciano una sponda per approdare sull’altra.
Poi c’è anche la situazione caratterizzata dal punteggio che prosegue quasi in parallelo: uno stoccata io, una lui, una lui ed una io. Da fuori pedana urlano: stai calmo; capisco la situazione, ma non è facile tappare un vulcano! Non parliamo poi quando la parità è sulla penultima stoccata! Roba della migliore Agatha Christie! Insomma nella scherma non si può mai stare tranquilli un attimo.
Non posso neanche tacere su un vero e proprio assurdo mentale: sono ad una stoccata dal traguardo ambito e mi blocco; cosa è? Ma la famosa paura di vincere! Ma come la paura di vincere? C’è anche questa oltre a quella più ovvia di perdere?! Eh sì! Provare per credere. Il segreto è quello di far finta di niente e di tirare come se si fosse ancora alle prime stoccate; già, però poi ti devono segnalare la fine dell’incontro con le bandierine o con il megafono!
Non si offenda poi nessuno, ma devo anche citare la non rara paura della bestia nera; tranquilli, le gare non sono film horror e per bestia nera s’intende soltanto un avversario che nella nostra vita di schermitori non siamo mai riusciti a battere; sì, proprio mai. Possibile?! Possibilissimo. Ma non è mai successo che …ho detto mai! Sono le pieghe che può purtroppo prendere la nostra mente e gli incontri sulla pedana, valore agonistico a parte, non sono mai paritetici: la bestia nera lo sa e parte sempre in vantaggio psicologico, mentre l’altro deve scalare l’Everest senza maschera ad ossigeno. Sembra assurdo e ridicolo, sembra che la cabala non possa girare sempre dalla stessa parte, ma credetemi: le bestie nere esistono!
Un altro caso da citare è quello in cui ti chiamano in pedana a guerreggiare con un campione; sì, quello che hai visto alla televisione o (oggi) su YouTube, quello che magari ha vinto o almeno è andato alle Olimpiadi o ai Campionati del mondo. Non vale! E’ come fare un duello con D’Artagnan, Zorro o equiparati. Lotta impari, vittima sacrificale, paura del famoso cappotto, ora mi mangia vivo: tutti concetti che ti affollano la mente e tendono ad offuscartela. Ma il maestro, un altro ancora, corre in soccorso: lui è forte, ma tu mettiti bene in guardia, fai la tua scherma e tira tranquillo. Non occorre aver letto le Critiche di Immanuel Kant per capire: uno, sì lo so già da me che è forte e tu me lo vieni pure a ricordare! – due, certo che farò la mia scherma, perché la scherma di chi dovrei fare?! – tre, tranquillo e come si fa a stare tranquilli se si sale sul patibolo! Il maestro incalza: mettigli almeno un paio di stoccate; …e come si fa?!
Finito l’assalto, finita la tensione? Solo in due casi, diciamo estremi: o hai appena vinto la gara (probabile, ma raro) e quindi non hai più avversari da battere oppure hai perso l’assalto decisivo (molto probabile e non raro) e ti hanno eliminato dalla competizione. In tutti gli altri casi c’è da patire, a puntate come nelle peggiori serie televisive.
Dulcis in fundo il patema da mancino, cioè quello schermitore che quando te lo trovi davanti ti sembra di essere allo specchio: tutto si squinterna e l’interno diventa esterno e l’esterno interno, quindi tiri ad un bersaglio e non è lo stesso di sempre, ma quello opposto; ti sembra che i celeberrimi Elementi di Euclide siano da buttare alle ortiche! Eppure un mio maestro (sì, un altro ancora tra i miei tanti!), mi forni un passe-partout molto utile: se non sai cosa fare quando tiri con un mancino, osserva cosa fa lui e rifaglielo. L’italiano forse lasciava un po’ a desiderare e il concetto teorico era espresso grossolanamente, ma vidi che la cosa funzionava e da quel dì fui immune dalla paura del mancino.
Forse ho un po’ esagerato e colorito un po’ troppo le situazioni, ma in fin dei conti questa è la scherma, la nostra meravigliosa disciplina: avere una mente che ragiona e soprassiede al corpo, una mente soprattutto capace di estraniarsi dagli stati emozionali prodotti dalle diverse situazioni che si possono venire a creare durante il match. Diciamo un tentativo di vittoria su se stessi, per essere equilibrati e quindi efficienti al massimo: la sfida con l’avversario, quella che si sviluppa sulla pedana, ve ne sarete accorti, è preceduta da un’altra sfida molto importante e basilare, quella che lo schermitore conduce sotto la maschera con se stesso.
Per tutto questo mi sento di dover dire: grazie scherma.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio del 2018
Scherma e volontà
Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli, scrive l’Alfieri ad esaltazione e a imperitura icona culturale della volontà.
Come sappiamo essa è la determinazione di una persona a compiere o ad evitare di compiere certi atti volti al raggiungimento di un preciso scopo; quanto poi sia libera è un tema così complesso e controverso che lo lasciamo volentieri a filosofi o teologi.
Comunque possiamo fare un’affermazione senza timore di essere facilmente smentiti: lo schermitore deve essere necessariamente un volitivo; che poi lo sia di natura o che invece lo diventi per necessità salendo sulla pedana è un altro discorso.
In effetti ognuno di noi ha un proprio carattere, derivato da quella insondabile miscela rappresentata dal rapporto tra i propri tratti mentali e l’ambiente in cui trascorriamo soprattutto i primi anni dell’infanzia; così c’è il cosiddetto timido e agli antipodi lo sfrontato, c’è il titubante e il deciso, il remissivo e l’aggressivo; la psicologia parla anche di nevrotici da contrapporre agli esplosivi. Naturalmente questi sono i limiti, al cui interno poi troviamo fortunatamente anche gli elementi sufficientemente normali.
Ecco la grande importanza che lo sport in genere e la scherma in particolare perseguono in prima battuta: equilibrare le forze interiori, coordinandole per la migliore crescita globale dell’individuo. Col tempo la volontà apprende a soprassedere, dirigere e indirizzare il proprio interiore.
Magari poi chi entra in sala per la prima volta non l’ha fatto nemmeno di propria volontà: se in famiglia qualcuno ha fatto scherma, ancor più se è stato un campione, c’è una specie di obbligo non scritto di impugnare un’arma; oppure è stato il sogno non realizzato di un genitore o quant’altro. Questo però ci preoccupa abbastanza poco perché, come l’appetito, la voglia di fare scherma vien tirando!
Entrando nello specifico schermistico: ad esempio il maestro in prima battuta ti illustra e spiega il meccanismo dell’affondo, nel mentre con la sua staticità facilità la tua prima botta dritta ed anche quelle seguenti; poi, magari la lezione successiva, comincia a crearti le prime difficoltà nel senso di spostarsi in avanti e indietro e variare sempre la misura; in sostanza stimola la tua volontà a voler toccare anche in condizioni di difficoltà; ti aiuta a tirare fuori da te questa importante energia.
Un altro esempio: il maestro comincia a parlarti delle parate e ti favorisce nella loro esecuzione, tirando il suo colpo quasi al rallentatore; poi, piano piano, aumenta la sua velocità per spronare maggiormente i tempi della tua reazione difensiva; anche in questo caso stimola la tua volontà a cercare di parare la stoccata per non essere raggiunto dal suo colpo.
Pensando bene alla lezione in generale: dopo la prima fase di spiegazione di un colpo, tutto ciò che segue non è altro che un serrato tentativo di velocizzazione del gesto nel rispetto del canone; ma cosa sprona l’allievo a stare dietro all’insegnante e cercare di migliorarsi quasi volta per volta? La sua volontà di riuscire, di soddisfare le aspettative del maestro, da cui vuole sentirsi elogiato e gratificato.
Sotto questo aspetto la volontà rappresenta quasi un imperativo categorico di kantiana memoria, che costituisce l’asse portante dell’evoluzione interiore dello schermitore; ognuno deve riuscire, aiutato dal maestro, a tirare fuori il meglio di se stesso. A questo proposito si intuisce quindi l’importanza fondamentale della forza trainante esercitata dall’insegnante; forza da dover dosare e sicuramente da adattare alle capacità e ai limiti dei singoli allievi.
Un altro campo di applicazione della volontà può essere quello relativo alla preparazione atletica: notoriamente questo tipo di attività è solo propedeutico alla scherma vera e propria, per cui il rischio è di non applicarsi adeguatamente e comunque di sottovalutarla. In genere, a parte alcuni meccanismi ludici solo talvolta applicati, si tratta solitamente di sudare, sbuffare e soffrire. Il preparatore ha in questo caso il delicato compito di far capire all’atleta l’importanza di queste attività a latere; e come potrà controbilanciare i surricordati sudori, sbuffi e sofferenze? Con la sua forza di volontà.
Ma eccoci sulla pedana dove, finiti tutti questi discorsi in parte anche campati in aria, ci troviamo il nostro agguerrito avversario.
Ora sì che lo schermitore deve chiaramente volere con tutte le sue forze una cosa, la vittoria.
E come sa bene chi ha avuto la fortuna di calcare una pedana di scherma la cosa non è facile: in effetti ci vuole un’abbondante dose di volontà per arrivare alla vittoria; è molto simile al vincere una guerra dopo una lunga serie di battaglie; e cosa sono in effetti le stoccate se non singoli episodi che si dipanano e si avvicendano nel match?!
La volontà intorno alla quale si parla deve essere una dote ben pervicace e duratura per arrivare alla sospirata meta; anche perché talvolta il punteggio si può accavallare più volte come nei migliori gialli di Agatha Christie e, come sapete bene, tutto è sempre in predicato sino all’ultima stoccata.
A questo proposito mi tornano in mente le parole di un mio maestro quando, con nostro ovvio vivo disappunto, ci seguiva nell’assalto: Stefano do due stoccate di vantaggio al tuo avversario; grazie, maestro, ma perché? Così ti viene più voglia di vincere!
Poi, comunque, hanno proprio un bel dire vouloir c’est pouvoir: si sono mai chiesti se i due contendenti fanno contemporaneamente la stessa considerazione!
In chiusura non resta che un’ovvia constatazione: sulla pedana conta pur relativamente il fisico, conta ovviamente il tasso tecnico, conta la preparazione, mettiamoci anche un pizzico di fortuna, ma senza l’amalgama della volontà, della voglia di vincere, sicuramente si hanno minori chances.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2021
Scherma e touché
Con il probabilissimo rischio di passare da demodé questa volta parlo del touché, così faccio anche un po’ di rima!
Non è facile affrontare il tema visto i tempi che corrono, perché la Società civile (e non) contemporanea, sempre più veloce e pragmatica, non ha tempo per soffermarsi su particolari che non corrispondano a determinati standard massificati: la natura di super eroe del campione di turno, l’omologazione di modi più o meno urbani di esultare, interviste in cui chi si afferma dice di essersi sacrificato tanto; come se gli altri, i perdenti, non lo avessero fatto anche loro!
Lo sport ormai si è affermato come prodotto di mercato; il denaro, lo sterco del diavolo come lo definì il frate Martin Lutero, non scandalizza più, anzi: le grandi città del mondo si danno battaglia per il businness che rappresentano le Olimpiadi e in certe manifestazioni sportive si vincono premi in dollaroni da far impallidire anche Paperon de’ Paperoni!
Lo sport è sempre più spettacolarizzato e questo naturalmente non è un male in sé, anzi sul palcoscenico possono salire altre discipline che prima erano oscurate dagli sport nazionali dei vari stati. Quello che non si può evitare è che appunto lo spettacolo lo si debba pagare e in qualche caso anche profumatamente. E la tentazione di guardare gli altri gareggiare invece di farlo personalmente è sempre più forte. Le Società sportive diventano sempre di più setacci a maglie strette per trovare il campione e tutto ciò che questo comporta, ad esempio che continui a fare attività solo chi si chiama Hans, è biondo e ha gli occhi azzurri.
Comunque non preoccupatevi oltremodo, perché questa visione un po’ apocalittica dello sport è mia personale; e capisco benissimo che è dovuta alle mie numerose primavere e al tipo di mondo che ho vissuto da giovane. Per cui non mi sentirete mai dire …”sì, era meglio ai miei tempi”. Ognuno ha i suoi!
Questa premessa dalle tinte un po’ fosche non ve l’ho potuta risparmiare, perché altrimenti non potreste capire a fondo in cosa consista la filosofia (sì proprio una filosofia!) del touché.
Senza, naturalmente, alcuna offesa per i tifosi di calcio, prendo dal mondo del pallone qualche fléchés: la palla esce dal campo e contemporaneamente più giocatori delle due diverse squadre alzano la mano guardando il guardalinee che deve assegnare la rimessa; il gesto significa: la palla è nostra. Commento: ma va! Il terzino sfiora un attaccante con una piuma di struzzo e questi si accascia a terra come fosse stato colpito personalmente da Ercole con la sua clava; la rappresentazione scenica significa: voglio il calcio di rigore. Commento: ma va! …e con grande certezza si potrebbero fare tanti altri esempi in tanti altri sport.
Il touché rappresenta l’esatto contrario di questo atteggiamento truffaldino; è il rivolgersi all’arbitro per perorare la causa del proprio avversario! E’ il riconoscere, in quello spezzone di match, di avere torto.
La configurazione più classica è quella che può verificarsi nelle armi convenzionali: in presenza della segnalazione della stoccata da parte di entrambi gli schermitori spetta all’arbitro dirimere la questione dell’assegnazione del punto, esaminando l’accaduto alla luce della Convenzione schermistica. Ebbene, il touché consiste nel riconoscere il proprio torto tecnico e nel segnalare di conseguenza all’arbitro di dare la stoccata all’avversario.
Ma succede talvolta anche nella spada: con le pedane trasformate per necessità di carattere economico in stretti corridoi, quante stoccate pensate finiscano non sull’avversario ma direttamente per terra?! Parecchie; e non sempre l’arbitro è in grado di valutare esattamente dove è finito il colpo e, nel dubbio, non può annullare la stoccata. Ecco che un onesto touché, in questo caso trasformato ovviamente in touché oui – ma par terre, può ristabilire la verità; almeno nel novantacinque % dei casi chi tocca terra lo sa benissimo, perché o lo vede o lo percepisce tramite la sensibilità delle dita.
Raccontate queste situazioni così a parole può fare già un certo effetto, ma vi assicuro che viverlo, cioè sentire che è proprio il tuo avversario ad affermare un principio di realtà a tuo favore, è una sensazione interiore che, anche per me, è difficilmente traducibile in parole. Un gesto di questo tipo, lo garantisco per chi non lo ha vissuto direttamente, è un gesto che non si scorda; e naturalmente non scordi chi lo ha fatto e, chiunque esso sia, ti senti a lui legato da un nuovo e speciale rapporto.
Sì, forse un giorno il maestro me ne aveva parlato in sala, ma, come capita spesso da giovani, quando il maestro esula un po’ dall’affondo e dalla cavazione e parla di altre cose, non stai a sentire con la dovuta attenzione: “Accusa la stoccata, quando te la sei presa”!
Ebbene, quel giorno in cui il mio avversario mi beneficò di una stoccata per le vie brevi, cioè rinunciando all’interpretazione dell’arbitro, non solo mi fece guadagnare un punto, ma mi insegnò, tramite il suo esempio, cosa fosse il touché. Lanciò il seme della sua sportività ed io ho avuto il coraggio e la fortuna di raccoglierlo, tanto è vero che, ormai dopo tanti anni, oggi sono qui a narrarvelo.
Il touché non è e non potrebbe essere un obbligo, non sarebbe più appunto il touché.
Con sincerità devo ammettere che questo tipo di atteggiamento non si tiene solo e soltanto per amore della verità e quindi per rispetto dell’avversario; il touché è anche il frutto di una sottile battaglia con se stesso, una prova inconfutabile di essere riuscito a mitigare, almeno per un istante, il narcisismo del proprio Ego; quindi il touché significa anche di avere vinto l’assalto con il più temibile degli avversari, noi se stessi.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’aprile del 2019
Storia e dintorni
Indice
1 Scherma e 50 anni fa
2 Scherma e gli anni che passano
3 Scherma e sua evoluzione ambientale
4 Scherma e futuro
5 Scherma e le gare di una volta
6 Scherma e origini
7 Scherma e Zocca
Scherma e 50 anni fa
Cinquant’anni fa i dinosauri non c’erano già più, i velieri (tranne quelli delle navi scuola) ormai non solcavano più i mari e di computer c’erano solo quelli della famigerata Spectre nei film di 007; ma cinquant’anni fa nella scherma eravamo più vicini ai tre famosi moschettieri che alla dinamica realtà della Società civile.
Saranno state le sempre vittoriose forze conservatrici, saranno stati i pochi denari che circolavano nell’ambiente, sarà stata la patina aristocratica che ammantava ancora la nostra disciplina e che la rendeva demodé, fatto sta che vivevamo nella storia antica.
La mia generazione e quelle limitrofe, si sono trovate con un piede nel paleolitico e l’altro nel neolitico!
Ne volete le prove?! Allora continuate a leggere.
Innanzitutto a fare scherma eravamo tre gatti, pardon gattini; meno male che l’allora presidente della Federazione Scherma Renzo Nostini promosse il Gran Premio Giovanissimi per sollecitare la formazione delle giovani e, appunto, giovanissime nuove leve. In qualche regione d’Italia la scherma era così poco diffusa che spesso sul giornalino federale leggevamo che il vincitore di un Campionato era l’unico partecipante alla gara e ci chiedevamo se avesse dovuto almeno presentarsi in divisa oppure bastavano anche i pantaloncini corti che all’epoca furoreggiavano tra i bambini e persino tra i ragazzi.
Di scherma non parlava nessuno al di fuori della ristrettissima cerchia dei frequentanti e anche in occasione dei Giochi Olimpici gli schermitori sembravano dei marziani, anzi meglio, dei plutoniani.
Nelle sale di scherma vigeva una disciplina da caserma (oggi rimpianta e vagheggiata anche nelle scuole pubbliche) e c’era, ovviamente, ancora l’afflizione delle pene corporali; intendiamoci non si trattava di pene pubbliche tipo college inglese, ma persistevano, accompagnate da sorrisi e dosi di sarcasmo da cavallo, sotto forma di sciabolatine e fiorettatine alle gambe (notoriamente la sezione triangolare delle spade, che impedisce una buona fluttuazione, le esentava dal divenire strumenti di punizione).
L’attrezzatura era quasi degna di un capitano di ventura e non dei più affermati: divisa in purissimo cotone, maschera in purissimo ferro e poi in purissima ruggine, scarpe rigorosamente da tennis (!) e guanto quasi da sera, tipo signora alla Scala di Milano.
Il comportamento alle gare, genitori compresi, era alla Radetsky, non compianto governatore del Lombardo-Veneto: il verdetto del presidente di giuria (ne riparleremo) andava subito in giudicato e non era ammesso nemmeno il mugugno, notoriamente permesso ai marinai; il giurato (parleremo anche di lui) era appunto “giurato” e quindi niente da poter dire; infine il direttore di torneo era un’identità astratta di cui qualcuno sospettava anche l’inesistenza.
La materialità delle stoccate (chi tocca e chi non tocca o tocca qui e non là) era uno dei maggiori problemi esistenziali. La spada, che per la relativa semplicità del circuito, godeva della cosiddetta elettrificazione dagli anni 30 era la specialità più tranquilla: se si accendeva la luce avevi toccato, altrimenti no. Il fioretto era da pochissimo elettrificato e aveva ancora le sue problematiche; mentre la sciabola avrebbe visto la “luce” solo negli anni 90.
E allora come si giudicavano le stoccate? Semplicissimo: ai bordi della pista c’erano quattro giurati che, a coppia, sorvegliavano ad occhio nudo i bersagli di uno dei due schermitori e c’era il presidente di giuria che soprassedeva al tutto. Quando quest’ultimo dava l’alt e ricostruiva l’azione, i giurati avevano varie possibilità di esprimersi: tocca, non tocca, tocca ma in bersaglio non valido, mi astengo o mi astengo sul bersaglio (= non ho visto o capito nulla!). Il presidente aveva l’appannaggio di un punto e mezzo, mentre i giurati valevano solo un punto; conclusione: parecchie volte le stoccate andavano e venivano come un terno al Lotto! E questo toccava non solo agli sciabolatori, ma anche alle categorie giovanili sino alla categoria dei giovanissimi, perché solo dagli allievi in poi si poteva/doveva tirare con l’attrezzatura elettrificata.
La parità dei generi, non dico il femminismo, era bandita dalla nostra disciplina: le donne potevano tirare solo nella specialità del fioretto in quanto il marcato tasso di mascolinità ravvisato nella sciabola e nella spada preoccupava i cultori della donna rinascimentale …”tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia…”.
Ovviamente ho colorato con tinte forti il racconto dei particolari sopra ricordati, ma non crediate poi che abbia troppo esagerato.
Poi, come ogni buona rivoluzione che si rispetti, anche nella scherma siamo andati progressivamente talvolta oltre il segno.
I gatti non sono più tre, neanche quarantaquattro, ma centinaia e centinaia, qualche volta anche migliaia. E questo, ovviamente, è un bene e un merito di chi ha condotto la nostra Federazione. Le gare, essendo sempre più imponenti, sono diventate sempre più costose (per la durata, per gli arbitri impegnati, per l’ampiezza del luogo); giocoforza è stato necessario col tempo chiedere un ticket, mentre prima le gare erano gratuite …e ti davano spesso anche un pur modesto premio di partecipazione. Prima i trofei si contavano col contagocce, ora, rappresentando un modo per le Società organizzatrici di fare un’utile cresta alle spese, sono diventate più numerose dei funghi nel periodo di buona crescita.
Ai nostri giorni la scherma si vede spessissimo anche alla televisione e i nuovi mezzi di comunicazione assicurano una notevolissima pubblicità: ecco un altro fattore per capire la crescita esponenziale dei tesserati.
Nelle sale di scherma (meno male) non c’è più il rigore di prima e, fatto importante, si utilizza moltissimo il divertimento come metodologia di allenamento (eppure – sigh! per quando ero giovane io, già i nostri saggi antenati romani dicevano: “ludendo educere”).
L’attrezzatura è diventata, confronto a prima, spaziale! Doverosamente la Federazione Internazionale ha messo al primo posto il fattore sicurezza, per cui divise tipo giubbotto antiproiettile, maschere con resistenza misurata in newton, corazzette – busti e similari, lame maraging che per la loro struttura molecolare si spaccano a troncone e non a scheggia. Scarpe da scherma davvero e soprattutto colori da tutte le parti, mentre prima il “solo bianco” imposto, faceva tanto corsia d’ospedale; persino le sacche delle armi hanno messo le ruote.
Il problema del comportamento alle gare è stato bypassato con vari accorgimenti: copiando il calcio ora ci sono i cartellini tricolori, mentre prima bastava un’occhiataccia del presidente di giuria; genitori, simpatizzanti e facinorosi , che prima salivano quasi in pedana e respiravano sul collo dell’arbitro, ora sono stati chiusi fuori del recinto di gara ma mi dicono che ancora qualcuno riesce a distinguersi per comportamento sportivo e cavalleresco; la classe arbitrale (di cui anch’io ho fatto parte tantissimi anni fa) è cresciuta sia in numero che in competenza (ora nelle competizioni più importanti ha a disposizione anche la moviola) e, tramite il telecomando, fa tutto da sé …giurati, cartellonisti e cronometristi sono annoverati ormai da tempo come perdenti posto.
Le donne, finalmente vere amazzoni, ora competono in tutte e tre le specialità e spesso i maschietti si guardano bene dall’incontrarle frequentemente sulle pedane.
Insomma cinquant’anni sono passati anche troppo velocemente; chissà cosa ci riserverà il futuro: forse pedane circolari e non più gli attuali lunghi corridoi – forse verrà eliminata la Convenzione nella sciabola, restituendo verità, come nella spada, alla precedenza temporale del colpo, abolendo le attuali laboriose ricostruzioni dell’azione al micron e al millisecondo; forse creeranno una “app” per verificare chi attacca per primo e correttamente nel fioretto; forse abbasseranno ulteriormente l’età per cominciare a competere; forse i maestri saranno sostituiti da androidi o si potrà fare una lezione virtuale dalla propria cameretta…chissà; solo il futuro lo sa!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2018
Per approfondire il tema vai nella rubrica LIBRI E AUDIOLIBRI DA SCARICARE al mio lavoro “La scherma ai miei tempi”
Scherma e gli anni che passano
Battisti cantava i versi di Mogol: “Ieri era oggi e oggi e già domani”; tutto vero, ma per fortuna te ne accorgi tardi, quando i più maligni dicono che non c’è più niente da fare.
Questo però non è vero, perché chi ha avuto fortuna nella vita può girarsi indietro e guardare: la gioia di ieri non può dare origine a vero dolore, perché altrimenti non avrebbe senso la felicità umana. E’ proprio vero il contrario: meglio ricordare e commuoversi che non aver nulla da ricordare.
Poi c’è la staffetta a cui purtroppo non tutti possono partecipare, quella di poter guardare figli e , sempre con crescente fortuna, quella dei nipoti. Se non è vita questa!
Poi ci sono le primavere, quel modo di contare gli anni tanto caro agli indiani d’America: ci sono gli anni in cui si inizia a fare scherma, quelli delle prime gare, poi arrivi alla tua massima potenza agonistica, poi, secondo me, ad un certo punto ritirarsi …il miglior esempio ce l’ha dato il campione di pugilato Muhammad Ali, al secolo Cassius Marcellus Clay jr.
Poi, a meno che tu non sia un atleta professionista e lo debba comunicare ufficialmente, ci sono le ultime volte.
L’ultima volta che prendi lezione: sudi assieme al maestro, ascolti le sue correzioni ed i consigli, le vostre lame ormai si conoscono a fondo e, anche se non parlano, dialogano lo stesso; e alla fine un “grazie, maestro”, che appare sempre riduttivo per quello che ti ha dato da quando ti ha messo in guardia.
L’ultima volta che vai in trasferta, magari all’estero: ma ti rendi conto di quanto devi essere sicuro di te, per prendere un aereo, varcare confini su confini, atterrare, cenare con piatti tipici locali e dormire, per poi l’indomani impugnare un’arma e scendere in pedana per competere con gli altri.
L’ultima volta che partecipi ad una gara: piccola o grande che sia e quante volte ti sei messo in discussione con te stesso; ricordi ancora nitidamente i primi campionati a cui hai partecipato da ragazzino?
L’ultima volta che hai fatto preparazione atletica e poi preschermistica, sudando e faticando per avere più energie di ogni tipo sulla pedana.
L’ultima volta che hai aperto l’armadietto in sala e hai fatto poi la doccia, cantando e ridendo con i tuoi amici, come spesso capita.
L’ultima volta che hai varcato la soglia della tua sala, dove hai trascorso le tue ore, i tuoi giorni, mesi ed anni.
Fortuna che molte volte non si è coscienti di queste “ultime volte”: volete degli esempi extraschermistici?
Eccovi serviti: ricordate l’ultima volta che siete stati presi in collo dai genitori? Oppure dell’ultima volta che avete usato le rotelline, per poi buttarle alle ortiche e andare in bici con due ruote? Di quando vi hanno portato al cinema o vi hanno comprato il gelato?
Poi ci sono sempre le buone, anzi buonissime intenzioni: “l’anno prossimo torno”, “vedrai che senza scherma non ci so stare”, “non smetto, mi prendo solo un po’ di vacanza”.
Comunque da qualche tempo c’è un goloso e tentacolare repechage: parlo dell’attività master, dove c’è la possibilità di bere alla fonte dell’eterna giovinezza.
Ho sempre sentito dire che la vita è un’enorme ruota che gira; ed è vero: da giovani siamo spesso ansiosi di divorare le tappe del tempo, perché vogliamo l’indipendenza, il nuovo e libertà di ogni tipo. A quell’età non abbiamo ancora montato lo specchietto retrovisore per la storia: abbiamo ancora il pieno e acceleriamo in avanti, spesso a tavoletta; la vita appare, e forse lo è, a senso unico.
La scherma, per molti schermitori, è solo una parentesi più o meno ampia; ovviamente più tracce lascia, quanto più intensa è stata la carriera agonistica.
Ma questo non è detto, perché l’ambiente dove si pratica, la sala, è forse unico al mondo: giovani e meno giovani, donne e uomini, campioni e meno campioni respirano tutti la medesima aria, spesso tutti ben mescolati tra di loro. La scherma è lo sport con la squadra più numerosa, appunto tutta una sala.
E non è detto anche perché il rapporto tra due amici che si incontrano combattendo sulla pedana è veramente permeante e non è facile da dimenticare.
E come si fa poi a non citare la relazione che il più delle volte si crea tra allievo e maestro: mettete in uno shaker rispetto, stima, affetto, spesso simpatia, riconoscenza e agitate bene.
Buon ultimo il fatto di avere coltivato una disciplina: insegnamenti profondi, norme comportamentali, atteggiamenti formali e una possibilità per tutti: abbracciare la filosofia del touché, che indubbiamente non fa parte dei costumi della maggior parte degli sportivi.
Quindi chi ha fatto scherma, probabilmente qualcosina in più delle altre attività sportive, ha da ricordare; e quando entrerà in funzione quel famoso specchietto della storia di cui parlavo poco sopra, avrà la possibilità, magari con un pizzico di nostalgia, di guardarci dentro e sorridere.
Comunque una grande consolazione ed una sicura certezza: chi è stato schermitore lo è per sempre!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma ed evoluzione ambientale
Panta rei, tutto scorre, dice un famoso filosofo presocratico ed vero: anche nel nostro mondo di armi bianche ci sono state delle vere e proprie rivoluzioni.
Ne sanno qualcosa gli egiziani con le loro armi di rame e bronzo quando nella battaglia di Kadesch vennero a contatto con quelle di ferro degli Ittiti; e qui stiamo parlando di materiali. Ne sanno qualcosa anche le pesantissime armature di ferro quando vennero buttate alle ortiche a causa della nascita delle armi da fuoco; e qui stiamo parlando di elementi collaterali al combattimento.
Ma forse ho preso il tema un po’ troppo da lontano: meglio partire dagli inizi degli anni sessanta, cioè da quando dell’evoluzione della scherma ne sono stato un diretto testimone; di tempo ne è passato abbastanza e quindi ciò ci consente di fare alcune, speriamo interessanti, considerazioni.
Dicevo che tutto scorre, ma il problema è che ora scorre anche un po’ troppo velocemente non solo nel nostro spaccato sportivo, ma prepotentemente in tutti gli anfratti della società, utilizzando soprattutto lo sviluppo tecnologico e il business economico che comporta.
Il nostro mondo, quello della scherma, è stato per un lungo periodo anche troppo conservatore sia in modo diretto che indotto.
Innanzitutto la monarchia assoluta che ogni maestro di scherma aveva instaurato nella sua sala era inattaccabile e la sua autorità non poteva esser messa in discussione da nessuno su nulla. Quando all’orizzonte è apparso il preparatore atletico si è dovuto attaccare la sua roccaforte con stile breccia di Porta Pia.
Le donne potevano tirare di fioretto, ma non di sciabola e di spada, trattamento puramente e assurdamente discriminatorio, connesso solo a qualche carenza mentale dei benpensanti dell’epoca: in effetti cosa vietasse alle donne di cimentarsi in tutte e tre le specialità rimarrà per sempre un arcano.
Il materiale schermistico ha impiegato anni per evolversi: da giovane tiravo ancora con le divise di cotone e le lame, soprattutto quelle a sezione triangolare delle spade, erano veramente rigide. Probabilmente il fatto di rappresentare un’esigua fetta di mercato ha procurato pochi stimoli agli inventori seguiti poi dagli imprenditori: infatti la spada fu elettrificata nei primi anni trenta, ci vollero altri venti anni per arrivare al fioretto e ulteriori trenta per la sciabola.
La classe arbitrale per lunghissimi anni non è stata all’altezza né quantitativa, né soprattutto qualitativa rispetto alle crescenti esigenze agonistiche: si ricorreva spesso agli stessi tiratori in attività senza che ci fosse a garanzia il superamento di un qualche esame; da giovane l’ho fatto per anni e di ufficiale avevo solo lo stemma del G.S.A. Gli introiti pubblicitari, comunque già difficili di per sé da reperire, erano mal visti e rigettati con falsa morale vittoriana, come se già non esistessero forme di professionismo a testimoniare che anche il mondo della scherma, molti altri sport ormai lo facevano da decenni, non fosse entrato nel sistema gravitazionale del denaro.
Le gare erano organizzate solo dalle istituzioni schermistiche e raramente da altri comitati, che comunque dovevano essere alquanto facoltosi; di conseguenza le competizioni si misuravano veramente con il contagocce.
Ora però mi devo fermare, perché non vorrei apparirvi più rivoluzionario di quel che in effetti sia e soprattutto non vorrei essere accusato di superficialità di analisi storica.
Oggi il nostro mondo schermistico è perfettamente allineato con la Società contemporanea e questo è un bene, anche se, come si suol dire, non è tutto oro quello che luccica. Comunque, per ricalcare i precedenti concetti: oggi nelle sale c’è una buona diarchia di stile spartano a cui è affidata la preparazione tecnica e quella atletica in senso ampio; le nostre amiche schermitrici possono sbizzarrirsi nella scelta delle armi; il materiale schermistico è da fantascienza: unità di misura di sicurezza affidata ai newton, segnali via cavo, telecomandi e moviola; arbitri a livello professionale e di conseguenza giustamente ben remunerati; marchi pubblicitari da tutte le parti e su ogni cosa sullo stile di pecunia non olet di vespasiana memoria; di gare ce n’è poi così tante che si possono anche scegliere alla maniera delle proposte delle agenzie di viaggio.
E questo è sicuramente meglio di tanti anni fa: prova ne sia la crescita esponenziale del numero degli schermitori presenti oggi sulle pedane. La nostra Federazione indubbiamente ha svolto un ottimo lavoro.
Cosa ci riserverà il futuro ovviamente nessuno lo sa: forse una pedana circolare, visto che dei cavi oggi si può fare a meno – forse un arbitro cibernetico che si avvale di tante telecamere puntate sui duellanti – forse una sostanziale rivisitazione dei contenuti della Convenzione schermistica preposta al metodo di assegnazione delle stoccate.
Nessuno lo sa; ma neanche con tutti gli stravolgimenti mutuati dalla galoppante tecnologia del futuro o addirittura dalla fantascienza si potrà mutare mai la natura delle cose: due entità pensanti, che, ricorrendo a tutte le proprie risorse, cercano di superarsi l’un con l’altro nel rispetto dell’antica legge dei cavalieri.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2019
Scherma e futuro
Parlare di futuro è sempre una bella scommessa, a meno che non ci si chiami Michel de Nostredame, ai più noto come Nostradamus, oppure, nella versione negazionista, Cassandra.
In effetti il tentativo di predire ciò che accadrà è una grande tentazione in quanto l’uomo si è reso conto che l’oggi non è uguale a ieri e quindi con buona probabilità cambierà anche il domani. A questo proposito la Storia, come dicevano già i Romani, dovrebbe insegnarci qualcosa, ma c’è invece chi invita solo al carpe diem in quanto come dirà in seguito anche nei suoi versi Lorenzo il Magnifico qui a Firenze che del doman non c’è certezza; poi le cose si complicano anche filosoficamente perché Giambattista Vico parla di corso e ricorso storico, per non parlare poi di Albert Einstein per il quale il tempo è addirittura relativo.
Premesso tutto questo, grazie al coraggio che ho imparato a costruirmi sulla pedana assalto dopo assalto, mi do alle predizioni schermistiche: in effetti ne ho viste parecchie di rivoluzioni e cambiamenti nei miei ormai quasi sessant’anni di frequentazione di sala: la sciabola e la spada concessa finalmente anche alle nostre compagne di sala; l’elettrificazione (se così si può dire) della sciabola; il presidente di giuria che, solingo, diventa arbitro; persino, importata dal calcio, la moviola ai bordi della pedana; per non parlare delle rotelle innestate sulle sacche da scherma, dei colori permessi nell’equipaggiamento al posto del monotono bianco e nero e del professionismo degli schermitori, anche se, sappiatelo, in Italia giuridicamente gli sportivi professionisti sono “solo”: i calciatori, i golfisti, i ciclisti, i motociclisti, i pugilatori e chi gioca a pallacanestro (non credo si possa dire pallacanestratori o pallacanestristi!).
Scrutiamo quindi la fantomatica palla di vetro, che ci esenta quindi dall’osservare il volo degli uccelli come facevano gli auguri oppure, cosa senz’altro peggiore, dal visionare le interiora di qualche povero animale fatto a pezzi.
Vedo, vedo, …vedo purtroppo il progressivo affermarsi di interessi sempre meno sportivi intesi nel senso classico e invece sempre più in quello di business, cioè di carattere squisitamente commerciale.
Dite che sono pessimista?! E allora cosa pensate del fatto che a turno una specialità della scherma sia esclusa dai Giochi Olimpici? Tutti gli sport sono belli; hanno ammesso l’arrampicata sportiva, lo skateboard; benissimo, allungate di un giorno il programma, ma non limitate la partecipazione di alcuno a favore di altri perché la cosa non è comprensibile. Ma forse invece è comprensibilissima: basta non pensare più come uno sportivo, ma come un commerciante. Lo sapete tutti, l’organizzazione dei Giochi Olimpici è un colossale affare che, tra l’altro, spesso finisce invece misteriosamente in un colossale buco economico. Speriamo solo che non defalchino altre specialità della scherma, visto soprattutto che il nostro è per l’Italia lo sport più medagliato di sempre.
Vedo, vedo, …vedo che qualcuno cercherà di semplificare lo spettacolo- scherma, a detrimento di qualche sua intima essenza. Prendiamola un po’ alla larga.
Indubbiamente è molto importante, direi fondamentale, coinvolgere anche il pubblico non di parte, quindi al netto di genitori, fratelli e sorelle, cugini o lontani parenti e grandi amici.
Indubbiamente in questi ultimi decenni con grande intelligenza, pragmaticità e professionalità si è intervenuti molto bene sulla ripresa televisiva, che è e resterà sempre il maggior veicolo di divulgazione della nostra disciplina, non potendoci avvalere per ovvi motivi di stadi o palazzetti troppo faraonici.
Dopo anni di tentativi e prove, finalmente sono state individuate le migliori condizioni di luce, prospettiva e ottica per poter essere in grado di vivere da vicino le vicissitudini di pedana; il rallentamento delle immagini dopo ogni stoccata addirittura ha messo in condizione di gustare ciò che la stessa percezione visiva talvolta ci vietava.
Tutto bene, anzi benissimo; tuttavia resta un grossissimo ostacolo per la volgarizzazione spettacolare della scherma: parlo della comprensione della eventuale ricostruzione convenzionale ai fini dell’attribuzione della stoccata allorché ci siano più lucine accese.
Come sappiamo, per la spada tutto è comprensibilissimo da parte di tutti gli spettatori, almeno per la stragrande maggioranza dei colpi poi assegnati: si accende il segnale di chi ha toccato e se si accendono entrambi i segnali il colpo vale per entrambi.
Prendiamo al balzo quest’occasione per una rivisitazione storica: anni addietro la segnalazione luminosa non indicava chi aveva centrato il bersaglio, bensì colui che era stato raggiunto dalla stoccata. Proprio per andare incontro al pubblico meno competente fu deciso di invertire il senso della segnalazione, attuando per il nostro mondo una rivoluzione culturale sicuramente non inferiore a quella di Copernico nell’astronomia.
La spada quindi risulta seguibilissima da chiunque in quanto le regole sono elementari, ovvero vince chi tocca per primo in una qualsiasi parte del corpo dell’avversario, doppia luce stoccata ad entrambi: anche se non si capisce l’azione, basta la luce a far esultare se di caso per il personale beniamino. In effetti, se pensiamo al calcio, non è necessario essere esperti di tattica o di schemi tipo 1-3-2-4 o con altre cifre: quando la palla entra nella rete avversaria, si urla vittoriosi.
Per il fioretto e soprattutto per la sciabola, come abbiamo accennato poco sopra, tutto diventa più difficile perché se non conosci le regole del fraseggio tra le lame non sei in grado di capire e soprattutto di apprezzare nulla. Aggiungerei inoltre la considerazione che anche per gli addetti ai lavori, maestri e schermitori in genere, la velocità con cui vengono oggi realizzate le azioni è tale da rendere frequentemente abbastanza difficile la piena comprensione di ciò che avviene realmente sulla pedana: parlo soprattutto dei frequentissimi attacchi comuni effettuati nella sciabola e degli altrettanto frequentissimi corpo a corpo nel fioretto. I poco esperti non riescono nemmeno a capire perché nella sciabola non viene mai segnalato il bersaglio valido come invece nel fioretto.
Intelligentemente, ormai da tantissimi anni, l’arbitro è dotato di microfono e parallelamente deve anche mimare con le sue braccia per far conoscere a tutti le sue valutazioni e decisioni. Ma le spiegazioni sono utili solo per chi sa di tecnica schermistica, per gli altri, gesti e parole, non hanno alcun significato.
Cosa fare quindi per volgarizzare il fioretto e la sciabola come la fortunata spada?
Vedo, vedo, …vedo: ahimè, vedo l’abolizione della Convenzione schermistica, vedo il fattore determinante della precedenza temporale del colpo come nella spada con annesso colpo doppio, vedo la segnalazione del bersaglio non valido anche nella sciabola (non ditemi come, perché intanto la tecnologia avrà trovato senz’altro l’escamotage indispensabile).
Circa il primo punto: non più precedenza all’attacco, soprattutto non più precedenza a chi fa finta di attaccare e poi invece maliziosamente prosegue e pretende di aver ragione; di conseguenza non più alti lai di entrambi gli schermitori che credono che il volume dei propri decibel influenzi a proprio favore l’arbitro; non più meticolosa osservazione dei movimenti delle gambe e degli atteggiamenti del braccio armato quasi impossibili da percepire senza l’ausilio dell’immagine rallentata nei numerosi sospetti attacchi simultanei che ormai ci regala ogni match; non più intrighi tecnici, ad esempio un colpo tirato al fianco che, se incontra la lama avversaria, viene poi spacciato per azione sul ferro; non più dubbi, soprattutto nella specialità della sciabola, tra parate ben eseguite e mal-paré e quant’altro.
Circa il secondo punto, quello della precedenza temporale del colpo: se cade la Convenzione, resta in effetti questo il solo principio che possa regolamentare il match. Il metodo, quello del fluire del tempo, è oggettivo al massimo e con principio di realtà impedisce la registrazione del colpo a colui che è in ritardo rispetto alla differenza temporale tollerata. Il pubblico, anche se non è in grado di capire ed apprezzare il fraseggio che ha portato al colpo finale, vede l’accensione della luce e può comunque esultare se a toccare è stato il suo beniamino.
Circa il terzo punto, ovvero la segnalazione del bersaglio non valido anche nella sciabola: questa opzione diventa assolutamente necessaria al fine di cercare di differenziare quanto più è possibile le specialità residue della scherma.
Orribile il sacrificio sull’ara dell’incolpevole fioretto; del resto anche lui sa di essere un’estrapolazione didattica della scienza schermistica in quanto la storia, quella vera, parla solo di spade e sciabole, pur in forme e fogge alquanto diverse nel tempo e talvolta addirittura di natura mista.
Vedo, vedo, …vedo quindi un ritorno al passato: due ferri che cercano di offendere l’avversario nei due soli modi possibili, cioè di punta o di taglio; l’unica regola reale del chi tocca per primo in modo da non essere toccato oppure del toccare contemporaneamente.
Vedo l’esigenza di cercare di differenziare dall’ottica sportiva due specialità: -una denominata spada, che tocca solo di punta, con bersaglio tutto il corpo compreso il materiale dell’equipaggiamento, con l’unica regola di toccare con precedenza temporale; l’altra, denominata sciabola, che tocca sia di punta che di taglio, con il bersaglio valido (che dà punteggio) sopra la cintura (braccia e testa comprese) e bersaglio non valido (che non dà punteggio) le altre parti del corpo, con l’unica regola del toccare con anticipo identica a quella della spada.
Ovviamente tutta la rimanente parte del Regolamento internazionale resterebbe in vigore in armonia con le nuove impostazioni di combattimento.
E siccome, per certi versi siamo nella fantascherma, aggiungo anche che le pedane non saranno più dei lunghi rettangoli, ma dei cerchi di combattimento di un determinato diametro. In effetti l’attuale corridoio schermistico serve solo a facilitare il compito all’arbitro e, nei tempi antichi, ai suoi assessori.
Del resto la tecnologia ha già permesso oggi agli schermitori di non essere più ancorati al filo del rullo e una o più telecamere già riprendono il match; l’arbitro quindi non sarà più costretto a seguire de visu le fasi schermistiche, potendosi avvalere in modo continuativo dell’immagine rallentata al fine di una più agevole e oggettiva conduzione dell’assalto. Prima o poi verrà anche l’era del robot-arbitro, che non avendo notoriamente alcuna madre, almeno non sarà più oggetto di offese in tal senso.
E tutto questo, amici miei, sono riuscito a prevederlo, con buon margine di probabilità, anche senza pronunciare la famosa frase della mistica antica abracadabra.
Se avete dubbi su queste miei visioni, non dovete fare altro che montare sulla famosa macchina del tempo di Herbert George Wells, portare in avanti il cursore del tempo e verificare; prima però vi consiglierei di essere sicuri di poter tornare indietro nel tempo, soprattutto se siete fiorettisti!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e le gare di una volta
Alcuni decenni addietro il numero dei partecipanti alle gare era enormemente più basso di quello attuale, per cui, connesse a questo fattore, molte cose erano diverse .
Innanzitutto diverso era, di solito, il luogo delle gare: spesso esse erano svolte negli stessi Circoli di scherma, ovviamente in quelli più grandi e dotati di un certo numero di pedane; solo per i Campionati Nazionali ed i trofei più famosi si optava per i palazzetti dello sport, nemmeno tra quelli di maggiori dimensioni.
Diverso era il numero di gare esistenti in calendario: pochissime per tutti, super poche sino alla categoria allievi (fino a 13 anni), in pratica solo Campionati Regionali e dal 1963 Gran Premio Giovanissimi con i Campionati Nazionali. Niente circuiti internazionali di Coppa del Mondo, solo qualche storico Trofeo in Italia come lo Spreafico di spada a Milano, la Coppa Giovannini di fioretto a Bologna, il trofeo Luxardo di sciabola a Padova; Il Martini di fioretto a Londra e il Monal di spada a Parigi. Niente Americhe, per non parlare delle altre parti del mondo e oltrecortina non si poteva andare.
Diversa era l’organizzazione: partecipavi alle gare e non pagavi niente, avete capito bene, niente (!); non solo, a qualche gara, di solito i Nazionali, ti davano anche una medaglia di partecipazione e una busta della Pro-loco con qualche cartolina e depliants vari.
Ovviamente diversa era la classe arbitrale: pochi presidenti di giuria (non arbitri, ma presidenti di giuria perché, quando non c’era la macchina segnalatrice delle stoccate, c’erano i giurati da coordinare: tocca, non tocca …), dicevo, pochi e o molto anziani o molto giovani, tra cui c’ero anche io. Pagati abbastanza bene, ma senza giacca ufficiale e nemmeno stemma GSA.
Diversa, soprattutto, era la formula di gara: eravamo spesso i tre soliti gatti e quindi per far durare la competizione per un apprezzabile tempo gli schermitori venivano suddivisi in gironi, ovvero in gruppi in genere di cinque o sei tiratori che si dovevano incontrare tutti tra di loro (come oggi si fa solo al primo turno). Alla fine si stilava una classifica in base prima alle vittorie e poi a certi parametri legati alle stoccate: in certi anni ci si basava sulla differenza tra stoccate date e stoccate ricevute, mentre in altri ad un complicato sistema di aliquote ovvero di rapporti tra numeri fissi.
In base a questi giochetti algebrici alcuni partecipanti erano eliminati dal torneo, altri invece proseguivano, sempre progressivamente intruppati in gironcini qualche anno di otto, qualche anno di sei e qualche anno di quattro tiratori.
Tutto ciò alla ricerca della soluzione tra una delle afflizioni dell’epoca: i passaggi di vittoria. Elementare Watson: tu hai un certo numero di vittorie e sei già passato, se ora mi fai vincere, io ti stacco una bella cambiale schermistica, che puoi riscuotere o direttamente nella stessa gara oppure in una gara futura. Dicevano che qualcuno staccasse anche degli assegni a bordo pedana: bello, sportivo e utile a qualcuno!
Le finali, le agognate finali, inizialmente erano ad otto ed erano eterne in quanto contemplavano ben 28 incontri: tediavano il pubblico, affaticavano i due arbitri che pur si alternavano e sfiancavano fisicamente e mentalmente gli atleti; poi qualcuno ebbe la bella pensata di trasportare in finale le vittorie e le sconfitte che i semifinalisti avevano conseguito tra loro, diminuendo sì del 50% gli assalti, che quindi scendevano a 14, ma declassando in pratica il concetto di finale.
Oggi, finalmente, dopo il primo turno, c’è l’eliminazione diretta: tutto è più veloce con la falcidie del 50% a colpo e tutto è ovviamente più onesto.
Perdonatemi, lo stavo quasi per dimenticare, ci fu anche il periodo dell’eliminazione diretta con ripescaggio, forse la più umana tra le tutte. In pratica dopo il primo turno all’italiana, partiva l’eliminazione diretta, solo che questa non andava avanti sino alla fine come viene fatto oggi, ma si divideva in due canali: il primo, percorso da coloro che vincevano sempre, classificava due elementi; il secondo, percorso mano a mano da tutti i perdenti per una volta, ne classificava altri due. Meno assalti per il primo canale, molti di più, ovviamente e giustamente, per il secondo. Infine finale a quattro con gironcino all’italiana. In tal modo si sfoltivano i partecipanti, ma si garantiva ugualmente un dimensionato spettacolo finale.
Altre dimenticanze in ordine sparso: – a certe gare veniva anche assegnato il premio “stile”, che come dice lo stesso nome se lo portava a casa chi stava meglio in guardia, faceva l’affondo più corretto e parava e rispondeva più pulito; una bella idea per ricordare tra l’altro che l’estetica nella scherma ha la sua importanza – spesso le gare con più concorrenti erano disputate in due luoghi diversi: ricordo personalmente di essere stato scarrozzato in su e giù in pulman tra due locations – alle gare nazionali non mettevano il nastro dell’inno di Mameli come invece fanno ora (ed è cosa bella e giusta); ma quando vinsi La Coppa città di Genova l’inno fu suonato dal vivo da una banda militare e quando vincemmo da militari il Trofeo Principe di Lussemburgo ci misero addirittura un disco, ma era graffiato e ad ogni giro alle belle note si alternava un buffo “tac”.
Palazzetto che vai, formula che trovi: lo schermitore, per sua natura, è comunque costretto sempre a vincere. M° Stefano Gardenti
a Firenze nel maggio 2019
Scherma e Origini
Come ben sappiamo noi schermitori non possiamo andar molto fieri delle origini della nostra disciplina.
Da noi nessuno si è inventato un gioco con una magica sfera, piccola o grande che sia; nessuno ha detto “vediamo chi è il più veloce” o chi “salta più in alto o in lungo” o ha pensato a mille altre sfide di ogni genere.
Noi abbiamo fatto un’operazione molto più semplice e in fin dei conti molto più virtuosa: abbiamo messo un pallino in cima alla spada e abbiamo cominciato a darcele di santa ragione, perché nessuno voleva arrecar alcun danno.
Da antichissimi tempi le armi bianche hanno mietuto innumerevoli vittime sui campi di battaglia e, per ultimo, nei duelli dove l’onore veniva difeso almeno sino al primo sangue, se non peggio.
Vedere l’evoluzione di queste armi nel tempo è molto interessante e rappresenta in parallelo un preciso indice dell’aggressività e della prevaricazione umana: ci ricordiamo delle armi di ferro degli Ittiti che annichilirono quelle di bronzo degli Egiziani, della scanalatura presente nel corto gladio romano che permetteva di colpire ed estrarre l’arma dal corpo velocemente, delle armi da taglio che nacquero in Asia per poter colpire andando a cavallo.
Per fortuna in nostro soccorso è venuto un particolare modo di utilizzare queste armi, quello dei cavalieri, a cominciare da quelli della celebre tavola rotonda di Re Artù e da quelli francesi: le spade continuavano a mozzare e ad infilzare, ma almeno qualcuno le utilizzava per far vincere il bene contro il male (concetto comunque sempre molto relativo) e soprattutto per difendere contro il prepotente il debole (che da solo non ce la faceva proprio). A questo proposito per render chiara la questione, è sufficiente ricordare la spiegazione che Obi-Wan Kenobi da a Luke Skywalker del perché Darth Fener da cavaliere jedi si era trasformato nel braccio destro dell’imperatore cattivo: lui si era fatto corrompere dal lato oscuro della forza, ovvero non metteva la forza delle propria arma al servizio degli altri, ma la utilizzava per se stesso e pochi altri.
Ed eccoci quindi a noi, cavalieri ormai del terzo millennio: “giochiamo” a fare la scherma, della quale interpretiamo lo spirito cavalleresco (leggasi oggi “sportivo”).
Ci tiriamo puntate (ora anche di fuetto) e traversoni, tenuti comunque a freno da un rigido Regolamento di scontro.
Pensandoci, c’è andata proprio bene: più o meno un secolo fa, volendo per forza tirare di scherma, i giochi potevano essere molto più pesanti; niente “bersagli non validi” o moviole a cui appellarsi come ai tempi odierni! Comunque, a dire il vero, ci mancano un po’gli assalti sulle scale o sopra i tavoli!
M° Stefano Gardenti
Firenze 4 aprile 2018
Scherma e Zocca
Oggi, per fortuna di bambini e ragazzini, è tutto un pullulare di raduni, allenamenti e ritrovi estivi di scherma. E questo non solo nella nostra disciplina, ma in tantissime, forse tutte, le altre attività.
La formula sembra essere perfetta per gli schermitori: sono in vacanza e mi voglio divertire con fioretti, spade e sciabole che tanto mi piacciono – vado in montagna o al mare come preferisco – ci trovo qualche compagno di Sala o meglio ancora dei nuovi amici da conoscere fuori e sulla pedana – approfitto per allenarmi più intensamente – sperimento la vita di gruppo: si mangia, si dorme, si passa il tempo libero sempre insieme agli altri – il più delle volte posso anche scegliere tra altri sport da poter conoscere ed imparare a praticare.
La formula piace anche ai genitori: i rampolli fanno esperienze nuove, spingono sull’acceleratore delle proprie capacità agonistiche, imparano a gestirsi fuori dell’ala protettiva della famiglia – non ultimo, padri e madri utilizzano questa opportunità come parcheggio dorato per i propri pargoli.
Contenti sono anche i professionisti, maestri – istruttori o quant’altro: trovano lavoro anche nel periodo di chiusura estiva delle sale.
Insomma una perfetta formula della felicità.
Ma allora perché non ci hanno pensato prima?! Diciamo agli inizi degli anni ’60, quando io ero poco più che un ragazzetto. Forse perché ancora non c’era quella diffusa disponibilità economica e, ancor prima mentale, che oggi invece, per buona sorte, c’è.
Eppure ho avuto anch’io la mia dose di fortuna: nel 1966 vinsi il mio primo titolo italiano di sciabola allievi e tra la coppa, la medaglia d’oro e altri doni cosa trovo? Un buono per la frequentazione gratuita di un corso di scherma di 15 giorni a Zocca.
Io e mia madre prendiamo l’atlante e cerchiamo questo paesino, in provincia di Modena recita la lettera; ancora non ci era nato Vasco Rossi e la località era veramente sconosciuta ai più.
Il ritrovo è a Bologna, dove mi accompagna mio nonno Gino; non conosco nessuno, ma durante il viaggio di trasferimento in pullman verso Zocca abbiamo già fatto conoscenza e ci chiamiamo già per nome quasi tutti.
Eppure tutte le varie forme di ritrovo estivo di oggigiorno non sono altro che le lontane eredi di quell’idea che tanti anni fa balenò nella mente del maestro Umberto Lancia di Bologna; grazie, maestro.
L’organizzazione era perfetta, almeno a quanto può apparire ad un quindicenne.
La colazione e i pasti venivano consumati presso il ristorante di un albergo del paese, mentre pernottavamo presso una scuola, dove nelle aule avevano tolto i banchi degli studenti per sostituirli con tante brande, un vero spasso.
C’era anche un servizio di lavanderia, ecco perché mia madre, come le altre mamme, aveva cucito un codice su ogni capo di vestiario, il mio era 353; vedete, lo ricordo ancora!
L’attività era molto intensa: la mattina tutti al campo sportivo per la preparazione atletica, che all’epoca veniva chiamata come nelle scuole educazione fisica. Poi metà di noi andava in sala di scherma per le lezioni e gli assalti, mentre l’altra metà andava in piscina per il corso di nuoto oppure sul campo da tennis per impugnare la racchetta; questi erano i due sport complementari da poter opzionare ad inizio corso.
Ricordo che mia madre, quasi d’ufficio, mi iscrisse a quello di nuoto: così imparerai a stare in acqua, mi disse. Però dopo alcuni giorni preferii la terra rossa e le palline: siete mai entrati in acqua la mattina alle 10 ad un’altitudine di circa settecento metri?!
La sera, come in caserma, c’era la libera uscita e quindi potevamo fare quello che volevamo: in pratica scegliere in quale tra i due bar del paese andare a giocare a flipper o a un curioso gioco fatto da spruzzi di acqua che dovevano spingere una pallina in gol.
I giorni passavano spediti, segno che ci trovavamo bene: si faceva sempre più amicizia tra di noi, utilizzando le lame delle nostre armi come collante sociale. Unico neo era che le schermitrici non erano con noi a Zocca, ma in un altro paesino abbastanza lontano, Serramazzoni, e quindi non potevamo allenarci a fare i Don Giovanni; d’altra parte ancora nelle chiese gli uomini stavano da una parte e le donne rigorosamente dall’altra.
Fu il primo distacco dalla mia famiglia e quindi, pur controllato di giorno e di notte, mi responsabilizzò non poco: dovevo comportarmi bene, capire e adattarmi ad un ambiente nuovo con regole ed orari, rapportarmi con rispetto ai sostituti – genitori, essere pronto a risolvere i problemi che fossero insorti (vedi il cambiamento da nuoto a tennis) e gestire la paghetta che i miei genitori mi avevano dato. Oggi i ragazzi, se non anche i bambini, sono molto più evoluti di quello che potevamo essere noi e, ripeto, l’esperienza mi fece crescere un po’.
Alla fine, come tutte le belle cose (ma fortunosamente anche per le brutte!), arrivò il giorno del rientro: sul pullman questa volta non si cantava, ma era tutto uno scambiarsi indirizzi e numeri telefonici, perché non volevamo dimenticarci. Purtroppo per alcuni fu così, ma invece con tanti altri ci incontrammo alle gare nazionali e verificammo che ormai eravamo diventati fratelli di scherma.
Ho già iniziato a dimenticare qualcosa della scherma, ma sono sicuro di una cosa: il periodo passato a Zocca sarà tra gli ultimi a svanire.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre del 2019
Miscellanea
Indice
1 Scherma e arte – o – scienza
2 Scherma e arte militare
3 Scherma e assalto accademico
4 Scherma e avversario
5 Scherma e consigli
6 Scherma e deontologia magistrale
7 Scherma e dieta
8 Scherma e estetica
9 Scherma e fascino
10 Scherma e genitori
11 Scherma e immagini
12 Scherma e insegnamento
13 Scherma e linguaggio
14 Scherma e maestro
15 Scherma e movimento schermistico
16 Scherma e palazzetti
17 Scherma e pedana
18 Scherma e premi
19 Scherma e professionismo
20 Scherma e ranking
21 Scherma e ringraziamenti
22 Scherma e sala di scherma
23 Scherma e scacchi
24 Scherma e schermitore
25 Scherma e sito passionescherma.it
26 Scherma e suoni
27 Scherma e trasferte
28 Scherma e universo scherma
Scherma e Arte-o-Scienza
Nelle sale ho sempre sentito dibattere un tema: la Scherma è Arte o Scienza?
Come noto, l’ambiente schermistico è sempre stato in generale divisivo e di ciò non dobbiamo certo farcene un cruccio: solo il divergere di opinioni, sensibilità e credenze costituisce il vero sale dell’evoluzione, mentre tutto l’altro è roba da mummie culturali stagnanti.
Il nostro è, ovviamente, un mondo in cui trionfa l’individualismo: quello degli schermitori (uno diverso dall’altro), quello dei maestri (tutti aspirano giustamente al titolo pur non ufficiale di caposcuola) ed anche, sia consentito, anche quello degli arbitri di specialità convenzionali (ognuno vede e cataloga un’uscita in tempo a modo suo!).
Il tema accennato risulta invece di ampio respiro, roba quasi da filosofia della scherma!
Proviamoci un po’.
Una cosa appare assolutamente indiscutibile: la tecnica schermistica pullula di riferimenti, anzi di vere e proprie applicazioni, sia di Geometria che di Fisica.
Dal primo punto di vista: nella guardia i piedi devono essere posti tra di loro ad angolo retto e le ginocchia devono cadere a perpendicolo sui rispettivi piedi – la lama è un segmento – le sue traiettorie verso il bersaglio, siano rettilinee o curvilinee, sono comunque delle linee – il bersaglio stesso, più o meno esteso, è una superficie – la misura, pur variabile, è anch’essa un segmento – la cavazione si esegue facendo compiere alla punta una spirale in avanti – la parata semplice si ottiene facendo intersecare il piano in cui giace il nostro ferro con quello in cui giace il ferro dell’avversario – la parata di contro (vero spettacolo geometrico!) si esegue descrivendo con la propria lama un cono spaziale; quando si sconfina nelle azioni composte , vieppiù quando le parate sono due, le spezzate miste messe in campo sono degne dei più complicati e celebri pizzi di Cantù! …e chi più ne ha più ne metta.
Dal secondo punto di vista, ciò da quello della Fisica: l’arma nel suo complesso riproduce una leva e deve essere quindi ricondotta ad un suo utilizzo “utile” – la postura di guardia deve essere impostata con il rispetto del baricentro del corpo – le stesse gambe devono essere flesse per immagazzinare la necessaria energia potenziale da far esplodere al momento opportuno, sia in avanti che all’indietro – alcuni rapporti tra le lame possono essere informati a leggi fisiche: in primis la battuta che si affida ad una percussione, ma anche lo sforzo che percorre i gradi della lama avversaria, per non parlare del filo e dell’uscita in tempo nota col nome di contrazione che utilizzano il principio del cuneo; lo stesso angolo al polso produce miracoli, nella difesa col ferro e nelle parate di ceduta eseguite nel momento opportuno, invertono il principio di divergenza; …e, anche in questo caso, chi più ne ha più ne metta!
A questo punto dovremmo essere tutti d’accordo: la Scherma è senz’altro scienza; ovvero un insieme di norme, relative a posture e movimenti, che trovano il loro fondamento in leggi note a priori che regolano predeterminati fenomeni del mondo reale.
E allora dove risiede la parte artistica della scherma, assumendo appunto come Arte il tentativo da parte dell’uomo di realizzare forme di creatività ed espressione estetica?
Cerchiamo di dar corpo a questi paroloni altisonanti.
In prima battuta direi che il primo atto artistico dello schermitore, naturalmente di una certa maturità, risiede nello stesso rispetto del canone tecnico, inteso come ricerca del gusto e della forma. Ad esempio a pagina x del trattato Y si afferma che in guardia si deve stare in un certo modo ed io mi conformo.
Attenzione però, perché in questo caso, al di là appunto dell’intenzione estetica dello schermitore in guardia, la zona tra Scienza ed Arte è diafana: in effetti si deve stare in guardia in un determinato modo non perché così facendo si è più carini e fotogenici, ma perché la guardia è stata “costruita” scientificamente, ovvero rispettando canoni di ordine meramente pratico. Se non ci credete, gravate con il peso del corpo più su una gamba che sull’altra e poi cercate di muovervi partendo dalla prima; oppure non tenete le vostre spalle opportunamente delineate e guardatevi poi quanto bersaglio offrite al vostro avversario.
Quindi in questo caso la componente culturale è fortemente indotta e inculcata dall’insegnante in occasione dei primi anni di lezione.
Una seconda applicazione artistica dello schermitore la possiamo rinvenire, anche questa non certo nei primi anni di attività, nel tentativo di costruirsi un certo stile, inteso qui come personalizzazione del proprio modo di tirare. A questo proposito egli si assesta in una determinata postura di guardia, tiene il braccio armato in una certa posizione spaziale, utilizza questa o quella difesa in particolare e così via.
Anche in questo caso dobbiamo comunque osservare che l’aspetto artistico con molta probabilità è influenzato e non poco direttamente dalle caratteristiche fisiche e caratteriali dello schermitore.
Ad esempio un certo tipo di statura, intimamente connesso alla capacità di esprimere un certo tasso di velocità, sicuramente determina alcune scelte comportamentali dal punto di vista tecnico sulla pedana, sospingendo il soggetto a prediligere certe tipologie di azioni rispetto ad altre.
Parimenti un certo tipo di carattere può indurre a preferire l’attacco rispetto alla difesa. A questo proposito è interessante rilevare il fatto che la maschera, costituendo una specie di frattura con il mondo esterno, possa portare un timido a diventare aggressivo, mentre uno spigliato, anche se più raramente, può essere preda di ricorrenti incertezze. In fin dei conti la pedana, che null’altro è che il palcoscenico della vita, rappresenta e costituisce l’occasione di rivelare a se stessi e agli altri i propri carismi e le proprie debolezze.
Comunque, poi, l’aspetto artistico è intimamente connesso con quello culturale; in altre parole solo la conoscenza delle varie posture e soprattutto dei vari tipi di colpo ne può consentire la loro attuazione. “Davanti all’avversario fai solo quello che ritieni di saper far bene” è il sempiterno consiglio e la sempiterna ammonizione dei maestri. E in effetti il saper far bene è un buon viatico per giungere ad una buona espressione artistica, mentre, non dico l’ignoranza, ma anche la non buona padronanza di un tipo di colpo, porta il più delle volte a …beccarsi la stoccata.
D’accordo! Ma allora, in soldoni, quand’è che sulla pedana lo schermitore diventa un artista?
Risposta: quando è se stesso; cioè quando risponde soggettivamente al mondo dell’oggetto di cui è costituita la teoria e soprattutto la tecnica schermistica. In altre parole l’essere umano lo affranca dal monde delle idee e gli fa vivere la realtà.
Sotto questo aspetto è artistico anche un piede leggermente distonico rispetto alla linea direttrice oppure una postura delle spalle non completamente allineata; come pure una cavazione non troppo stretta attorno al ferro avversario o una parata esagerata spazialmente rispetto al bersaglio sottostante. In fin dei conti anche un proprio limite all’interpretazione di una postura o di un gesto tecnico con l’arma diventa un gesto artistico.
Il bello è che mai nessuno potrà dimostrare se un certo prodotto finale sarà frutto di un’incapacità personale o, al contrario, di una propria libera interpretazione.
D’altra parte, dopo il Rinascimento fiorentino, le arti figurative hanno preso sentieri sempre più impervi per il normale pubblico dei non competenti; e le opere vengono comunque e sempre denominate opere d’arte.
Andando alle conclusioni.
A mio parere la Scherma, intesa come dottrina, è indiscutibilmente una Scienza in quanto ne possiede tutte le caratteristiche, le impostazioni e le finalità.
Parlare di Arte è molto più difficile, in quanto nel preciso istante che per arte si intendesse la prolissa osservazione di precostituiti canoni estetici, si ridurrebbe lo schermitore ad una marionetta, bella ma sempre marionetta.
Quindi, sempre a mio parere, meglio parlare di oggetto e di soggetto.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2019
Scherma e arte militare
L’aggressività umana è un atteggiamento ricorrente nella Storia: partendo da quella biblica di Caino, transitando da quella di Romolo, si arriva con un balzo ideale alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e purtroppo non finirà certo qui.
La scherma con le sue armi bianche, a ben pensare, per millenni ha costituito la razionalizzazione degli attrezzi utilizzati per queste continue aggressioni. A questo proposito appare alquanto ipocrita la definizione di scherma condivisa da vocabolari e dizionari: l’arte di difendersi, di realizzare uno schermo difensivo; come se l’aggressore non si avvalesse degli stessi strumenti e relativi meccanismi tecnici!
L’aggressione dai singoli si è poi nel tempo sviluppata tra gruppi sempre più numerosi: sono nate le guerre ed è nata la cosiddetta arte militare per gestire al meglio le proprie risorse.
Il combattimento individuale si è dovuto disperdere ed inquadrare in una dimensione più ampia ed estesa, soprattutto organizzata per una gestione globale delle forze messe in campo da un intero gruppo di individui.
Se analizziamo questi due ambiti, scopriamo che le finalità sono identiche: il raggiungimento della vittoria, ovvero la prevaricazione di un avversario; del pari i mezzi sono identici: strumenti atti all’offesa e parallelamente alla difesa; ugualmente le formule cerimoniali molto simili nella loro essenza, almeno a partire da una certa epoca: atto formale di dichiarazione di guerra e Convenzioni di Ginevra da una parte, Regolamento Tecnico e pronti – voi dell’arbitro dall’altra.
Partendo da queste considerazioni, cerchiamo ora di rinvenire quante altre affinità sussistono tra Arte militare propriamente detta e Arte schermistica individuale; ovvero concetti, procedure e meccanismi che possano essere condivisi tra un insieme organizzato di persone e tra un singolo individuo, che abbiano il comune intento di giungere alla vittoria.
Alcune considerazioni si possono fare in relazione alla fase prodromica rispetto al vero e proprio scontro.
Innanzitutto possiamo osservare che sia un esercito, sia uno schermitore si tengono in forma e si preparano al confronto. La truppa si allena all’arma bianca a singole coppie e poi anche ad azioni collettive, delle quali la più famosa è senza dubbio la falange macedone; il singolo schermitore prende lezione dal maestro e anche lui si impegna nei cosiddetti esercizi.
In secondo luogo è da sottolineare quanto sia importante l’alimentazione: il vettovagliamento, con al primo posto la disponibilità di acqua, per un esercito è di fondamentale importanza; per lo schermitore dei nostri tempi è parimenti necessario affidarsi a un dietologo, oggi ribattezzato nutrizionista, al fine di trovare i migliori equilibri alimentari.
Grande importanza riveste anche il controllo e la messa a punto degli strumenti con cui si combatte. L’esercito affida alle cure dei singoli combattenti l’efficienza delle proprie armi e agli specialisti il miglior funzionamento di strumenti bellici come mangani, baliste e arieti; lo schermitore si avvale del lavoro del tecnico delle armi sia affinché esse siano pienamente funzionanti, sia che ossequino le prescritte disposizioni del Regolamento del Materiale.
Infine simile è la preparazione interiore immediatamente precedente allo scontro: il generale, la storia ce ne fornisce numerosissimi esempi, parla ai suoi soldati col fine di caricarli e motivarli; lo schermitore cerca la concentrazione, dialoga con il suo Io per procurarsi le migliori energie mentali.
Esaurita l’analisi delle fasi che precedono il combattimento vero e proprio, cominciamo ad esaminare gli ulteriori punti di contatto tra i due mondi in oggetto.
In prima battuta si evidenzia l’identico atteggiamento di vicendevole studio che dà inizio al rapporto con i rispettivi avversari: ovviamente né un esercito né un singolo schermitore adottano una qualsivoglia iniziativa senza prima aver acquisito informazioni e dati sull’avversario. Si può aver già avuto un’esperienza diretta e quindi si può anche attingere al cosiddetto precedente sul campo o sulla pedana; oppure è necessario procedere all’analisi delle caratteristiche dell’antagonista. Di un esercito si può cercare di constatarne l’effettiva consistenza sia numerica che di particolari corpi specialistici (come arcieri o cavalleria); di uno schermitore si potrà parallelamente valutarne l’altezza in rapporto alla propria, la stazza, il tipo di impugnatura e quant’altro.
In seconda battuta si tenterà di saggiare le reazioni dell’antagonista al fine di verificarne la vera natura, la tendenza e la consistenza: nei campi di battaglia si parla di scaramucce iniziali, sulla pedana si parla di scandaglio. Sono azioni che hanno in comune la finalità di smascherare gli schemi della reazione avversaria.
Poi, acquisiti questi dati e confrontati con le proprie caratteristiche, si opterà su come impostare lo scontro: attaccare, operare di contrattacco, attestarsi sulla difensiva. Che lo si faccia in gruppo oppure da singolo si tratta sempre di trovare la giusta impostazione iniziale dello scontro.
Se l’iniziativa viene presa dall’avversario, si dovrà nel più breve tempo possibile trovare la giusta mossa per controbattere: il concetto tipicamente schermistico di contraria appartiene anche all’arte militare. Il fine è quello della neutralizzazione dell’azione del nemico, sulla quale poter addirittura rispondere di rimando, come ad esempio sul campo il respingimento di un attacco falcidiando chi lo effettua, oppure sulla pedana utilizzando la risposta dopo aver effettuato una riuscita parata.
Ma entriamo nel vivo di quella che è la dimensione tecnica, ovvero parliamo nel concreto delle azioni che possono essere realizzate sia da un esercito, sia da uno schermitore.
I trattati di scherma, come sappiamo, parlano di azioni di attacco semplice, dove per semplice si intende il fatto di voler sorprendere l’avversario in velocità, senza che quest’ultimo nemmeno possa abbozzare una sua valida difesa; i principi su cui poggia questo concetto sono che l’avversario ignora quando viene scatenato l’attacco, che non conosce il luogo dove è indirizzato e non ne conosce nemmeno il meccanismo. Ebbene sulla pedana si cerca di sparare la migliore botta dritta che si possa effettuare oppure la più fulminea battuta e colpo; in campo, magari uscendo da una roccaforte assediata, si può tentare una rapida ed inaspettata sortita.
Oppure si può ricorrere alle azioni composte, dove l’attenzione di chi si difende viene ingannata e sviata in un luogo diverso da quello che invece sarà il vero bersaglio dell’attacco. Magari, prima di attaccare il punto più debole di una fortificazione, viene effettuato un’azione cosiddetta diversiva su un differente punto al fine di attirare i difensori in un sito lontano e diverso, lasciando maggiormente sguarnito il luogo del successivo e vero attacco; come lo schermitore che, per esempio, effettua una finta dritta in fuori per poi eludere con una cavazione l’accorrente parata dell’avversario e colpirlo invece nel bersaglio in dentro.
Anche il controtempo presenta dei connotati alquanto simili: lo schermitore, percepito che l’avversario si difende tramite un’uscita in tempo, finge l’attacco per poi neutralizzarlo e portare il colpo finale; nello stesso modo un eroico drappello, lo si vede spesso anche nei film, può attirare il grosso del nemico in un sito dove è stata approntata una trappola.
Similmente accade anche per la cosiddetta seconda intenzione, quel meccanismo consistente nell’eseguire un movimento che irretisce l’avversario nelle sue dinamiche ordinarie: così il condottiero fa effettuare alla luce del sole degli spostamenti alle sue truppe per ingenerare dei ragionamenti consequenziali alle altre forze (fulgido esempio la battaglia di Gaugamela, quando Alessandro ordina alla cavalleria l’attacco sull’ala destra; Dario III ordina a Besso di spostarsi per coprire l’attacco, mentre poi Alessandro stesso con una piccola squadra di cavalieri diverge al centro e arriva a tiro di lancia dal re dei re, che è costretto alla fuga); così anche lo schermitore, percepita la sua maggiore velocità di braccio, cade artatamente su una parata dell’avversario per poi poter comodamente contro parare e rispondere con un colpo vincente.
Passiamo ora alla difesa: ad esempio gli assediati in un castello si ingegnano a realizzare un sistema difensivo organico che riesca a respingere gli assalti del nemico; parimenti uno schermitore, che per scelte tattiche oppure per un consistente vantaggio nel punteggio, può decidere di aspettare l’attacco dell’antagonista per costruirci sopra una risposta vincente e per questo si concentra nell’alternare la tipologia delle sue parate.
Passando dalla tecnica alla tattica troviamo ancora notevoli punti di contatto tra le due ottiche:
Innanzitutto sia il generale sia lo schermitore osservano attentamente l’evoluzione della situazione, cioè verificano nel concreto divenire l’effetto delle decisioni prese; tengono sotto controllo la variazione dei singoli parametri che compongono il quadro d’assieme.
Poi, appunto in seguito a quest’attività di vigilanza, sia il generale che lo schermitore possono e devono apportare degli immediati correttivi quando le sorti dello scontro prendono una certa piega sfavorevole; la capacità di poter cambiare, come si dice, in corso d’opera è fondamentale per entrambi al fine di avere più possibilità di portare a casa la vittoria.
Anche il cosiddetto terreno offre notevoli punti di contatto: i grandi condottieri cercavano sempre la migliore ambientazione per le loro battaglie; sia sufficiente pensare al disporsi in modo che il nemico debba attaccare con il sole negli occhi oppure a procurare lo scontro in un luogo angusto quando le forze avversarie sono più numerose e quindi hanno maggiori difficoltà di movimento; allo stesso modo lo schermitore, che è riuscito a far arretrare l’antagonista sino alle propinquaggini del limite posteriore, limita quasi del tutto la sua residua possibilità di arretramento e su questa particolare situazione può costruire delle specifiche meccaniche di colpo.
Una considerazione anche in chiave strategica, ovvero nell’ottica dei fini ultimi di uno scontro: molto spesso, in relazione alla natura delle fortificazioni di una città o di un castello, le forze assalitrici preferivano differire un’azione diretta di forza, cingendo invece d’assedio le mura al fine di fiaccare fisicamente e mentalmente il nemico; abbastanza similmente lo schermitore può sfruttare a suo vantaggio il trascorrere del tempo quando è in vantaggio di stoccate e intravede la fine del periodo regolamentare del match.
Siamo pervenuti alla fine del nostro excursus dove abbiamo cercato di dimostrare come dimensioni apparentemente lontane alla fine dei conti lo siano invece in modo alquanto marginale: un intero esercito e un singolo combattente si informano a numerosissimi principi comuni; in effetti si tratta solo di come potersi organizzare al meglio per gestire l’aggressione umana nell’ottica dei due antagonisti.
Sono comunque lezioni di vita comportamentale; in tal senso mi permetto di consigliarvi la lettura dell’opera “L’arte della guerra” del generale cinese Sun Tzu vissuto nel VI secolo a.c.; trovate lo scritto in passionescherma.it nella rubrica Saggezza orientale.
M°Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2021
La Scherma e l’avversario
Salute a te, nemico- amico.
Nemico, sai, perché ti devo battere. Questo è lo scopo finale di tutta la mia attività da quando mi sono accostato alla scherma: mi hanno insegnato come si impugna e come si maneggia un’arma bianca, come ci si sposta sulla pedana e mille altre cose, tutte per prevaricarti, nemico mio.
Ma non te la prendere, non è un fatto personale! In effetti tu puoi assumere le configurazioni più diverse sia fisicamente (più alto, più basso, come me), sia tecnicamente (appartieni ad una stessa scuola o ad una scuola diversa dove ti insegnano la tecnica in modo difforme da come la insegnano a me, utilizzi o meno lo stesso tipo di manico se tiriamo di spada), sia psicologicamente (imposti il match soprattutto sulla tua aggressività attaccando oppure, all’opposto, sei un attendista sempre in agguato). Insomma non sei nessuno o meglio (anzi peggio!) sei tutti.
Spesso mi fai arrabbiare, ma, come dice il mio maestro, tante volte dovrei prima arrabbiarmi con me stesso: sapevo cosa dovevo fare per batterti e invece ho fatto il contrario, dovevo mantenere la calma per essere più lucido e invece l’ho persa, dovevo stare attentissimo alla misura invece ho fatto con te un tete a tete (come dice sempre il mio maestro).
Cavolo come sei alto, smisuramente alto! Ma i tuoi genitori sono delle giraffe!
Cavolo come sei piccolo! Ma per toccarti in bersaglio valido ci vuole il puntatore laser!
Certe volte hai una fortuna sfacciata! Ti attacco, ma non trovo il tuo bersaglio per un soffio. Il mio maestro mi ha fatto osservare che quando io attacco tu spesso esci in tempo con una contrazione o con una schivata; sarà! Per me comunque hai proprio un bel c…!
Ma guarda! Siamo al nono minuto della diretta, io sono tutto fradicio, e tu sembri fresco come una rosa!
Ti ho beccato prima io! Come sei riuscito a mettere il colpo doppio!
Un mancino, un mancino! Ma mi doveva capitare subito un mancino nella prima diretta?!
No! Ancora tu! Ora vado dall’arbitro e ti faccio mettere subito una vittoria senza salire in pedana, tanto è inutile! Sei proprio una bella bestia nera!
Poi lasciamelo dire: sei veramente insopportabile quando metti una stoccata e mi urli in faccia peggio di Tarzan! Come? Cosa dici?! Lo faccio anch’io?! E’ vero! Non ci avevo mai pensato; comunque credo di gridare con un po’ più di rispetto!
Più difetti, almeno dal mio punto di vista, non potevi averli e come sei bravo a valorizzarli!
Scusami tanto, nemico mio, ma ci voleva: ora mi sono sfogato e sono senz’altro più trattabile.
Come, maestro? E allora con chi tiro sulla pedana?! Già, non ci avevo proprio pensato! Un fantoccio non darebbe le stesse soddisfazioni, uno specchio invece farebbe troppo Narciso, con il computer poi o metti principiante e non c’è soddisfazione a vincere oppure con gli altri livelli perdi sempre!
Vuoi vedere che dell’avversario non si può assolutamente fare a meno! Ma allora, visto che la scherma non è un solitario, allora l’avversario è un compagno di gioco e, se è un compagno, allora non è solo un nemico da battere. Cioè è assolutamente da battere, ma amichevolmente o quasi; tanto c’è l’arbitro che ci controlla con il rigido Regolamento sotto braccio.
Poi, detto fra di noi, quello che io ho scritto sull’avversario” avrebbe potuto benissimo scriverlo l’avversario su di me, o quasi. Siamo cioè un binomio; siamo reciproci e inscindibili, uno necessario all’altro; inequivocabilmente.
Per cui, non potendoci essere una scherma senza un avversario e scherma per noi vuol significare soprattutto divertimento, allora è filosoficamente consequenziale: “viva” l’avversario. Insieme siamo la scherma.
M° Stefano Gardenti
a Firenze, aprile 2018
(estratto dal mio lavoro 200 e più consigli per lo schermitore)
Il termine consiglio ha svariati significati; tra gli altri quello di avvertimento o suggerimento frutto di una personale esperienza che si vuole mettere a disposizione degli altri.
E in questo senso ho voluto condividere con il lettore ciò che ho appreso in cinquant’anni e più di pedana, cimentandomi tra l’altro in tutte e tre le specialità della scherma.
Tuttavia tengo subito a specificare che questa accezione di consiglio viene in queste pagine che seguono profondamente influenzata anche e soprattutto da un invito alla riflessione e ponderazione di carattere personale.
In altre parole lo scopo primario di questo mio lavoro non è quello di sciorinare un elenco di istruzioni da prendere a scatola chiusa; piuttosto è il tentativo di coinvolgere il lettore nello studio profondo della disciplina schermistica.
In effetti dietro ad ogni consiglio c’è un anfratto, più o meno esteso, che riguarda la tecnica, la tattica, la strategia o qualche arte varia che può essere utilizzata sulla pedana dallo schermitore che combatte per sconfiggere l’avversario.
La maturazione schermistica non può non consistere in una progressiva conoscenza e compenetrazione di ciò che all’inizio, quando si è neofiti, viene appreso quasi passivamente grazie alla paziente opera di formazione svolta dal maestro in sala.
La Scherma è cultura e non può in nessun modo essere ridotta e limitata solo al maneggio passivo delle armi; piuttosto è un’attività che invece costituisce la risultante progressiva di tutto un crescente patrimonio di conoscenze.
Il proprio personale modo di tirare poggia le sue basi su principi oggettivi, quindi scientifici, enunciati dai trattati (equilibri posturali, traiettorie, logica e quant’altro); ma poi la libera interpretazione filtra e adatta lo scibile alle proprie esigenze, alle scelte individuali e ai propri limiti personali.
E’ proprio in questa ottica artistica che lo schermitore deve essere in grado di ben ponderare i pro ed i contro di ciò per cui opta; ecco perché, più che abbandonarsi ad un’istruzione avuta passivamente, deve invece sforzarsi di sviscerare la materia in ogni suo più nascosto anfratto, andando alla ricerca di una sempre maggiore consapevolezza.
In questa ottica ogni consiglio che mi sono permesso di trascrivere qui di seguito, è accompagnato o dalla spiegazione della sua ratio o quantomeno dall’indicazione delle controindicazioni a cui ci si espone se esso non viene ossequiato.
Parlare, meditare, confutare, sperimentare, tutto al fine di settare sempre al meglio il nostro modo di combattere sulla pedana: questo è l’obiettivo di questo mio scritto;
tra l’altro, spero che costituisca uno stimolo ad approfondire tramite l’ampia letteratura esistente la materia schermistica nei suoi poliedrici aspetti: essa non deve essere solo feudo esclusivo dei maestri di scherma, ma al contrario di tutti i veri appassionati.
Nel rapporto con la Scherma, te stesso, gli altri schermitori e la tua sala
1 – Chiediti ogni tanto cosa rappresenta per te la scherma: ogni scelta
personale è lecita, purché tu ne tenga costantemente conto e ti
comporti di conseguenza. In tal modo avrai sempre un buon rapporto
con la disciplina sportiva che pratichi.
2 – Non ti limitare solo a maneggiare le armi, ma sin da subito interessati
alla Scherma: è un mondo sconfinato, poliedrico e affascinante.
In funzione dell’età che hai fatti consigliare dal tuo maestro letture
adatte e naviga su intermet, twitter e face book.
La passione per le cose nasce anche con la progressiva e multiforme
conoscenza che hai di esse.
3 – Se consegui risultati agonistici lusinghieri, esulta e goditeli; ma dai loro la giusta importanza e considerali sempre come un punto di ripartenza e mai di arrivo.
Guardati soprattutto dagli adulatori, chiunque essi siano, perché potrebbero essere una pericolosa zavorra per il tuo futuro.
4 – Cerca di assuefarti alla sconfitta, perché, logicamente, non potrai vincere sempre e per sempre.
Così facendo, eviterai che il mondo ti possa crollare addosso e manterrai sempre un giusto e proficuo contatto con la realtà.
5 – Se vinci gioisci (grida, salta, alza le braccia o altro), ma non ti scomporre mai oltre un certo limite.
6 – Rispetta sempre chi hai battuto: oltre che essere un comportamento doveroso e corretto nel futuro le parti potrebbero ribaltarsi.
7 – Non contestare mai apertamente e platealmente il presidente di giuria, ma, se di caso, chiedi gentilmente spiegazioni sul suo operato, appellandoti a quanto il Regolamento ti concede.
In effetti, se tieni con lui un comportamento irritante, oltre che dimostrare di essere un maleducato, è molto più probabile che tu lo possa indisporre nei tuoi confronti piuttosto che condizionare a tuo favore.
8 – Combatti sempre lealmente e non tanto per non incorrere in sanzioni disciplinari, quanto piuttosto per la tua onestà intellettuale.
Eviterai così di gettare ombra sulle tue affermazioni agonistiche e, se pur da avversario, sarai stimato e rispettato da chi affronterai in pedana.
9 – Accusa una stoccata evidente che subisci, riconoscendone così il pregio al tuo avversario.
Così fanno i veri sportivi e, soprattutto, i migliori schermitori.
10 – Ricordati che la tua sala in certi termini raffigura la tua famiglia schermistica: con il tuo comportamento, il tuo atteggiamento, le tue parole e quant’altro adoperati e concorri sempre per assicurare la serenità e la coesione a tutto l’ambiente.
E, se la disavventura ti portasse ad essere tra i più bravi, non ti scordare mai che i veri confronti, almeno quelli più significativi ed importanti, non li trovi nel tuo club, ma fuori, alle gare con gli schermitori degli altri circoli: devi rifuggire il ruolo del galletto del pollaio e, al contrario, devi essere pienamente consapevole di dover essere di esempio, di stimolo e di aiuto agli altri tuoi compagni di sala.
La tua fortuna personale e la tua forza sono in stretto collegamento con la tua sala ed i tuoi compagni.
11 – Progressivamente con la tua crescita schermistica leggi e documentati sul Regolamento.
La conoscenza che ne deriva non può altro che giovare alla tua condotta di gara, alla tua evoluzione tecnica e alla tua formazione personale.
12 – Non dedicarti solamente alla scherma, trascurando la tua attività scolastica.
Il tuo futuro può non risiedere nella scherma e comunque lo schermitore, per definizione ed essenza, non può essere un ignorante.
13 – Anche se in un certo tenore è naturale che ci sia, cerca di non sentire eccessivamente la pressione che ti deriva dai genitori e in genere dall’ambiente: non ti dare precisi traguardi da raggiungere ad ogni costo.
Potresti non raggiungerli e ciò potrebbe causare un tuo probabile allontanamento dalla scherma.
Quindi gareggia, combatti e dai tutto te stesso: quel che sarà, sarà.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e deontologia magistrale
(estratto dal mio lavoro “La lezione di scherma”
Visto la mia età anagrafica, consentimi a questo proposito una piccola, ma proprio piccola paternale: ricordati che la tua scuola non sarà solo tecnica, ma anche (e prima) educativa e comportamentale.
Fare “campioni” non è certo facile, ma contribuire a far crescere un giovane come si deve da un punto di vista culturale, etico e sociale non è certo, visto i tempi, minor impresa.
Ed io ti porto la mia personale testimonianza in quanto per la professione di dirigente bancario di mio padre di sale di scherma ne ho conosciute circa una decina: ci sono maestri che mi hanno reso più coraggioso ad affrontare i compiti in classe di matematica, maestri che mi hanno insegnato a perdere con dignità, maestri che mi hanno aiutato a dare la giusta dimensione a certe vittorie che ho avuto la fortuna di cogliere nella mia carriera agonistica, maestri che mi hanno abituato alla pazienza e altri alla fatica fisica … ed io non li ricordo certo con gratitudine per il palmares dei loro allievi! Mi hanno aiutato in mille modi a crescere, a diventare uomo e ad inserirmi nella Società (ma di questo me ne sono reso conto tanti anni dopo!).
Un’altra cosa: non si può poi essere maestro premuroso e disponibile solo per gli allievi che si rivelano i più forti o almeno quelli che dai presupposti paiono tali; questo tipo di scelta fallo fare agli altri colleghi senz’altro più furbi e smaliziati.
Per te tieniti la deontologia professionale, naturalmente ben farcita dalla gratitudine indistinta di tutti i tuoi allievi; poi, intelligentemente e ad onor del vero, tieni a mente la favola del brutto anatroccolo, quella in cui chi sembrava all’inizio meno dotato e indietro rispetto agli altri poi si rivela il migliore di tutti.
Ricordati che sei un esempio per i tuoi allievi: in genere pendono letteralmente dalle tue labbra non solo per tutto ciò che concerne la tecnica, la tattica e la strategia schermistica, ma anche per ciò che riguarda il comportamento e l’interiorità; in una sola parola sei quasi il loro consigliere spirituale, sei un esempio di vita, sei …un maestro.
Quando arriveranno le prime soddisfazioni professionali (e arriveranno prima o poi se lavorerai bene valorizzando quelli che sono i tuoi carismi, la tua preparazione e la tua dedizione), non scordare mai che le tue fortune derivano in modo diretto anche da quelle dei tuoi allievi, cioè dalle loro autonome doti fisiche, intellettive e di carattere.
Mai sentito parlare dei “prigioni” di Michelangelo?! Sì, quelle statue appena abbozzate dai blocchi che fanno da contorno al David all’Accademia delle belle arti a Firenze. Lui, da vero maestro qual’era, diceva appunto che le statue non le scolpiva, ma toglieva solo la parte di marmo che eccedeva: i corpi erano già presenti nel marmo in modo autonomo e lui le liberava soltanto.
Credo che la similitudine sia molto calzante per la nostra missione di maestro di scherma: indubbiamente dobbiamo iniziare l’allievo all’arte del combattimento, ma la parte più importante del nostro lavoro consiste nel liberare le doti, le energie ed i carismi di cui, in diversissima misura, ogni allievo è personalmente dotato.
Quindi, a mio modesto parere, un maestro può essere grande in considerazione del fatto che ha avuto anche la fortuna di poter addestrare grandi allievi: una specie di scambio mutualistico, come viene detto nelle scienze biologiche.
In conclusione a questo mio lavoro vorrei poi velocemente passare in rassegna qualche idea o prudente suggerimento che mi sono permesso di disseminare qua e là nelle precedenti pagine.
Primo: il tuo specifico compito non è quello di creare campioni, ma di appassionare i tuoi allievi alla disciplina schermistica, illustrando loro e facendogli apprezzare ogni singolo anfratto storico, culturale, comportamentale, formativo, psicologico, ludico, tecnico, tattico e strategico.
Della scherma, se ben esposta e trasfusa, è difficile non innamorarsi: tu devi essere a questo proposito il miglior sensale.
Il valore agonistico di ogni tuo allievo, valore che del resto costituisce comunemente il più appariscente fine escatologico, deve sempre essere percepito come accessorio rispetto all’amore verso la Scherma: quest’ultima deve sempre rappresentare un fine e solo occasionalmente un mezzo (in effetti solo una sparuta schiera di schermitori sceglie o può scegliere di passare al professionismo, gli altri, la gran parte, sono i disinteressati amatori della scherma).
Secondo: come maestro devi essere un sicuro produttore di situazioni dominate dall’interesse, dal divertimento e dalla felicità, ma devi riuscire a far capire ai tuoi allievi che a questi stati si può giungere solo con la dedizione, la costanza, la fatica e la spinta causata anche da delusioni o contrarietà di varia natura.
In una parola devi necessariamente avventurarti nel difficile compito d’insegnare a vivere: in effetti in parallelo all’esperienza scolastica, che del resto è del tutto indotta, è proprio nel praticare una disciplina sportiva con tutto ciò che essa comporta che l’individuo si affaccia alla vita sociale. I genitori, i professori e nella fattispecie i maestri di scherma devono aiutare l’individuo ad estrinsecare le proprie potenzialità e ad iniziare a “duellare” con gli altri per essere pronto ad allocarsi in futuro nella società civile.
Come un esperto psicologo dovrai imparare ad ascoltare, comprendere, inquadrare il tuo allievo per poterlo poi aiutare nella sua crescita con i tuoi consigli mirati, con la tua esperienza, con i tuoi stimoli e, se di caso, anche con i tuoi rimproveri.
Terzo: non scordare che il tuo lavoro ha come oggetto l’addestramento dell’uomo al combattimento, dico uomo ancor prima di schermitore: devi aiutarlo a sapere gestire al meglio le sue risorse, a comprendere le caratteristiche di chi deve affrontare, a rinvenire la soluzione tattica migliore, ad attuarla al meglio nel momento e nel luogo più opportuno.
E queste, fammelo dire ancora una volta caro mio, non sono doti che servono solo sulle pedane di scherma, ma servono ad affrontare anche e soprattutto la quotidianità della vita.
Quarto: nessuno può permettersi di limitare o indirizzare le tue convinzioni tecniche, ma proprio per questo cerca di farle sempre poggiare su qualcosa di culturalmente solido e soprattutto di dimostrabile: non farti rapire dal desiderio della novità per la novità, del nuovo solo per il nuovo, ma resta fedele al metodo sperimentale e soprattutto alla concretezza delle verifiche.
Te l’ho già ricordato: gli allievi non sono tue cavie personali da immolare sull’altare della scienza schermistica, ma sono soggetti che hanno diritto ad essere istruiti soprattutto sul canovaccio di quelle che si sono dimostrate le più recenti e riconosciute regole tecniche.
Quinto: tutto ciò di comportamentale che pretendi dal tuo allievo, cerca di attuarlo in prima persona, dandone pubblico esempio; lo so che talvolta è molto difficile, ma un maestro deve essere un maestro.
Sesto: insegna e pretendi dal tuo allievo la piena sportività; la realtà non può e non deve essere filtrata e ottenebrata dai propri desideri, dai propri egoismi e dalle proprie pulsioni; l’intelligenza e la capacità di rapportarsi in modo coerente ad essa non è una virtù innata, ma una cosa che con pazienza s’insegna e con pazienza si apprende.
A questo proposito diffondi tra i tuoi allievi la filosofia del touché, atteggiamento che all’occasione nobilita il comportamento dello schermitore.
In parallelo insegna anche ai tuoi ragazzi a farsi rispettare, ma ricorrendo sempre a ciò che è consentito in prima battuta dal Regolamento e in seconda battuta da una buona educazione.
Settimo: se la disavventura ti porta a collaborare in una stessa sala con altri colleghi, rispetta le gerarchie esistenti o gli eventuali termini contrattuali; in caso contrario lascia subito il club e non cercare di farlo implodere dal dentro a tuo favore, perché faresti solo del male agli allievi e in fin dei conti all’intero movimento.
Se ne hai capacità e mezzi, fonda una tua sala di scherma e gestiscila da solo come ti pare.
Ottavo: guardati dal mandare al cosiddetto macello agonistico i tuoi allievi, soprattutto quelli più piccoli; giudica sempre se sono più o meno pronti per l’appuntamento della gara e soprattutto cerca di vagliare quelle inizialmente più idonee e anche quelle più vicine logisticamente in modo da contenere i disagi della relativa trasferta per la famiglia.
Intrattieni i genitori o similari sulle conseguenze del momento agonistico e traccia con loro il cammino più adatto per la piena maturazione del bambino o del ragazzo.
Nono: sin quando te la senti e sin quando puoi, cerca d’incrociare il ferro con i tuoi allievi; non so se a te è capitato, ma ti garantisco che la sensazione da entrambe le parti è veramente unica.
A questo proposito ti consiglio di evitare sfide o scommesse che non avrebbero alcun luogo di essere, sia da una parte che dall’altra: tira e fai tirare solo per il piacere di scambiarsi qualche stoccata e intanto approfittane per tastare direttamente il polso al tuo allievo e trarne i dovuti estremi per impostare in seguito una lezione mirata.
Decimo: se ami veramente la scherma, fai di tutto, magari senza pudori e remore, per dimostrarlo anche agli altri; la passione e l’entusiasmo sono sentimenti facilmente trasmissibili, più di quanto tu possa pensare.
Bene, dopo che anch’io non sono riuscito a sfuggire al Decalogo, si approssima sempre più l’istante del nostro commiato, paziente lettore.
Come hai potuto vedere non ho avuto alcun timore ad aprirmi completamente, rivelandoti le mie profonde e personali convinzioni sul rapporto maestro – allievo.
Te lo ripeto, insegnare a stare in guardia e a fare l’affondo è niente!
Il bello (e il difficile) vengono dopo quando ti trovi a lavorare non più sulle singole capacità motorie, ma sull’interiorità dei soggetti.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2020-12-12
Scherma e dieta
Oggi anche nello sport nulla è lasciato al caso: in effetti una visione grandangolare rispetto a tutte le sfaccettature che possono portare alla migliore prestazione viene perseguita attraverso tutte le scienze a disposizione.
Viene quasi da sorridere a pensare cosa era la vita dello sportivo, almeno quella di uno schermitore, solo qualche decennio addietro: un po’ di ginnastica fatta eseguire magari da chi se ne intendeva poco o proprio nulla, un pizzico di cosiddetta pre-schermistica come preparazione specifica, allenamenti blandi e comunque lasciati al libero arbitrio dei singoli.
Intanto le altre discipline facevano passi da gigante: la surricordata ginnastica era diventata preparazione atletica e si era dispersa in tantissimi altri rivoli ognuno dei quali perseguiva il migliore allenamento delle celebri capacità coordinative e di quelle condizionali. Arrivarono anche gli psicologi e le restrizioni si spinsero sino alla sfera sessuale degli atleti; ed eccoci al tema in titolo, arrivarono anche i dietologi, dai quali si dipartirono anche i nutrizionisti.
Tutte cose ovvie e senz’altro utili: si vuole tentare di realizzare nel pragmatico l’idea del super-uomo di Friedrick Nietzsche.
In specie per quel che concerne il nutrimento degli atleti, il corpo umano, come ben sappiamo, non è altro che una macchina spinta dall’energia derivata da processi chimici: indubbiamente il dosare e miscelare la benzina può garantire un più soddisfacente rendimento.
Mi viene ancora da ridere, come ho fatto poco sopra, se penso al rapporto con il cibo che ci consigliavano non solo i maestri ma anche i benpensanti dell’epoca: appena possibile bistecche al sangue con l’immancabile insalata, il che era una sicura afflizione per uno come me che solo per costrizione della mamma ai tempi dei tempi si spaccia ancora oggi come onnivoro.
Poi qualcosa si mosse; si cominciò a dire: se l’intervallo tra i turni eliminatori è di un certo tipo continua pure a mangiare le sanguinose bistecche, altrimenti da italiano buttati felicemente pure sulla pastasciutta, perché i carboidrati sono più celermente digeribili rispetto alle proteine animali. Io intanto, da goloso confesso, avevo scoperto autonomamente i dadetti di zucchero che ingurgitavo a dismisura: per questa performance mi erano state sufficienti le elementari nozioni di scienze che avevo studiato in seconda liceo scientifico, cioè che gli zuccheri forniscono energia in tempi rapidissimi. Ora era almeno tutto logico! Battute a parte, il razionalizzare la propria nutrizione è cosa buona e giusta per tutti, sportivi e non, viepiù per chi come me sta varcando la soglia dei settant’anni.
Ovviamente uno sportivo dei nostri giorni che trae sostentamento economico dalla sua attività ha tutto l’interesse di essere efficiente al massimo: in effetti per questa figura di sportivo non c’è in palio solo la gloria, ma anche il conquibus.
Sono scelte libere e personali come quelle di una vita francescana o monastica; non ci si lamenti poi delle privazioni e dei sacrifici (anche dal lato alimentare), sacrifici che poi in fin dei conti sono patrimonio comune alla gran parte dei lavoratori. Del resto oggi tutto è esasperato nella Società, anche nello sport; e ringraziamo il cielo che gli schermitori, come invece tantissimi altri loro colleghi, non siano coinvolti in gara in dimensioni del tempo così esigue da non essere nemmeno umanamente percepibili.
Tornando specificatamente sulla dieta; è da osservare che la storia della cronaca sportiva in generale è purtroppo costantemente costellata in ogni dove da episodi di doping e, a detta dei tecnici, difficile è rinvenire e fissare un preciso confine tra integratori fisiologici e sostanze dopanti. Ecco perché, credo ogni anno, viene emessa una lista di nuove sostanze proibite: il che testimonia una tristissima gara di acchiappino tra lecito e illecito, tra benzina buona e benzina truffaldinamente contraffatta. Tutto ciò con l’aggravante che talvolta l’atleta, scoperto poi positivo, è completamento all’oscuro del rinforzino che gli è stato segretamente somministrato, rinforzino tanto caro al conte Mascetti del noto film Amici miei.
Che fortuna, talvolta penso: per una decina di anni ho combattuto da agonista sulle pedane arrivando anche a discreti risultati, ma son sicuro di non essermi mai sacrificato, anche dal punto di vista alimentare; la scherma, per me come per gli altri miei compagni d’avventura, è stato solo un libero e piacevole intrattenimento, un semplice accessorio, comunque prezioso, della nostra vita. Il solo tiranno, si fa così per dire, che dovevamo subire era il nostro maestro.
Comunque, a dire il vero, più di un sacrificio l’ho fatto anch’io: tutte le volte che a comando mi facevano mangiare le famose bistecche al sangue!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma ed estetica
In parole molto povere, come sappiamo, l’estetica è l’insieme dei fattori richiesti e accettati dal gusto e dal senso di forma, ovviamente imperanti in una determinata epoca e in un determinato luogo. Quindi è un concetto relativo, da prendere con le cosiddette molle.
Ho già affrontato in altri miei scritti l’eterno dilemma se la nostra disciplina rappresenti una scienza oppure un’arte: di conseguenza ribadisco il pensiero che essa, caso molto raro, costituisce una singolare sintesi tra due mondi che apparentemente sono distanti e soprattutto tra loro incommensurabili.
Indubbiamente la scienza illustra e spiega cosa deve fare al meglio uno schermitore, mentre l’arte gli concede la possibilità innanzitutto di scegliere, poi di filtrare e infine personalizzare ogni gesto tecnico.
In questa sede, come preavverte il titolo stesso, mi prefiggo di analizzare in profondità l’aspetto artistico, che è in strettissima correlazione con il concetto di estetica.
Come è noto, le arti di qualsivoglia natura sono da sempre raggruppate e inserite in specifici contesti: ecco, molto sintetizzando, il Classicismo – il Romanticismo – il Neoclassicismo – il Verismo – il Decadentismo e così via. I critici sono comunque d’accordo a ritenere che, soprattutto nei grandi artisti, tutti questi aspetti convivono e sono presenti in variegata misura in ciascuno di essi. In effetti il gusto estetico imperante vela tutte queste diverse nature.
Nella scherma il classicismo potrebbe essere fatto coincidere con la pedissequa osservanza formale dei canoni espressi dai trattati, ovviamente delle rispettive epoche: concetto quindi relativo che ci fa passare dai disegni a petto nudo di un Marchionni, a quelli in casacca di un Masaniello Parise, alle fotografie di un autore contemporaneo. Questa visione lascia poco o nulla alla personalità dello schermitore, a cui spetta solo la rigida applicazione di distanze e stereotipati movimenti.
Il romanticismo potrebbe invece farci pensare allo schermitore che, conosciuto il canone, non lo adotta in toto, bensì lo interpreta e lo sottomette in parte al suo gusto o alle sue peculiarità.
Attenzione, questo aspetto non va certo confuso con un’involontaria applicazione erronea delle posture e delle evoluzioni del braccio armato; gli errori di uno schermitore ancora inesperto o che presenta limiti personali non possono certo essere contrabbandati come frutti di un personale gusto estetico. Si tratta invece di uno schermitore con una grossa personalità e capace di adattare certe posture e certi colpi magari alle sue particolari caratteristiche fisiche, come ad esempio una scarsa altezza o per contro un’altezza non comune.
Il neoclassicismo potrebbe essere impersonato dallo schermitore curioso che talvolta va a rovistare tra le azioni ormai considerate desuete e quindi sconvenienti da utilizzare.
La teoria schermistica, e qui siamo nella scienza, non è altro che la progressiva costruzione di ciò che di meglio possa essere attuato sulla pedana in un certo periodo storico; poi ci sono dei fattori che inducono a percorrere altre vie tecniche, basti pensare alla qualità delle lame che a un certo punto ha permesso il fuetto oppure alla sciabola che non fruisce più del bersaglio non valido per troncare la frase schermistica. Talvolta mutano le condizioni del combattimento e non è detto che non tornino in auge vecchi percorsi tecnici; indagare nel passato e cercare di attualizzare vecchie posture e vecchi colpi è sempre possibile.
Se passiamo al Verismo non ci può non venire in mente una dimensione fondamentale dello schermitore, il suo pragmatismo; in effetti il suo compito essenziale è quello di portare a casa la vittoria. Lo scopo del combattere è quello di vincere, ovviamente nel pieno rispetto delle regole: poco importa se la fortuna o la sfortuna ci mettono il loro zampino e in genere poco importa anche la differenza di stoccate.
Lo schermitore “verista” non concede nulla al caso, non muta mai il suo atteggiamento, va dritto al risultato: anche un più che congruo vantaggio e magari la prossimità della scadenza regolamentare del tempo, non intaccano per nulla il suo atteggiamento ultra pragmatico. Il combattente “romantico” magari tenterebbe oculatamente almeno una stoccata ad effetto, un colpo magistrale e tirerebbe per lo spettacolo; lui no, non ha questo tipo di sensibilità; anzi ritiene tutto questo un errore da evitare.
Eccoci giunti finalmente al decadentismo: qui, almeno fin quando è possibile, si rifiuta tutto ciò che fa riferimento al bello e all’esuberante; il sottofondo è quello della ribellione e dell’irrazionalismo.
Quale esempio migliore dello schermitore che sta in guardia quasi al limite dei principi di equilibrio fisico, sfidando le ormai rassegnate contumelie del proprio maestro. Eppure non si corregge di un centimetro, questo è il suo sentimento estetico.
A nulla vale la razionalità che dovrebbe fargli capire che le posture teorizzate dai trattati non sono in alcun modo partorite da concetti formali, ma solo da utilitaristici fini pragmatici: è un indomito ribelle e si fida solo di se stesso; cerca la sua originalità e la trova; desidera immandriarsi con gli altri il meno possibile.
Ebbene queste, a grandi tratti, sono le sensibilità con cui lo schermitore, ovviamente maturo, vive il suo rapporto col mondo – scherma in generale e con la tecnica schermistica nello specifico.
Tuttavia, come già accennato in premessa, ogni persona, quindi anche ogni schermitore, non è altro che una summa di tutte queste tendenze estetiche che o convivono contemporaneamente ben miscelate tra loro oppure si avvicendano nei vari periodi che possono contraddistinguere un’evoluzione di uno stesso individuo.
Nulla di troppo, in medio stat virtus ci ammoniscono i saggi antichi presocratici: quindi appare anche troppo evidente che il cosiddetto schermitore perfetto sia portatore sano di questi elementari principi di vita.
Dobbiamo solo fare un piccolo sforzo e rivedere tutte le categorie che abbiamo passato in rassegna poco sopra, ma non più dall’ottica del presunto eccesso di cui sono portatrici, bensì da quello di correttori e equilibratori del polo valoriale opposto: ecco che uno schermitore classico talvolta “inventa” (si fa così per dire) un colpo, ecco che uno romantico invece si mette a regime e personalizza meno un fraseggio, ecco che il neoclassico si attualizza maggiormente, ecco che il decadente non disdegna di sfogliare con una certa attenzione un trattato di scherma oppure sta ad ascoltare con maggiore disponibilità gli insegnamenti e i consigli del suo maestro.
D’altra parte il mondo non può fare a meno di regole; ad esse ci si deve riferire, ma mai esserne schiacciati; ognuno, nei dovuti modi e tempi, può cambiarle, è la Storia che ce lo conferma.
Il Rinascimento, qui a Firenze e poi nel mondo, si è fatto portatore di un fondamentale principio per gestire al meglio la propria interiorità: I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’ è ditta dentro e vo significando.
Per cui la metodologia migliore sembra proprio che consista nell’essere sempre aperti e disponibili al mondo, ma non sudditi di nulla; la propria sensibilità, unita al proprio ragionamento, è la forza che fa scoprire all’uomo, quindi anche allo schermitore, nuovi sentieri per poter giungere a sempre nuove mete.
La teoria schermistica del resto non è un qualcosa di statico e di definitivo, ma come tutte le cose del mondo è soggetta a trasformazioni e a mutamenti; il canone non è altro che la certificazione in un certo tempo e in un certo luogo di ciò che i più considerano come il valore affermato più attuale. L’Estetica, come del resto abbiamo già detto, non ha un valore immutabile, anzi proprio il contrario: chissà come si tirerà di scherma tra una decina d’anni?!
M° Stefano Gardenti
Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e suo fascino
La mia onestà intellettuale viene messa a dura prova con l’argomento che mi sono riproposto: il pericolo sempre in agguato è quello del noto principio filosofico che ogni scarrafone è bello a mamma soja. Ciò detto e precisato, atteniamoci dunque ai soli e solidi fatti, che appunto in quanto tali sono difficilmente confutabili.
Motivazione mitica: il mito è costituito notoriamente da chi è capace di polarizzare le aspirazioni di una comunità, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente. Certi miti connessi al potere politico – religioso sono stati messi alla berlina dalla storia che, come dice bene il Foscolo, ha dimostrato di lacrime grondi e di che sangue. Indistruttibile invece è restato il mito di certi cavalieri, cioè di coloro che mettevano la forza delle proprie armi a favore dei deboli contro i soliti prepotenti di tutte le età; i loro dettami comportamentali erano: – mai oltraggiare o compiere omicidio – evitare l’inganno – evitare la crudeltà e concedere pietà a chi la chiede – soccorrere sempre le dame e le vedove – mai ingaggiare battaglia per motivi sbagliati quali il desiderio di beni materiali.
Motivazione storica: la scherma la facevano anche i cavalieri, cioè oddio c’erano anche cavalieri e cavalieri, ma noi ci riferiamo a personaggi come Orlando e Astolfo, comea Baliano di Ibelin difensore di Gerusalemme, come Parsifal e gli altri che avevano l’onore di sedere alla tavola rotonda di re Artù a Camelot nell’isola di Avalon, personaggi come Don Chisciotte, per finire nei secoli futuri con Luke Skywalker, cavaliere Jedi. Questi sono fatti, letterari, ma pur fatti: la figura del cavaliere da sempre troneggia contro il male perpetrato dai malvagi ai danni dei più deboli e degli sprovveduti.
Motivazione estetica: qui stiamo parlando della ricerca del bello naturale o artistico. Non è forse questa la costante ricerca degli schermitori in pedana, stimolati quotidianamente dalle affettuose paternali dei loro maestri?! I trattati, visti sotto una certa ottica, in gran parte non sono altro che un concorso di bellezza per uomini armati: metti le gambe così, le spalle cosà e il braccio armato in su; muoviti con armonia e attacca con leggerezza. La pedana in realtà è in buona parte una passerella di moda.
Motivazione scientifica: nella tecnica schermistica dominano la geometria e la fisica; il braccio armato non è altro che una leva di terzo genere, si parla di compasso delle gambe e del baricentro nella guardia. Probabilmente Euclide e Galileo avevano conseguito il diploma di maestro di scherma ad honorem.
Motivazione letteraria: se si parla dell’accezione più palpitante della letteratura non si può che far riferimento al periodo romantico, quello acceso da Madame de Stael e non c’è romanticismo se non c’è una lama al servizio di una dama: la triste fine di Tristano ed Isotta, l’amore di Lancillotto per la sua regina Ginevra, la fedeltà dei moschettieri per la regina Anna d’Asburgo nel recupero dei famosi puntali. Insomma non c’è cuore che batte senza fragor di lame.
Motivazione escatologica: quale fine ultimo può essere annoverato come migliore rispetto a quelli verso i quali si protende con tutte le sue forze ed il suo ardore lo schermitore?! Essere agile, esser forte quanto è sufficiente, essere astuto e intelligente, essere coraggioso e paziente; un super uomo, quello migliore, direbbe Friedrich Nietzsche.
Motivazione etica: chi lotta correttamente come uno schermitore?! Chi adotta un codice così rigido: si ferma il combattimento se l’avversario solo perde l’equilibrio anche se non cade, se perde la presa della sua mano sull’arma o comunque in tutte le altre situazioni nelle quali non è in grado di difendersi; e dire che invece quest’ultima sarebbe proprio quella ideale per sferrargli contro l’attacco.
Motivazione comportamentale: prima e dopo il combattimento gli schermitori si salutano vicendevolmente e salutano anche chi dirige il match ed il pubblico eventualmente presente; lo fanno con la propria arma che portano al volto, ma lo fanno anche con un contatto fisico tra le mani: due parentesi di forma cortese che contengono una simulazione di aggressione.
Motivazione formativa: lo schermitore si addestra ad essere veloce, ponderato, determinato e risolutivo; tutte doti che vanno ad arricchire senza ombra di alcun dubbio il bagaglio comportamentale utile per affermarsi al meglio nella vita: in effetti il linguaggio comune parla del quotidiano come una continua guerra contro le situazioni e gli altri. Motivazione sociale: i cosiddetti sport di squadra affratellano chi due, chi cinque, chi sei, sino a 15 giocatori nel rugby; nelle sale di scherma siamo invece tutti fratelli in armi, dico tutti, senza distinzioni di sesso, età o valore agonistico. Potrei probabilmente continuare ancora con le mie elucubrazioni, ma non vorrei, se non l’ho già fatto, abusare della vostra pazienza.
Il fascino della scherma scaturisce da tutte queste sfaccettature del suo essere; un’esperienza veramente poliforme che cattura prima l’attenzione e poi col tempo letteralmente ti asserve sempre più.
Chi assiste per la prima volta ad un assalto di scherma, sia pur anche tra le pareti amiche di una sala, resta letteralmente annichilito: suoni, movenze e quant’altro esercitano per qualche istante una vera e propria ipnosi; è l’ancestrale ricordo della sfida per l’egemonia o addirittura per la sopravvivenza.
Non si può distogliere lo sguardo da questo mondo e, se lo prolunghi solo di un istante più del dovuto, poi non ne puoi fare più a meno per tutta la vita, se non con il corpo almeno con la mente.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2019
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Scherma e genitori
Chi ha figli che gareggiano a scherma, scagli la prima spada; così mettiamo subito le cose in chiaro!
Un terreno minato, il labirinto del Minotauro a Creta o i trabocchetti del tempio di Indiana Jones a confronto sono roba da prato per pic nic.
Ho avuto genitori (ovviamente), ho avuto figli ed ora ho anche nipoti, quindi devo stare molto attento anch’io.
Esordirei con una constatazione: se per i figli sei pronto addirittura a dare il tuo sangue, come si dice, cosa faresti perché, nel nostro caso specifico, potessero vincere una gara.
Il punto è uno e uno solo, inutile girarci intorno: mai dimenticarsi di essere degli educatori e i veri educatori non lavorano né per creare dei cloni ottusi, né possono vivere di luce riflessa. D’altra parte i giovani vanno istruiti e se un figlio si afferma certo ne gioiamo.
Ma, parlando in generale, la vera educazione, quella difficilissima da perseguire, è fatta soprattutto da contenitori e meno da contenuti.
Viviamo in una Società civile e quindi tra i compiti precipui del genitore ci sono innanzitutto quelli relativi ai rapporti: il rapporto con se stesso, perché questo è il vestibolo del rapporto con gli altri; il rapporto appunto con gli altri; quello con le prescrizioni, cioè il proprio dovere, il rispetto delle norme di qualsiasi tipo, dalle leggi dello Stato al codice della strada o al Regolamento della scherma; il rapporto con i superiori, che siano i genitori stessi, gli insegnanti scolastici o un maestro di scherma o a chi è demandata l’autorità in un qualche campo; il rapporto con gli obbiettivi più o meno raggiunti rispetto alle aspettative; il rapporto con l’esaltazione per una vittoria o un abbattimento per una sconfitta …e si potrebbe continuare ancora con molte altre tipologie di rapporti.
Qui possiamo e dobbiamo intervenire da buoni consiglieri e formatori: dobbiamo attivare nei nostri figli una RAM che tenga soprattutto conto dell’equilibrio tra gli opposti e che, sin da quando è possibile, contribuisca alla paziente costruzione di una loro personale capacità critica. Questo perché, ovviamente, certe decisioni sono i genitori a prenderle inizialmente, ma poi gli unici a potersi e a doversi esprimere su un qualcosa non possono essere altro che i figli.
E’ plausibile che un ragazzo provi a ad accostarsi alla scherma perché la mamma, il nonno o uno zio l’hanno praticata; è incredibile che la debba fare contro voglia, quando ancora non si può opporre e rifiutare. Col tempo smetterebbe comunque o, debole di carattere, diventerebbe, come sopra detto, un vuoto clone.
L’arte del genitore, quella difficile e vera, è di intervenire magari con piccole “spintarelle” in un senso o nell’altro, ma nulla di più: la sua statua interiore il ragazzo il più delle volte sa come costruirla, ma non gliela può certo costruire a suo piacimento qualcuno dal di fuori.
Quando parli di sport, subito ti rispondono in termini di vittorie esaltanti (certo non di sconfitte), di squadre titolate (nelle quali loro non giocano) o di cifre favolose spese per comprare questo o quel mercenario sportivo all’asta.
Ma lo sport che interessa a un genitore, diciamo a un vero genitore, è quello dal quale si aspetta che suo figlio innanzitutto si diverta a farlo e poi che venga allenato e preparato alla competizione che poi lo aspetta nella vita.
E, siccome non tutti i figli si chiamano Hans sono biondi e hanno gli occhi azzurri, i genitori si devono rendere conto che, nella nostra fattispecie, la scherma costituisce per loro uno sciroppo, una vitamina per aiutare la loro crescita anche interiore: ecco che un emotivo impara a dominare le proprie emozioni o, per contro uno sbruffoncello impara “qualche lezione”; ecco che un “lento” apprende a velocizzarsi o un ipercinetico a moderarsi e cos’ via.
I genitori dovrebbero essere eternamente grati alla paziente opera dei preparatori atletici che nelle nostre sale cercano professionalmente e amabilmente di “riempire i loro schemi motori”, aiutandoli in parallelo a “curare” eventualmente anche certi aspetti caratteriali. Gli istruttori ed i maestri poi li fanno entrare nel magnifico mondo della tecnica, tenendo, anche loro, sempre sott’occhio le componenti interiori dei loro figli.
Tutto bello, meraviglio, utile e ben pensato e impostato; ma poi c’è la competizione, ci sono le gare con coppe e medaglie.
Il rischio è che tutto quel di buono, che di concerto i genitori e professionisti della scherma approntano per i ragazzi, poi venga buttato in un istante alle ortiche: la vittoria trasfigura qualcuno e umilia qualcun altro. A corredo: contestazione agli arbitri, chiarimenti con i maestri e la Società, cicchetti più o meno larvati ai propri figli e quelli più sommessi e nascosti sono i più pericolosi, come la pubblicità subliminale.
E allora?! Allora rispolveriamo Pierre de Frédy, barone di Coubertin, più noto come Pierre de Coubertin e, una buona volta, citiamolo per esteso e non come piaceva a certa fuorviante intelighentia degli anni settanta: “L’importante non è vincere, ma partecipare” …mancava in effetti il completamento determinante del suo pensiero “con spirito vincente”.
Questa è la formula perfetta: adoperarsi attivamente per un qualcosa cui tutti ovviamente aspirano, la vittoria – il primato, ma l’essenziale è partecipare alla competizione, mettendocela tutta, come si dice; aggiungo espressamente io ciò che è implicito, “comunque vadano le cose”.
Sappiate, genitori, che la prima cosa che noi maestri cerchiamo di insegnare ai vostri figli è proprio imparare a perdere; in effetti chi può essere talmente stolto da credere di poter vincere sempre e per sempre. Noi sappiamo anche per esperienza che le virtù del combattente, in una parola la sua crescita, non si coltivano con le vittorie, ma soprattutto con le sconfitte: desiderio di rivalsa, voglia di riscatto e spirito di emulazione (e non gelosia e invidia che invece sono potenti freni a mano) sono molle che, se caricate al punto giusto, possono dare grandi soddisfazioni a tutti.
Ricordate, tra l’altro, come è proverbialmente facile e veloce cadere dagli altari alla polvere; rileggete, con la sensibilità di genitore, la favola del Brutto anatroccolo.
Sosteneteci, per quel che ci riguarda, ad aiutare i vostri figli a dare il massimo che possono dare; la Scherma è un fantastico coadiutore di crescita.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e immagini
La Storia, quella con la S maiuscola, non si può e non si deve mai tralasciare: in effetti come poter capire meglio l’oggi e come poter scegliere il miglior cammino verso il domani.
Già da svariati anni la nostra è diventata sempre più la Società delle immagini: ce ne sono per ogni dove e per ogni gusto; prima sotto i riflettori saliva una sparuta schiera di attori, di artisti in genere, i personaggi facoltosi del cosiddetto jet set, in coda naturalmente i protagonisti delle varie discipline sportive, naturalmente con il calcio a fare la primadonna. Oggi invece ognuno di noi si può fabbricare il proprio palcoscenico virtuale sul web e postare magari valanghe di immagini, fisse o in movimento.
Negli anni ’50, quando sono nato, i fratelli Lumière erano già morti e sepolti, ma di passi giganti il grande pubblico non li aveva ancora fatti nel regno della pellicola: sia per i costi relativi e soprattutto per il fatto che si doveva combattere ogni volta con l’otturatore!
Queste poche note le trascrivo affinché, come detto in esordio circa la Storia, si dia la giusta importanza e riconoscenza anche nel campo schermistico a queste ultime innovazioni tecnologiche.
In effetti le immagini ed i video, ognuno nel rispettivo campo, offrono dei benefit non indifferenti.
Le immagini, come ben ci insegna purtroppo l’asfissiante incombenza della Pubblicità nel quotidiano, catturano l’attenzione, la indirizzano e in certi casi addirittura la condizionano. Comunque costituiscono anche dei mezzi eccezionali per illustrare e spiegare concetti e funzionamenti; cosa sarebbe rimasto di Leonardo da Vinci, se, assieme a tutte le sue altre virtù, non avesse posseduto il dono del disegno?!
Basta aprire un trattato di scherma, non dico di un paio di secoli fa, ma di qualche decennio addietro, per capire come una fotografia esplichi oggi in modo più diretto e particolareggiato le diverse posture tecniche sia del corpo nel suo insieme che del braccio armato; magari i modelli non sono più virilmente a petto nudo come nella maggior parte dei disegni, ma la realtà delle immagini costituisce senz’altro un migliore viatico per l’insegnamento.
Le fotografie poi, soprattutto quelle più belle, approfittando dei vari social fanno in un battibaleno il giro del mondo è contribuiscono non poco alla divulgazione della nostra disciplina, continuamente alla ricerca di nuova linfa per i suoi quadri societari.
Inoltre le immagini comuni a tutti gli appartenenti ad un club, pubblicate su un apposito luogo informatico, fanno gruppo, fanno coesione; ognuno si sente una parte del tutto e questo dà forza all’associazione: fa conoscere all’esterno la felicità e la gioia di essere schermitore tra gli schermitori di una stessa bandiera.
Le foto dei campioni di oggi, al pari di quelle dei calciatori di quando ero bambino, fanno ancora sognare e svolgono una grande missione nel campo della propaganda della nostra disciplina. Probabilmente ai tempi odierni gli autografi dei fuoriclasse sono meno richiesti: in effetti molto meglio e coreografico un selfie con loro.
Ci sono poi le foto ufficiali, quelle che certificano una vittoria, una premiazione, la consegna di un riconoscimento o quant’altro; lo scatto del diaframma cattura e cristallizza per sempre l’espressione di un sentimento e te lo fa rivivere tutte le volte che vuoi.
Parliamo ora dei video, quelli che ai miei tempi con termine alquanto riduttivo chiamavamo filmini, 8 o super 8 che fossero.
Il video non è qualcosa di più rispetto alla fotografia: sono due ambiti bel distinti e anche se un film, come sappiamo, non è altro che una veloce successione di fotografie, esso rappresenta la realtà appunto non nella sua frammentarietà ma nella sua natura dinamica.
Numerose e molto utili sono le applicazioni che può sfruttare la nostra Disciplina.
Esordisco, come del resto ho fatto per le immagini, con l’aspetto didattico: nessuna successione di disegni può esplicare meglio di un video la dinamica di un’azione schermistica. La realtà in questo caso non è virtuale: ci sono due schermitori reali che impugnano armi reali e che effettuano precisi movimenti, entrambi consoni al proprio ruolo, uno di messa in campo di un presupposto e uno di effettuazione della relativa contraria; le migliori realizzazioni offrono addirittura almeno un paio di ottiche per poter meglio osservare il dettaglio dei movimenti e un commento vocale può offrire tutte le specificazioni del caso. Ovviamente dopo la lezione pratica effettuata direttamente con il maestro, questi video costituiscono un utilissimo mezzo didattico accessorio.
Nell’ambito tecnico il metodo del filmato ha un’altra interessantissima applicazione: parlo della possibilità che un atleta ha di osservarsi all’opera, cioè quando combatte sulla pedana contro il suo avversario di turno. Prima erano solo le fidate parole del maestro che lo mettevano in guardia (!) circa errate posture o esecuzioni tecniche; ora, grazie appunto alle immagini, lo schermitore non ha più alibi e, osservandosi direttamente, può dettagliatamente cercare di apporre correttivi ai suoi più marcati discostamenti dal canone.
Se già le immagini hanno, come abbiamo detto poco sopra, una grande valenza propagandistica, i video certamente non lo sono da meno. Nell’immaginario collettivo, anche e soprattutto da parte di chi di scherma non sa nulla, restano impressi gli ultimi istanti di una stoccata che regala all’Italia una medaglia mondiale, vieppiù se olimpica. Scattano i noti meccanismi mentali del transfert e dell’emulazione ed ecco che la Scherma ha nuovi ed entusiasti neofiti; sta poi alle Società l’abilità di accogliere e fidelizzate il pubblico che affluisce da questo indubbiamente ricco canale (vedasi le statistiche dei nuovi iscritti in tutti gli anni post olimpici).
Il progredire della tecnologia in ambito video ha poi da alcuni anni fornito un prezioso ausilio tecnico in sede arbitrale. Questa non è la sede opportuna per dibattere la questione se l’inserimento del VAR schermistico abbia più aspetti postivi rispetto a quelli negativi o, secondo altre le opinioni, il contrario. Tuttavia, oggettivamente, non si può disconoscere l’utilità pratica di questo nuovo mezzo che, attraverso il rallentamento delle immagini, può dirimere certi dubbi che possono venire ad ingenerarsi sulla pedana durante lo svolgimento del match: parlo non solo e tanto dell’analisi dei movimenti e/o delle posizioni del braccio armato o delle gambe al fine della ricostruzione della frase schermistica convenzionale in armi veloci come il fioretto o super veloci come la sciabola; parlo della verifica dei cosiddetti mal-paré; ma anche dell’eventuale illecito utilizzo del braccio non armato, delle chiusure non consentite e di quant’altro può essere sfuggito nel convulso svolgersi delle azioni.
Continuando; quanto i mezzi tecnici, nella fattispecie quelli informatici, siano stati utili nella triste contingenza della pandemia dovuta al coronavirus sono sotto gli occhi di tutti: nel mondo si sono diffusi gli allenamenti tramite la produzione di specifiche lezioni realizzate in video, ovviamente soprattutto aventi come oggetto la preparazione atletica e quella pre-schermistica; sono state prodotte anche numerosissime video conferenze per trattare nello specifico anche argomenti tecnici, soprattutto per non far venir meno l’amalgama personale che è una specifica caratteristica della sala di scherma e anche per dare un esempio positivo di reazione alle avversità contingenti.
La Federazione Italiana Scherma e altri operatori, tra cui modestamente cito anche me, si sono dati da fare per organizzare, sempre tramite l’utilizzo dello streaming, numerose occasioni per parlare non solo di scherma nel senso classico, ma anche di argomenti correlati: dalla storia della scherma antica, alle armi dei secoli passati …per arrivare ai film di cappa e spada! Tutto fa brodo (leggasi scherma), recita un vecchio proverbio.
Infine immagini e video rappresentano ormai anche nel nostro mondo un utile e remunerativo veicolo pubblicitario e, siccome notoriamente pecunia non olet, il nostro movimento riesce sempre più a trarre vantaggio, sia a livello federale che societario, da questa indispensabile fonte alternativa di sostentamento.
Quindi, doverosamente, W le fotografie e W i video.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e insegnamento
Trasmettere la conoscenza è uno dei più importanti e fondamentali compiti dell’uomo: in effetti il progresso è reso possibile solo da questa staffetta culturale tra le generazioni che si avvicendano sulla Terra.
Insegnare è anche un assoluto atto d’amore in quanto l’insegnante, travasando nel discepolo il suo sapere, rinuncia ad averne l’esclusiva, cedendo invece il potere che ad esso è intimamente connesso.
Il docente di una determinata disciplina non si limita poi a trasmettere solo contenuti strettamente tecnici: fornisce anche una loro chiave di lettura, li inquadra in una visione storica, li inserisce in una visione ampia con i settori di scibile limitrofi; in una parola concorre alla formazione globale dell’individuo.
Se tutto ciò vale, ad esempio, per materie come la Fisica, la Letteratura e la Filosofia, passando all’insegnamento di una disciplina come la Scherma, è intuibile quanto si allarghi il ponte tra maestro e discepolo: oltre la teoria e la sua applicazione pratica, nel nostro caso, si tratta anche di inserimento delle nozioni in una realtà dinamica (cambiamento posturale dell’intero corpo e del braccio armato in specie), si tratta di farlo in contraddizione con l’avversario (ecco la ricerca della contraria e, nell’altro fronte, della difesa contro le sue iniziative d’attacco) e di farlo in competizione con lui (il fine è quello del buon esito del singolo colpo e, come consuntivo, il raggiungimento della vittoria).
Partendo da una tabula rasa, il maestro deve pazientemente costruire una teorica macchina da guerra (sigh!): sviluppo, cognizione e introiezione di tutte le nozioni tecniche della teoria schermistica, capacità di realizzare al meglio posture e movimenti del corpo e del braccio armato, elaborazione di un’idonea tattica per realizzare una stoccata vincente costruita sull’avversario, realizzazione di una strategia atta al conseguimento della vittoria finale.
Questi i numerosi contenuti oggetto dell’insegnamento della scherma. Essi vanno poi calati nel tessuto emotivo e caratteriale che contraddistingue la personalità di ciascun allievo, unitamente alle sue caratteristiche psicofisiche; in altre parole il maestro deve relazionarsi camaleonticamente con le diverse tipologie di discepoli. Per di più, evolvendosi e crescendo col tempo l’allievo, il maestro deve sempre più valorizzare le sue personali potenzialità e le sue scelte, mutandosi in vero e proprio consulente e confidente dell’allievo, rispetto al quale, grazie alla sua personalità, assume un ruolo di riferimento e autorevolezza.
La nostra disciplina, lo abbiamo detto altre volte, è una sintesi tra scienza ed arte.
Scienza perché le posture vengono condizionate da alcuni principi della Fisica, come ad esempio l’equilibrio del corpo,l’energia potenziale da immagazzinare nelle gambe, o perché nel rapporto tra le lame interviene la meccanica delle leve, del cuneo e della divergenza; scienza perché i colpi vibrati dagli schermitori percorrono traiettorie geometriche su piani che s’intersecano.
Arte perché lo scontro viene calato nelle personali caratteristiche psicofisiche dell’atleta e quindi nelle sue scelte più o meno indotte che ne derivano; oltre alla possibile personalizzazione dei colpi.
Ecco quindi il gravoso e delicato impegno dell’insegnante di scherma: miscelare questi due ambiti del tutto antitetici e fonderli in quell’unicum che risulterà essere il modo di combattere del singolo allievo. Michelangelo andava sostenendo di non scolpire le statue, bensì andava liberandole dai blocchi di marmo che le contenevano e ne ha lasciato splendidi esempi alla Galleria dell’Accademia di Firenze appunto con i quattro “prigioni”. Ebbene il maestro di scherma fa altrettanto: tira fuori da ogni allievo il combattente che giace in lui.
Inserisce in un ideale shaker le doti fisiche, le capacità coordinative e quelle condizionali, la personalità in senso lato, annaffiando abbondantemente con tecnica, tattica e strategia ed ecco lo schermitore; prima, con molta pazienza, in nuce, poi, col passare del tempo, sempre più evoluto, sino a trovare la sua dimensione espressiva; si parte da un bastone in mano, sino ad arrivare ad avere un pennello.
Poi tanta capacità di osservazione durante lo scambio dei colpi sulla pedana da parte dell’allievo al fine di affinare e personalizzare la lezione da impartirgli, tanta attenzione per la costruzione da parte dell’allievo di un sistema automatico di analisi e risoluzione dei problemi connessi allo svolgimento del match e tanta carica agonistica e autostima da far crescere nell’allievo (ma non eccessiva, perché già i presocratici motteggiavano, fra l’altro, “Nulla di troppo”).
Quanti semi, di differente natura, il maestro innesta nell’allievo: poi sta a guardare i germogli, zappetta ed annaffia i giovani virgulti come nei più curati orti.
Quanta fatica, cominciando da come s’impugna un’arma, dall’impostazione della guardia e dai passi avanti e indietro e dell’affondo, ma poi …quanta soddisfazione!
Poi ogni schermitore ha una propria storia: c’è chi inizia in un grande club di una grande città e in genere si relaziona sempre ad un maestro, invece c’è chi comincia in un centro minore e a un certo punto è costretto ad emigrare e quindi si affida alle cure di un altro insegnante. C’è qualcuno, come rari campioni di calcio, si affeziona ad una città, c’è invece chi tenta la strada del professionismo e trova di conseguenza nuovi “colori” per i quali combattere. …ed il maestro che ti ha messo in guardia, ti ha insegnato l’affondo e la parata di quarta finisce nell’album dei ricordi (C’est la vie!).
Gli allievi non sono certo dei figli, ma poco ci manca: le bambine presto e velocemente diventano donne e i bambini li senti passare all’improvviso dal falsetto ai più maturi suoni quasi cavernosi della voce, per non parlare dell’insorgere della peluria antesignana della barba. Molti li perdi senza che nemmeno vengano a salutarti per l’ultima volta, ma non per questo li scordi prima; qualcuno magari diventa un campione o quasi e ti fa inorgoglire, ma a tutti hai donato una parte di te stesso, insieme alla fatica, e per anni rivedrai i lori volti, magari senza la compagnia dei rispettivi nomi.
Insegnare è un’attività meravigliosa, essere maestro di scherma di più!
M° Stefano Gardenti
a Firenze, nel giugno del 2018
Scherma, grammatica e sintassi
Avete mai sentito il termine “fraseggio schermistico”? Ma cosa vorrà mai significare rapportare la nostra disciplina con il linguaggio?
Io ci provo.
Cosa può mettere in relazione il colloquio tra due persone con l’incrociare il ferro con l’avversario?
Innanzitutto il fatto che si tratta di un rapporto tra due entità che si confrontano per raggiungere la propria affermazione: che nella scherma esse competano tra di loro non c’è alcun dubbio, ma anche nel confronto vocale quasi sempre l’origine consiste in una divergenza di idee.
Secondo punto: il confronto avviene in ossequio ad un rituale più o meno stabilito e riconosciuto da entrambe le parti, altrimenti nell’un caso e nell’altro si tratterebbe solo di una rissa, ovvero di una cieca sopraffazione senza stile né costrutto. Nella scherma siamo avvantaggiati perché esiste uno specifico Regolamento che tende ad ingabbiare atteggiamenti e comportamenti, mentre nelle cosiddette discussioni tutto è demandato al grado di educazione (ahimè, il più delle volte assai deficitario) degli individui che partecipano al confronto. Sulla pedana vigono l’osservanza di tempi (a-voi / alt), di spazi (limiti della pedana), di situazioni (corpo a corpo); nei confronti verbali lo schema dovrebbe consistere, partendo da una certa ipotesi, nell’esposizione di una o più tesi, nello studio del rapporto tra di esse e nella loro confutazione; tanto è che il linguaggio comune parla anche di “duelli verbali”.
Ma il punto veramente interessante è quello del rapporto in senso stretto tra tecnica schermistica e tecnica linguistica, ovvero tra un trattato di scherma ed un libro di grammatica e sintassi.
In prima istanza: il trattato elenca tutta una serie di movimenti, lineari circolari o quant’altro, ipotizzabili nel rapporto tra le lame dei due schermitori sulla pedana; il libro di grammatica, in parallelo, espone l’insieme delle convenzioni che danno stabilità alle manifestazioni espressive nella lingua parlata.
In seconda istanza: il trattato di scherma descrive lo sviluppo di azioni (semplici o complesse che possano essere) che definiscono aprioristicamente un iter geometrico avente lo scopo di raggiungere il bersaglio avversario o, al contrario, di proteggerlo; il libro di sintassi, in parallelo, si riferisce alla costruzione della struttura della frase lessicale tramite il soggetto, il predicato nominale ed i complementi.
Quindi, in modo stupefacente, nel tirare di scherma e nel parlare per affermare una propria convinzione rispetto ad un’altra si utilizzano stessi elementi e stessi modi per organizzarli.
Volete qualche esempio pratico?
Quando si vuole andare subito e direttamente al nocciolo di una determinata questione, senza perdersi quindi in preamboli e giri di parole, non si esegue forse lessicalmente una botta dritta?!
Quando invece si decide di non scoprire subito le proprie intenzioni e restiamo nel vago per saggiare le opinioni dell’altro interlocutore, non applichiamo forse lo strumento dello scandaglio che lo schermitore utilizza per conoscere le caratteristiche del suo avversario?!
Quando le motivazioni addotte da chi non la pensa come noi sono esposte senza convinzione o timidamente, siamo o non siamo nella condizione di poter prendere con autorità la conduzione del discorso e di cercare di condurlo dove più ci è congeniale? E questa non è concettualmente un’uscita in tempo, cioè una metodologia di condurre lo scontro, attaccando chi ti attacca in un determinato modo?!
Quando vogliamo distogliere l’attenzione da un certo tipo di argomentazione e ne solleviamo una o più altre, non eseguiamo forse un’azione con finta?!
Quando magari facciamo parlare a lungo l’interlocutore, attendendo l’istante giusto per dire la cosa giusta, non applichiamo forse il concetto dell’azione “in tempo”, così cara e utile sulla pedana per lo schermitore!
Quando, discutendo, andiamo colpevolmente fuori tema e quindi non otteniamo alcun risultato dalle nostre argomentazioni, la situazione non è forse simile a quando il fiorettista colpisce in “bersaglio non valido” o lo sciabolatore non fa accendere alcuna luce sulla macchina segnalatrice delle stoccate?!
Quando nella fattispecie, magari avendo ragione, non riusciamo a dare alle nostre argomentazioni il giusto peso e la giusta forza, non riproduciamo forse la stessa situazione di uno schermitore che attacca e finisce fuori bersaglio?!
Ma le similitudini sono confermate anche uscendo dalla minuta tecnica e soffermandosi invece sui rapporti psicologici e su temi più di strategia che di tattica.
“Con lui non comincio nemmeno a parlare, tanto è più bravo di me a controbattere le mie idee”; ma non si raffigura così la celebre “bestia nera” che molti schermitori hanno purtroppo più nella propria testa che sulla pedana?!
“Con lui non ci parlo perché a tutto un suo modo di condurre la discussione e io non ci capisco nulla”; ma non è forse questa la “paura del mancino” che molti schermitori (immotivatamente) hanno?!
“ Con lui non discuto, perché scommetto che mi mangia vivo”; non è forse lo stato d’animo con il quale il più delle volte si affronta sulla pedana un campione blasonato o comunque un avversario molto forte?!
“ Con le sue argomentazioni mi sfinisce e, per farla finita, gli do ragione”; ma non è forse il più palese modo di riconoscere che l’avversario ha realizzato la giusta strategia per vincerti?!
“ Parliamo, litighiamo sempre e spesso prevarichiamo ” …ma questo non ci fa capire che nella vita ci vorrebbero più arbitri come ai bordi delle nostre pedane, magari anche con la moviola?!
Queste sono le connessioni tra scherma e linguaggio che mi sono venute alla mente; sicuramente ce ne sono numerose altre. Perché non arricchite voi la serie delle similitudini, inviando del materiale da pubblicare sul sito?
M° Stefano Gardenti
a Firenze, aprile 2018
Scherma e Maestro
Oggi, per fortuna, le sale di scherma sono molto più frequentate di qualche decennio fa: si è evoluta la Società Civile e si è capito quanta importanza abbia un’attività sportiva nella costruzione dell’uomo contemporaneo; di conseguenza si sono affinate le tecniche per divulgare la nostra disciplina tra i più piccoli e con la creazione dei master la scherma ormai non ha più età.
I club, chi più chi meno, ormai si avvalgono della collaborazione non solo dei maestri di scherma, ma anche di istruttori e preparatori atletici.
Prima non era così: in sala c’era solo “il” maestro” e, solo in caso di pochi grossi Circoli, c’erano “i maestri”; il sistema era quindi assolutamente maestrocentrico. Il francese Re Sole con molta probabilità aveva meno potere (la salle c’est moi!).
E gli allievi erano i sudditi: obbedienti, fedeli e riverenti; tutti affascinati da colui che risultava essere il detentore del sapere assoluto.
Di solito i maestri erano piuttosto burberi, ma certamente non cattivi: era un habitus dell’epoca in generale, figuriamoci in un ambiente come la scherma! Cattivi no, ma, all’occorrenza, alquanto sadici: “alla gara ti ho visto tirare malissimo, vieni qui che ce la caviamo con un paio di orette di lezione – hai fatto lo spiritoso, ora in lezione ti faccio sparare quattrocento affondi o forse di più – cos’è tutta questa confusione in sala, non si tira d’assalto per tre giorni – e a scuola come vai?”
Ma si superava ogni limite con la preschermistica, l’unica conoscenza posseduta dalla classe magistrale dell’epoca circa la preparazione atletica; al confronto la durissima preparazione dei marines sembrava un gioco con la Barbie. Più gli schermitori sudavano e sbuffavano, più si faceva bene; e si finiva con la preschermistica solo dopo che un paio di ragazzi si erano letteralmente accasciati esanimi al suolo. C’è ancora chi, dopo tanti anni, la sogna la notte!
Poi nelle sale di scherma c’è stata la rivoluzione francese: non più il monarca assoluto, ma un direttorio composto dallo stesso maestro (un po’ declassato), dagli istruttori di varia categoria e nomea nati numerosi come nei più favorevoli giorni di raccolta dei porcini nei boschi e dal preparatore atletico, vera e propria classe ascendente. E così ora c’è chi si occupa della mens sana e chi invece del corpore sano.
Indubbiamente la figura unica del maestro ha ceduto il passo ad una specie di diarchia di memoria spartana; ma diciamo la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, cioè che prima il maestro, nella maggior parte dei club, era un tuttofare: naturalmente insegnava, poi si occupava del materiale, faceva il segretario e raccoglieva le quote, mandava le iscrizioni alle gare e talvolta persino ramazzava la sala. Ora invece è un professionista, uno specialista e le faticose fasi di iniziazione dei neofiti, cioè la bassa manovalanza e la grande pazienza iniziale, le affida il più delle volte ai suoi apprendisti, cioè agli istruttori. Forse è giusto così.
Ma guardiamo questa figura con occhi di allievo. Giubba nera (così si può lavare meno spesso), voce autoritaria, comandi brevi e concisi difficilmente appellabili (“vieni a fare lezione” – “oggi non si tira di assalto (sigh!)” – “vieni che ti sistemo io e similari”; onnipresenza in sala, anche con febbre e raffreddore. Così, in genere, noi di una certa età ci ricordiamo il nostro maestro. Certamente anche sorrisi e pacche amichevoli e confidenziali sulle spalle, ma soprattutto la considerazione che lui è il maestro di tutti e lo puoi sentire tuo solo per un istante, una minima parte.
Progressivamente ti fa apprendere la tecnica dall’α all’Ω, assieme anche suggerimenti tattici e strategici; gli devi tutto, perché sei entrato per la prima volta in sala ed eri ovviamente tabula rasa; ora più passano gli anni e meno spazio hai per annotare qualcosa di nuovo.
Strana sensazione la tecnica: all’inizio ti sembra sconfinata, poi, se il maestro è abile a inquadrartela in un sistema, non è poi così estesa come poteva sembrare. Importante è capire che un concetto, ad esempio la finta circolata, si può applicare in quattro diverse modalità, cioè i quattro bersagli a cui può essere indirizzata; ed ecco così che, per concetti e non per nozione singola, riduciamo il nostro archivio ad un quarto dello scibile. Poi la cosiddetta frase schermistica per la maggior parte dei casi è una specie di corridoio stretto: da un presupposto sia arriva ad un gesto e da questo ad un altro geometricamente indotto; ed anche in questo modo, quasi sempre, la teoria schermistica proprio per la sua marcata consequenzialità è facilmente ritenibile. E tutte queste conoscenze le devi al Maestro, che, in particolare serve:
a svelarti la teoria della tecnica: da come si impugna un’arma sino alla finta in tempo, che in genere è l’ultimo argomento trattato dai trattati (!);
a frazionare la tecnica di un gesto nelle sue componenti: ad esempio nell’affondo si deve iniziare con l’allungamento del braccio armato, seguito poi dall’uso delle gambe, i piedi devono …eccetera, eccetera;
a farti prendere confidenza esecutiva su quello che stai apprendendo: ti aiuta a rispettare il canone schermistico e a fartelo eseguire al meglio delle tue possibilità;
ad aiutarti a rendere applicabile nella realtà dello scontro quanto hai appreso in teoria: rispetto della misura, osservazione dell’avversario ed elaborazione della contraria;
a controllare il tuo carattere durante lo scontro sulla pedana: ti deve sollecitare se sei titubante oppure ti deve frenare se al contrario sei troppo impulsivo;
a farti diventare esperto tramite le tue esperienze di pedana, perché ti sollecita in ogni frangente a renderti conto di cosa succede e ad archiviare per tipologia gli accadimenti a futura memoria;
a instillare in te la voglia di combattere e, se possibile, di vincere; ma vincere senza sotterfugi e imbrogli, sempre e comunque a testa alta;
a capire, in un giorno del tuo percorso di crescita, che ormai sei giunto ad essere autonomo e quindi potrai essere destinatario solo di consigli e proposte.
Alla fine, svuotato di tutto il suo sapere, il maestro continuerà comunque ad essere ancora indispensabile: dovrà mantenerti in forma per quanto concerne la registrazione e la velocizzazione del gesto tecnico.
Allora, consentitemi: “Grazie maestro”.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre 2018
Scherma e movimento schermistico
Nell’ultimo cinquantennio la Società si è sviluppata ed è mutata profondamente: la differenza tra le classi sociali si è, almeno apparentemente, attenuata; dopo la conquista del quotidiano si è fortunatamente giunti a quella del superfluo, tanto caro a Tommaso d’Aquino.
In questa evoluzione sono state scoperte e ancor più valorizzate le diverse attività sportive quali efficaci strumenti per il beneficio fisico e mentale della persona.
Anche la scherma, sconfiggendo definitivamente alcuni pregiudizi e preconcetti che l’avevano appesantita di falsa zavorra di natura ideologica, ha potuto beneficiare di questa crescita generalizzata della cultura sportiva.
Se penso al numero esiguo dei club, al modestissimo numero dei tesserati, al numero di gare che si disputavano annualmente ai tempi della mia gioventù, non posso altro che essere grato al lavoro della nostra Federazione e di tutto il movimento, che con fatica – intelligenza e capacità ci hanno traghettato in questa odierna modernità.
Le sale di scherma (se siete amanti dei boschi apprezzerete l’espressione) stanno nascendo come funghi, i tesserati si stanno moltiplicando e di competizioni ce ne sono talmente tante che uno schermitore potrebbe guerreggiare di fine settimana in fine settimana per mesi interi.
Vera felicità per chi ama e apprezza la scherma: avere tantissimi amici-nemici da sfidare in sala o in gara, una ghiotta opportunità di fare un piacevole turismo sportivo per le trasferte, libero croma sull’equipaggiamento e nell’habitat al posto dell’ospitaliero bianco dominante prima, sacca delle armi con rotelle che scusate non è certo poco, utile tecnologia da tutte le parti: tutte le specialità con segnalazione automatica, via il cavo del rullo, arbitro con telecomando in mano, moviola e quant’altro.
Verissimo; ma non è tutto oro quello che luccica, ci ammonivano gli antichi.
In effetti ogni crescita quanto più è grande, se non appositamente controllata e indirizzata, il più delle volte rischia di produrre un qualcosa di scomposto, di non perfettamente funzionale; basti pensare a questo proposito alle nostre città come si sono sviluppate in modo disarticolato prima che fosse deciso per legge di produrre un piano regolatore.
A questo proposito c’è un primo argomento da affrontare, quello della nascita di un nuovo club.
Niente di più entusiasmante e corroborante quando la nuova sala di scherma sorge in un territorio dove prima non c’era; d’altra parte, se la montagna non va da Maometto, allora Maometto va alla montagna. Indubbiamente ci vogliono volontà, capacità e coraggio per far sorgere un qualcosa dal nulla; comunque i non buoni tempi che corrono attualmente nel mondo del lavoro inducono chiunque sia in possesso di una propria arte a farsi parte diligente e a diventare imprenditore di se stesso. Andare direttamente su nuovi territori non può altro che essere proficuo per il nostro movimento; tra l’altro nessuna pubblicità potrebbe sortire un effetto migliore e più mirato.
La questione è invece di tutt’altro segno quando un nuovo club nasce per volontaria e dolorosa partenogenesi da un altro club; lasciando perdere le motivazioni che hanno portato a un così grave atto, ovviamente ne discendono gravi conseguenze.
Gli allievi si separano e qualche allievo si separa dal maestro, mentre, notoriamente, l’unione fa la forza. In effetti diminuiscono le possibilità di incontrare in pedana una tipologia di avversario e quindi di allenarsi più proficuamente; ne deriva quindi un danno di natura tecnica. Inoltre gira più lentamente il volano delle amicizie e magari dello spirito di emulazione, sostituito invece talvolta da un brutto clima di sospetto e conflittualità latente tra ex amici. Questo atteggiamento, a mio ricordo, purtroppo c’è sempre stato nella scherma, anche se i tempi di ristrettezza economica anche pre – coronavirus sono un brodo di coltura molto gustoso per i novelli Bruto: mi torna in mente di aver sentito la dolorosa frase del vecchio maestro nei confronti dell’ex collega più giovane e scalpitante: mi sono allevato una serpe in seno.
A mio parere, sarebbe necessario gestire il fenomeno in tutt’altro modo, cercando di anticipare certe potenziali pulsioni negative: un club, soprattutto di capoluogo provinciale, dovrebbe farsi parte diligente e cercare di ramificarsi nei territori metropolitani contigui, utilizzando il proprio personale tecnico per la creazione di gruppi sportivi o comunque per l’organizzazione stabile di corsi schermistici. In tal modo il club accrescerebbe non di poco il suo bacino di raccolta di nuove utenze e, a suo tempo, promuoverebbe indolormente lo spostamento dalla periferia al centro. Del resto mi risulta che questo tipo di meccanismo sia ampiamente utilizzato nel mondo del calcio, in quello della pallacanestro e probabilmente anche in altre discipline.
Un secondo argomento da affrontare è quello che riguarda i cosiddetti atleti di Stato.
La nota storia è questa: per anni un club si adopera dispendiosamente per la crescita agonistica di un atleta, poi, se ha le carte in regola, questo atleta viene arruolato nel gruppo sportivo di qualche corpo dello Stato del quale diventa un dipendente stipendiato; quindi recide il cordone ombelicale con le origini e prosegue per un’altra strada.
Siccome le cose si sono evolute nel mondo in un certo modo, certamente non si può dar torto a chi, avendone i giusti meriti, può fruire di un duplice vantaggio: il primo, visti i tempi che corrono, di assicurarsi, almeno per un certo periodo, un più che decoroso posto di lavoro; il secondo di potersi allenare il più delle volte in una sala di livello tecnico più elevato rispetto a quella di origine.
Indubbiamente introducendo il professionismo nella scherma, anche se a dire il vero giuridicamente in Italia tali atleti, in modalità alquanto bizantina, non sono epitetabili in tal modo, dicevo introducendo il professionismo sono insorti vari problemi; dei quali uno l’abbiamo testé affrontato, cioè il distacco dal club di origine; l’altro, di natura prettamente sportiva, rappresentato dal fatto che alle competizioni poi vengono mescolati tra loro i cosiddetti professionisti con tutti gli altri.
La Federazione, con interventi di varia natura, ha cercato nel tempo non dico di risolvere definitivamente, ma almeno di mitigare gli effetti di entrambe le problematiche: purtroppo esse sono molto simili a quelle affrontate dai matematici nel tentativo della quadratura del circolo o della trisezione dell’angolo.
Siccome tutto il mondo, compreso quello della scherma, è in continuo movimento e quindi in continuo cambiamento, la viva speranza è che quanto prima insorgano nuove condizioni e situazioni, che rendano possibile agli organi competenti una risoluzione sempre più tendente al meglio di queste indubbie contraddizioni.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e palazzetti & affini
Vi devo subito confessare che ho sbagliato il titolo di questo articolo quando parlo di “palazzetti”. Negli ultimi decenni, invero, le manifestazioni schermistiche, diventando fortunosamente sempre più con numerosa anzi numerosissima partecipazione, sono state organizzate opportunamente in grandi strutture, appunto i cosiddetti palazzetti di cui parlavo poco sopra.
Ai miei tempi, diciamo con buona approssimazione tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, le cose non andavano precisamente così.
Eravamo molti in meno a fare scherma e ancora meno a partecipare alle gare; sì, avete capito bene: non tutti gli iscritti ad una sala andavano alle competizioni, piccole o grandi che fossero.
“Ma allora cosa venivano a fare in sala?”, può pensare qualcuno di voi; sinceramente non lo so neanche io e il bello è che la domanda non me la sono mai posta; probabilmente si divertivano così. Per contro, oggi, se non guerreggi, ti buttano fuori senza stare a sentir ragioni. E’ proprio vero: la Storia passa da un estremo all’altro, così, irrazionalmente.
Comunque con pochi partecipanti, quali appunto eravamo, i primi palazzetti …sono state le nostre stesse sale di scherma, ovviamente quelle più grosse, quindi con un maggior numero di pedane. Alcuni di noi quindi erano avvantaggiati dal fattore campo: quella pedana ha una depressione in quel punto, quel rullo non recupera bene il filo, quella macchina segnalatrice qualche volta si incanta; poi niente sacca da scherma e altri orpelli, perché c’era già tutto nel tuo armadietto.
Qualche volta cambiava la sala e andavamo in trasferta e le parti si ribaltavano; ma, pur sparse per la regione, le sale erano le solite e, dopo tante volte, ci saremmo arrivati anche bendati. Cosa diversa era per i Campionati nazionali che si celebravano ogni anno: la trasferta era d’obbligo e anche il palazzetto, visto che il numero dei partecipanti in questo tipo di gara saliva e di parecchio.
Gli anni intanto passavano e il movimento schermistico cresceva sempre più: in effetti gli organizzatori furono costretti a passare dai palazzetti alle sedi delle fiere: ricordo con affetto quella di Rimini e con nostalgia la fiera del mare nel porto di Genova. Locali enormi, ovviamente gelati nei mesi invernali, spesso lontani da tutto, ma le gare più grosse le ho fatte proprio lì.
I tempi cambiavano e anche le strutture: nacquero alcuni poli schermistici con sale di scherma tipo cattedrali: così a Savona, a Jesi e anche a Firenze, nella mia città; parecchie gare ovviamente confluivano in queste nuove realtà e presto fummo in tanti a sentirci a casa propria, quasi quanto i veri iscritti.
Quando cominciai ad andare a competere anche all’estero le prime sorprese: palazzetti con il parquet, ovviamente in vero legno – grandi sale come a Parigi o a Budapest dove, oltre la stranezza di vedere i fili dei rulli (che appunto non c’erano) penzolare dal soffitto, potevi tranquillamente andare al bar o fermarti a cena – alla struttura in Polonia con tanto di piscina e pista di atletica annesse – addirittura nel castello a Poitier, dove era stata prigioniera la sfortunata pulzella di Orléan.
Tornando in Italia, vi confesso che ho anche fatto gare in sale – cantina, pulite, ma sempre cantine; ho fatto gare anche sotto la pista del velodromo Vigorelli a Milano e sentivamo passarci le biciclette dei velocisti sulla testa – ho fatto gare ad Albarella, all’epoca centro nautico esclusivo del Veneto: talmente esclusivo che con una terza un po’al di sopra della spalla ho staccato di netto un grosso pezzo ad un lussureggiante lampadario di vetro di Murano, pezzo celato con l’aiuto dell’arbitro sotto una tenda a fianco della pedana; ho fatto gare la sera d’estate nelle piazze di più di un paese; ho fatto gare ai bordi della piscina del grande albergo Villa d’Este di Cernobbio sul lago di Como, dove a quei tempi per un pernottamento dovevi pagare quasi un milione di lire …e forse la colazione del mattino era esclusa; ho tirato di scherma in prestigiosi locali come la ultrabicentenaria Società del Giardino di Milano all’ombra della Madunina, ho tirato nelle sontuose stanze del Circolo della Stampa sempre a Milano e ho guerreggiato anche nelle sale della Societ° Famiglia Meneghina nei pressi del teatro alla Scala.
Oggi la scherma in genere si fa in Palazzi dello sport immensi: tutto è grande e funzionale, tutto è pulito e lindo, tanto che nei bagni e nelle docce al limite ci puoi anche fare un pic nic. Gli schermitori di oggi non sanno dei nostri iniziali stenti logistici e dei piccoli passi che abbiamo mano a mano compiuto con tutto il movimento schermistico nel corso di tanti anni: loro conoscono soltanto le odierne cattedrali che li ospitano per le loro gare e questo anche a noi, che pur non tiriamo più, fa tanto piacere; ma, girando la nostra testa indietro, vediamo le tante nostre Porziuncole sportive e quella immagine ci scalda veramente il cuore.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel giugno 2019
Scherma e pedana
Gli schermitori devono fare attività sulla pedana: ovviamente le gare, ma anche le lezioni, gli esercizi e attività affini. Talvolta però, per la cronica scarsità degli impianti, il maestro ti impartisce la lezione sul pavimento della palestra, ma si percepisce un certo disagio: ci si sente come un maratoneta con la scarpa slacciata, un ciclista con una gomma un po’ sgonfia o qualcosa del genere.
La pedana è quindi il “luogo” per eccellenza della scherma: innanzitutto per la necessità di normalizzare il match (visto che duelli su per le scale o tra i merli di un castello come si vedono nei film di cappa e spada sarebbero più difficilmente teorizzabili), ma anche per consentire al meglio la conduzione dello scontro da parte dell’arbitro (in epoca storica i cosiddetti “giurati” ed il presidente di giuria si spostavano lateralmente alla pedana per seguire da vicino lo scambio delle stoccate).
Il termine pedana ha numerose, composite e diverse valenze che ora cercheremo in breve di passare in rassegna.
In primis (e sicuramente è la sua accezione più immediata), la pedana è il contenitore spaziale, diciamo il campo di gioco, del match tra due schermitori. In questa ottica tutta una serie di precise norme regola minuziosamente sia l’equa ripartizione iniziale dello scontro (linea di mezzeria e linee di messa in guardia), sia la rimessa in guardia in caso di interruzione del match senza l’assegnazione della stoccata (in questo caso l’arbitro traccia un’ideale linea di separazione tra i due contendenti), sia le violazioni dei limite laterali (con relativa penalità di arretramento) o di quelli finali (con relativa penalità di una stoccata).
La pedana, subito dopo, è una specie di piano euclideo, dove si sviluppano le varie geometrie sia posturali (la guardia), sia del movimento del braccio armato (le azioni schermistiche in senso lato); unitamente è anche la dimensione dove si applicano noti principi fisici: come i vari tipi di spostamento, la meccanica delle leve come nel caso dei legamenti tra i due ferri, la percussione nel caso delle battute tra di essi, la devianza nel caso dell’angolo al polso e nella contrazione, la divergenza nel caso dell’effettuazione dei fili.
La pedana è anche fatica: come si dice, dal nulla non viene nulla; ecco che la valenza di uno schermitore, carismi a parte, è la ovvia risultante della quantità e della qualità di un allenamento sia psicofisico che tecnico. Lo schermitore a questo proposito può sempre migliorarsi (questo almeno lo sostengono i maestri) ed ha comunque la necessità di mantenersi nella forma migliore per il periodo più ampio possibile.
La pedana rappresenta inoltre un’insostituibile opportunità esperienziale: in effetti tutta la preparazione dello schermitore è finalizzata a battere l’avversario e solo il reale scambio delle stoccate in una vera competizione potrà confermare o meno la bontà della preparazione stessa. Lo schermitore, colpo su colpo e situazione su situazione, comincerà altresì a costruirsi un prezioso bagaglio esperienziale, al quale, come a delle vere e proprie categorie aristoteliche, potrà di volta in volta attingere per accrescere le probabilità della sua affermazione sull’avversario.
La pedana è anche un luogo emozionale dove lo schermitore deve pazientemente costruire il suo ego, cercando di utilizzare a proprio vantaggio i tratti della propria personalità, dominando le proprie emozioni, insicurezze, ansie e timori ed esaltando, al contrario, le proprie positività come la sicurezza di sé, la consapevolezza e l’autorevolezza. Tutte attività, è bene ricordarlo, che vanno a vantaggio non solo nell’ambito sportivo, ma anche nella vita sociale quotidiana, cioè nelle relazioni con gli altri, nell’attività di studio e in quella professionale. E qui la scherma si configura come vera e propria disciplina.
La pedana, continuando, è anche, in senso ampio, un luogo formativo: gli atleti salgono su di essa non per farsi carezze, ma ovviamente in modalità edulcorata, per sopraffarsi impugnando armi bianche. A questo proposito, opportunamente c’è tutto un dedalo di norme che regolano questo scontro: la configurazione normalizzata delle stesse armi, i comportamenti da tenere e quelli da evitare per non incorrere nelle prescritte sanzioni, la ricostruzione canonica del fraseggio schermistico secondo una Convenzione al fine dell’assegnazione della stoccata nel fioretto e nella sciabola, la presenza di un elemento terzo, l’arbitro, che garantisce il normale svolgimento del match. Ebbene, la conoscenza pregressa del Regolamento e l’accettazione di un’autorità che ha il compito di farlo rispettare, proiettano lo schermitore in una fattiva dimensione sociale di valori condivisi.
La pedana è anche indubbiamente un vero e proprio palcoscenico: si sale su di essa (oggi sempre più metaforicamente visto la sua configurazione) e ci si mostra. Il pubblico può variare da qualche sparuto osservatore interessato nei primi turni eliminatori, a centinaia di persone nel caso di fasi finali di una grossa competizione, addirittura a migliaia grazie alle riprese della televisione e dei social media per le massime competizioni internazionali; comunque quello che conta è soprattutto il mostrarsi, fare spettacolo.
La pedana, sempre continuando, è solitudine interiore: in effetti la grande attenzione sensoriale sull’avversario ed il fitto colloquio con la propria razionalità tende ad isolare lo schermitore dal mondo e la concentrazione si focalizza solo sul rettangolo dello scontro, gli stessi suoni esterni diventano sovente ovattati sino a scomparire del tutto. E tu, sotto la maschera, sei solo. “In pedana poi ci vai tu, ragazzo mio”, mi disse uno dei tanti miei maestri; non ho mai sentito una frase, anche se ovvia, più vera di questa.
La pedana è speranza: quando ci si mette alla prova (e calarsi la maschera e affrontare un avversario è una bella prova!), si cerca e si spera sempre di vincere. Ebbene, a questo proposito la pedana insegna subito e in modo ben chiaro una cosa: non si può sempre vincere, anzi! Quindi, in genere, lo schermitore impara prima a perdere, poi a vincere; questo indubbiamente fortifica il carattere.
La pedana è anche un luogo magico: la maschera, a memoria di quella delle tragedie greche, crea una frattura con il mondo e in questo assetto psicologico toglie le zavorre talvolta orpello di una personalità e libera tutte le energie che prima erano in un certo modo frenate. La pedana, in questo, rivela il vero Io dello schermitore.
La pedana è, ancora, un luogo di ricordi: ognuno, secondo la propria storia, non potrà mai cancellare le gioie e la felicità che su di essa ha vissuto, assieme, naturalmente, alle delusioni e alla mestizia; e ciò è capitato alla fine di ogni assalto e di ogni gara disputata. Il tempo passi pure indifferente, ma lo schermitore, proprio perché vive così intensamente lo scontro, conserva per sempre le immagini, i suoni e le emozioni provate.
Insomma la pedana è vita: per i più giovani anticipa le problematiche quotidiane che immancabilmente popoleranno la loro vita e li addestra ad affrontarle e a risolverle per il meglio; per i meno giovani offre un’ottima opportunità per resistere al passare del tempo, mantenendo in forma il proprio corpo, la propria mente ed il proprio spirito.
Per tutto questo, grazie pedana, grazie scherma.
M° Stefano Gardenti
a Firenze, nel giugno del 2018
Scherma e premi
Quando Alessandro, lasciando la sua Macedonia per iniziare la conquista del suo impero, donò tutti i suoi possedimenti a parenti e amici, qualcuno gli chiese: Ma tu cosa tieni per te? Lui rispose: La gloria.
Belle parole, a detta di Diodoro Siculo, Quinto Curzio Rufo e di Plutarco anche vere; incredibili parole di un idealista. Beh, vincere una gara non significa certo spingersi sino sull’Ifasi …in effetti è un’impresa senz’altro parecchio minore.
Tuttavia è innegabile che il motivo di fondo che anima lo schermitore che partecipa a una competizione sia appunto la gloria.
Innanzitutto lo è per determinate gare, quelle in cui oltre la vittoria in sé e per sé, c’è in palio il titolo di campione: all’apice c’è naturalmente quello relativo ai Giochi Olimpici, subito dietro quello dei mondiali e così via scendendo verso il basso, credo attualmente sino a quello di campione regionale, che comunque sempre campione è.
Etimologicamente il termine deriva dal latino medioevale campio, is, che significa campo di battaglia.
Un titolo, quello di campione, comunemente a scadenza annuale, tranne il caso delle Olimpiadi; un titolo di cui un atleta si fregia con orgoglio sino a quando viene rimesso in palio l’anno successivo. Campione è quindi il più immediato e significativo premio di certe competizioni, un’apposizione pur temporanea del nome, un formale ed estetico riconoscimento di merito.
Vincere un trofeo, anche di un certo prestigio, non dà invece alcun titolo, naturalmente oltre a quello di vincitore; tuttavia il più delle volte il nome viene inciso sul trofeo a imperitura memoria.
Invertendo con licenza il detto evangelico, è vero che l’uomo vive anche di pane, ecco che la vittoria porta pure alla conquista di qualcosa di materiale: un serto di mirto, ma siamo ancora non dico nel metafisico comunque in pieno ideale; una coppa, che Ebe e Ganimede riempivano di nettare e ambrosia per gli dei; una medaglia, connessa idealmente a un titolo onorifico.
Un’ulteriore distinzione può essere fatta anche in base al valore venale del premio; ad esempio una medaglia d’oro non è detto che poi sia composta effettivamente del relativo prezioso metallo: si parte dall’imitazione utilizzando una semplice vernice gialla appunto color oro; poi c’è il sotterfugio del vermeil, nato in Francia alla metà del ‘700, che consiste in un’anima della medaglia in argento con un bagno esterno d’oro ottenuto tramite elettrolisi; poi c’è la medaglia effettivamente d’oro, ma i distinguo non sono ancora finiti, perché c’è l’oro 75 carati e c’è l’oro purissimo a 24 carati, il cosiddetto oro zecchino …ecco perché, scherzosamente, circolano tante immagini di premiati che fingono di testare con un loro morso le medaglie.
Ma ancora non è finita qui: in aggiunta a questi premi, che potremmo definire classici, ne esiste tutto un universo di altra natura.
Pescando nei miei ricordi personal: all’estero, parlo degli anni ’70, a fine gara spesso c’era un grande tavolo con tanti oggetti sopra ben disposti: dall’orologio alla macchina fotografica, dalla statuetta al quadro ..insomma tutto ciò che l’Organizzazione della competizione era riuscita a racimolare; neanche a dirlo sceglieva il primo, poi il secondo …e così via, fino ad esaurimento premi. Invece nei campionati nazionali giovanili , sino alla categoria allievi, c’era per il vincitore anche il bonus di frequenza gratuita ai corsi estivi di Zocca per gli schermitori e di Pievepelago per le schermitrici. Questo già nella metà degli anni ’60; ora è un pullulare di queste iniziative durante l’estate, anche perché consentono delle “creste” non indifferenti agli abili organizzatori.
A certe gare, ti offrono anche un mazzolino di fiori, maschi compresi, oppure un pupazzo che è poi la mascotte della manifestazione; per i master, vista l’età media, sono molto di moda anche le bottiglie di vino di un certo pregio; all’occasione ci sono anche prodotti alimentari tipici del luogo o souvenir turistici; qualche volta ci sono pure gadget di qualche interessato sponsor.
Infine c’è anche la pecunia, che anche in questi casi notoriamente non olet: in effetti, essendosi ormai affermata anche nella nostra disciplina come in tutto il mondo la figura dello schermitore di Stato, certamente il compenso in denaro non guasta per chi, avendone le caratteristiche, ha deciso di lavorare nell’ambito sportivo; quindi null’altro che una gratifica o un premio di produzione come per tutti i lavoratori.
Ho lasciato volutamente per ultimo l’argomento dei premi di partecipazione: una volta, quando la partecipazione a tutte le gare, piccole o grandi che fossero, era completamente gratuita, ad ognuno veniva consegnata una medaglietta, un ricordo della gara per i molti che non sarebbero riusciti a portarsi a casa medaglie e coppe in base alla classifica di merito. Oggi, dove l’organizzazione delle gare è divenuta un’incontestabile fonte di entrata per i club più capaci e virtuosi, quasi sempre non c’è più spazio per questa delicata generosità.
Ma concedete ad un idealista retorico come me una chiusa ad effetto: il premio più grosso che possa essere consegnato ad uno schermitore è quello rappresentato dalla possibilità di partecipare alla competizione: combattere, magari soffrire, inseguire la vittoria, riuscire ad afferrarla.
M°Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2021
Scherma e sportivo
Al termine sportivo si possono dare numerosi e contrastanti significati e non è necessario essere iscritti all’Accademia della Crusca, nata qui a Firenze alla fine del cinquecento, per esserne a conoscenza; magari è interessante passarli brevemente in rassegna.
Iniziamo dalla accezione più diffusa e popolare, probabilmente dalla più abusata: sportivo è colui che sta a guardare gli altri che competono in una gara o, cosa sicuramente di maggiore impegno, in un campionato, cioè in una lunga sequela di incontri. In questo settore chi si sente più sportivo degli altri addirittura si compiace di autodefinirsi tifoso, anche in barba del triste significato letterale del termine; qualcuno ostenta anche la dimensione della fede, ma per fortuna c’è la libertà di culto!
Il meccanismo mentale di questa tipologia di sportivi, sin dalla notte dei tempi, non è sfuggito ai più furbi e ai più intraprendenti: quindi per guardare lo spettacolo messo su da altri sportivi questo sportivo deve pagare bei soldoni; affari suoi! La sociologia degli anni sessanta aveva anche partorito La partita di pallone, una canzone denuncia delle mogli abbandonate a casa dai mariti che appunto andavano allo stadio; oggi tutto è risolto: anche le donne sono accanire tifose e, per puro atto di bontà, le partite di calcio non vengono disputate solo la domenica, ma si avvicendano dall’ora di pranzo del sabato sino al lunedì sera; roba da allevamento intensivo, comunque, felici loro!
Con un po’ di tristezza nel cuore lasciamo questo prototipo di sportivo e andiamo a cercarne altre tipologie: colui che allena lo sportivo; quindi mister (tanto per restare ancora un po’ nel calcio), coach (per gli instancabili anglofili), allenatore (il termine in fin dei conti che suona meglio), maestro (riservato alle attività che hanno atteggiamenti un po’ esclusivi come la nostra scherma, il tennis, l’equitazione e il golf), istruttore (che è solo l’anticamera del maestro), insegnante (che fa molto scuola), preparatore (molto settoriale e specifico), ultimi nati: psicologi e dietologi per potenziare al massimo le prestazioni dell’atleta.
Queste figure sono assolutamente indispensabili per lo svolgimento delle varie attività sportive, ma insegnare e allenare qualcuno a qualcosa non implica automaticamente il diritto di fregiarsi del titolo di sportivo. I miei primi maestri di scherma, roba dell’inizio degli anni sessanta, impartivano le loro lezioni con la giubba sopra e i pantaloni da civile sotto: non mi è mai passato per la testa di percepirli, né tantomeno di rubricarli come sportivi; magari non ci pensavano loro stessi e neanche ci tenevano! Anche se da appassionati, lavoravano nella scherma per creare degli sportivi, ma loro appartenevano sì al mondo sportivo, ma sportivi lo erano solo per questo; altrimenti, in extenso, sarebbero da considerare sportivi anche gli addetti alle pulizie delle sale di scherma e le stesse segretarie dei vari circoli! Unicuique suum, a ciascuno il suo, direbbero i nostri padri latini.
Comunque, come abbiamo detto appena sopra, sono figure fondamentali per l’attività sportiva, figure essenziali; speriamo che si accontentino del titolo di para-sportivi!
Molto affini a questa categoria sono i cosiddetti dirigenti: altra figura importante e necessaria per la gestione politica della società sportiva in senso lato. L’uomo è un animale sociale e giustamente ha strutturato tutte le sue attività in organizzazioni con proprie regole e norme da rispettare. Che sia de facto la monarchia del maestro – re di qualche anno fa o la diarchia attuale di maestro – preparatore atletico poco importa, in ossequio alla Costituzione del nostro Stato ci deve essere e deve dar prova di esistere una forma di democrazia che coinvolga tutte le forze dell’Associazione. Quindi: elezioni, presidente, vicepresidente, consiglieri e compagnia varia.
Anche qui mi permetto citare le mie esperienza personali, soprattutto perché, cambiando spesso residenza, ho frequentato numerose Società sportive: ero molto giovane, comunque il presidente e i suoi collaboratori mi sono sempre apparsi marcatamente “anziani” e non li ho mai visti in divisa battagliare su una pedana; parlavano ovviamente di sport, ma non lo praticavano personalmente. Anche in questo caso scomoderei la definizione di para-sport.
Siamo arrivati a quelli che potremmo definire sportivi di seconda battuta: giornalisti su carta – video – web, opinionisti e affini. Un naturalista, così a prima vista, potrebbe catalogarli come parassiti; ovviamente da parte mia non c’è nessun intento offensivo o denigratorio: mi limito solo ad osservare che questo tipo di persona si basa esclusivamente sull’attività sportiva altrui, proprio come alcune forme di vita, per l’appunto, parassite.
Questo tipo di attività parasportiva è prolificato soprattutto col crescere del primo tipo di sportivi che abbiamo preso in considerazione, gli sportivi guardoni (anche e soprattutto in questo caso absit iniuria verbis). In effetti essi si acculturano tutta la settimana sulla Rosea, ma sinceramente, tranne il lunedì quando ci sono le partite o i tornei da commentare, non capisco su cosa si intrattengano; ancor più, affari loro! Per non parlare poi delle televisioni private che arrivano a parlare, giustamente dal loro punto di vista, anche delle squadre di paese.
Il colmo comunque viene toccato quando un telecronista di calcio si sbilancia spudoratamente e anche contro la realtà dei fatti per una squadra, suscitando le giuste ire dei tifosi dell’altra; oppure in altro modo quando, commentando una partita di tennis, il cronista critica apertamente un colpo errato di uno dei due giocatori …ma allora vacci tu a giocare, no?!
Quindi, sempre più a mio modesto parere, molte volte si assiste a qualcosa che sportivo non è proprio; anzi è proprio il contrario, se vogliamo attribuire un valore positivo, morale ed anche etico, al termine sport. Motu proprio escluderei questa categoria di elementi da qualsiasi definizione che minimamente alluda al mondo di cui stiamo parlando; ovviamente non tutti indiscriminatamente, ma sicuramente moltissimi di loro.
Eccoci finalmente a coloro che, sudando e risudando, per quel che mi concerne sono gli unici legittimi destinatari del termine sportivo: gli atleti di qualsiasi età e di qualsivoglia disciplina, individuale o a squadre nulla cambia.
Ma la cosa non è così semplice come può sembrare a prima vista, perché è necessario fare una serie di importanti precisazioni. In effetti ci sono degli elementi specifici che generano delle sotto – categorie di sportivi, così come piace catalogare gli aspetti del mondo ad Aristotele.
In prima battuta dobbiamo pensare all’agonismo, cioè alla naturale tendenza a primeggiare nelle competizioni sportive; certo che si tratta di un elemento molto importante, una specie di sale che dà sapore al confronto, alla disputa.
Ma allora chi esce magari tutte le mattine a farsi solo soletto una corsetta di due o tre chilometri non è uno sportivo? Chi ama andare in piscina a farsi qualche decina di vasche chi è e cosa mi rappresenta?
Sempre ricorrendo alla mia personale esperienza: direi sino all’inizio degli anni ottanta ricordo benissimo che solo all’incirca la metà degli iscritti del mio club partecipava alle gare regionali e nazionali e quindi si accontentava dell’attività di sala. E questi come li cataloghiamo, con la mentalità odierna del combattere sempre e comunque, dall’attività preagonistica sotto i dieci anni al master di ottant’anni? Sono solo figli del celebre motto mens sana in corpore sano oppure interpretano una particolare figura di sportivo? Per me, che ci tengo a precisare sono un agonista nato, sono una categoria molto da rispettare: per loro motivazioni personali rifuggono i riflettori, i ritmi sempre più incalzanti di allenamento, magari i palcoscenici e, molto probabilmente, gareggiano a modo loro con se stessi. Su una cosa comunque non ci sono dubbi: riescono a sottrarsi, naturalmente parliamo in genere, alle pressioni dei genitori – degli allenatori – dei dirigenti e di quant’altri; si sottraggono soprattutto da uno dei capisaldi imperanti della Società civile di oggi: il competere sempre e comunque come unico valore, scimmiottando alla perfezione il mondo d’oltreoceano. Per questo li ammiro come esseri tendenzialmente liberi.
E gli agonisti quindi sono pessimi soggetti? Assolutamente no, non era questo il senso di fondo delle mie precedenti parole. Competere in certi modi e in certa quantità, a mio parere, è corroborante per l’uomo; lo sportivo affronta varie tipologie di sfide, innanzitutto con se stesso e poi ovviamente con l’avversario di turno; questa attività lo allena anche ad affrontare poi la vita quotidiana in tutti i suoi anfratti e sfaccettature. Ecco che, a questo punto, entra in gioco un altro elemento per creare delle ulteriori sottocategorie tra gli sportivi agonisti: il censo, cioè il fatto di percepire o meno compensi per l’attività sportiva.
Qui devo essere estremamente prudente nei miei commenti perché dai cosiddetti miei tempi ad oggi c’è stato un vero e proprio stravolgimento e non vorrei essere tacciato di vecchio nostalgico; ce la metterò tutta!
Il professionismo nella scherma c’era già, ma era connesso esclusivamente allo svolgimento di attività di insegnamento avvalendosi del titolo professionale conseguito presso l’Accademia di Napoli; a questo proposito ricordo anche molte polemiche suscitate dal fatto che qualche schermitore, magari dal notevole passato agonistico, insegnava senza essere formalmente maestro. Comunque, a rigor di logica, non si poteva nemmeno parlare di professionismo come viene largamente inteso oggi: in effetti il maestro di scherma lavorava tel quel all’insegnante di matematica, di lettere o di filosofia.
A cominciare dai miei cosiddetti anni, i Paesi appartenenti al blocco dell’Est europeo abbracciarono una politica propagandistica fondata tra l’altro sui successi conseguiti dai propri atleti alle manifestazioni sportive, in specie ai Giochi Olimpici; in pratica i più promettenti furono assunti nelle Forze Armate e similari, garantendo loro una fonte di sostentamento prima come atleti e poi in seguito come lavoratori nelle rispettive organizzazioni. Ovviamente questo tipo di impostazione in breve tempo sovvertì gli ordini di forza esistenti e portò ad un radicale cambio di gerarchie sportive.
A questo punto è necessario un brevissimo excursus di carattere storico per capire come il fenomeno affondi le sue radici in un lontano passato.
Sappiamo tutti che l’origine delle attività sportive nasce con i Giochi Olimpici, che non sono altro che una delle attività connesse alle Olimpiadi, ovvero a ricorrenze quadriennali di natura religiosa. Forse non tutti sanno che la valenza etica di queste ricorrenze era di valore assoluto: sortiva tra l’altro il magico effetto di sospendere anche le guerre che anche nella democratica Grecia erano tutt’altro che rare. I Giochi furono aboliti alla fine del trecento dall’imperatore Teodosio in quanto il Cristianesimo che egli aveva abbracciato politicamente non ammetteva concorrenti di sorta. Ma, a onor del vero, dobbiamo precisare che le fonti storiche parlano di una progressiva degenerazione dei Giochi stessi: corruzione, atleti pagati ed interessi di vario genere avevano da tempo svilito la natura morale dei giochi (lo stesso mai troppo vilipeso imperatore Nerone vinse sei gare in una sola edizione!).
Dopo vari tentativi di altri personaggi fu Pierre de Frédy, barone di Coubertin, che nell’intento di internazionalizzare maggiormente lo sport volle ricalcare lo schema degli antichi Giochi Olimpici; fu proprio per le degenerazioni storiche di cui abbiamo fatto cenno poco sopra che fu deciso di escludere il professionismo sportivo in quanto il denaro ha lo straordinario potere di corrompere ogni cosa.
La questione era solo rimandata di qualche decennio: il surricordato disegno politico dei Paesi dell’Est si coalizzò con gli avversari storici del Capitalismo imperante in tutto il globo e l’ideale dell’atleta puro fu relegato nell’Iperuranio di platonica memoria. Politica, pubblicità e quant’altro sono entrati a gamba tesa nell’ultima oasi ideale che era sopravvissuta, appunto i Giochi Olimpici.
Complici bizantinismi giuridici, i vocabolari hanno dovuto rivedere il concetto stesso di atleta professionista, che oggigiorno non è più colui che trae la maggiore fonte di sostentamento nella vita da una pratica sportiva (come del resto suggerirebbe anche lo stesso lessico), bensì colui che percepisce il compenso da enti di una specifica natura. Ai nostri giorni in Italia, per chi non lo sapesse, gli unici sport professionistici ad litteram sono: il calcio, la pallacanestro, il golf, il ciclismo, il pugilato ed il motociclismo. Ognuno, naturalmente, può pensarla come vuole, a noi tutti, che siamo solo spettatori della storia, resta comunque il compito di analizzare il fenomeno, nella fattispecie quello schermistico.
Un primo problema sorge dal fatto che gli atleti di Stato, come vengono appunto denominati gli schermitori di migliori speranze assunti dalle Forze Armate e similari, nascono nelle più svariate sale italiane e nascono come frutto del lungo e paziente lavoro dei maestri e dei dirigenti locali, i quali, ovviamente, si sentono come operatori di potenziali Società satelliti che di punto in bianco vengono escluse dal raccogliere le loro sacrosante soddisfazioni.
Un secondo problema è che a livello agonistico, con un piede ancora nell’attività giovanile, vengono a crearsi e a stratificarsi due aree di competitor: i migliori (che del resto in partenza lo sarebbero comunque) che diventano sempre migliori per i benefit del professionismo e tutti gli altri che hanno minori possibilità di crescita. La questione è che entrambe le classi di atleti partecipano alle stesse competizioni con il risultato che taluni possono posizionare i loro blocchi di partenza molto più in avanti rispetto ad altri; la cosa diventa incommentabile quando poi si considerano le competizioni a squadre.
Il terzo problema, probabilmente quello più delicato, è che, venendosi così a strutturare la possibilità di carriera para-sportiva dello schermitore, le Società tendano ad attuare nei confronti dei neofiti politiche di selezione, non dico di tipo spartano, ma comunque ed ovviamente anche di larvata cernita. Sarebbe questo molto grave, perché ci sono voluti decenni perché si affermasse il diritto allo sport incondizionatamente per tutti, sport come strumento evolutivo e formativo dei futuri cittadini.
Queste, a mio parere, sono le più evidenti problematiche che sorgono dalla presenza del professionismo nella scherma.
La nostra Federazione Nazionale è più volte intervenuta nel tempo per sanare le esplicite incongruenze che si sono venute a creare sia sulla pedana che nelle Società; da più parti si afferma che c’è ancora molto da fare; voglio chiudere queste mie dissertazioni con l’augurio che ciò sia fatto al più presto e nel migliore dei modi.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e ranking
Tutto si evolve ed anche la scherma si adegua.
Alcuni decenni fa il numero degli schermitori praticanti e soprattutto quello degli agonisti non era poi così alto; anzi, a dire il vero, eravamo abbastanza pochi.
Il modo di gestire il loro valore agonistico, come del resto faceva anche la gran parte delle altre discipline sportive, era basato sulle categorie: oltre quelle giovanile, si partiva in genere dagli N.C. ovvero dai cosiddetti non classificati, per passare poi alla terza categoria, alla seconda e infine alla prima. C’erano poi categorie particolari sia per i maestri di scherma, sia per gli schermitori che avevano indossato la maglia azzurra: la categoria d’onore, che comprendeva coloro che si erano classificati ai primi tre posti ai campionati del mondo o ai Giochi Olimpici (solo i dilettanti) e la categoria di nazionali che comprendeva tutti gli altri. C’erano poi i cosiddetti fuori quadro che erano coloro che non erano riusciti per il primo anno a confermare la propria categoria di appartenenza.
Questi organigrammi costituivano la base per l’organizzazione dei vari campionati prima regionali e poi nazionali, che laureavano quindi i relativi campioni per l’anno in corso; a queste competizioni ognuno combatteva con i pari grado e in sede dei campionati nazionali era previsto un meccanismo di entrata o di uscita da una certa categoria in modo tale che per ogni singolo schermitore ci fosse ogni due anni un flusso di ascesa, di discesa oppure di conferma.
Cominciò comunque a muoversi qualcosa: prima per gli schermitori adulti fu istituita la Coppa Italia che era costituita da una serie di gare a punteggio da cumularsi, poi fu organizzato il Trofeo Topolino, una pari manifestazione per le categorie giovanili. Invero in tempi relativamente antichi veniva disputato tra le varie società un campionato di serie A e uno di serie B con tanto di incontri in casa seguiti poi dalla relativa trasferta.
Poi per il buon lavoro della Federazione e dei club, magari approfittando anche di una crescita economica dell’intera Società, il numero degli schermitori è aumentato in modo abnorme e quindi è doverosamente mutato anche il modo di gestire il valore agonistico degli atleti.
Approfittando indubbiamente delle potenzialità dell’Informatica, è stato creato l’attuale sistema del Ranking, ovvero una serie di classifiche generali distinte ovviamente per sesso, età, arma, nazione o livello mondiale. In effetti senza la fruizione del computer sarebbe risultato impossibile la composizione dei numerosissimi dati derivanti dalle altrettanto numerosissime competizioni sparse nell’intero mondo e anche nelle singole nazioni.
L’agonista si presenta ad una gara, che in funzione del suo livello partecipativo, è dotata di un certo monte punti; conquista un certo punteggio in relazione alla sua classifica finale; viene aggiornata la sua posizione nel Ranking: in pratica una scaletta di contatori varia strada facendo e quindi, dopo ogni gara in calendario, offre una classifica provvisoria dei valori espressi sino a quel giorno.
E’ facilmente intuibile la complessità di un meccanismo del genere: innanzitutto c’è la quantificazione del punteggio relativo ad una certa competizione rispetto ad un’altra, c’è la considerazione legata all’ubicazione delle rispettive sedi di gara, c’è il fattore del numero di competizioni che compongono l’intero programma – gare e quant’altro. Talvolta gli organi competenti si riuniscono per apportare le dovute correzioni, che si sono evidenziate come consigliabili se non addirittura necessarie sull’esperienza dei precedenti anni.
Grazie a questo grandioso organigramma, ormai in vigore in tutto il globo, ogni schermitore agonista, giovane o meno giovane – bravo o meno bravo, ha la possibilità di conoscere ad un determinato giorno la sua posizione rispetto all’intero gruppo di riferimento.
Un bel salto qualitativo, direbbe Hegel: prima del ranking, come abbiamo ricordato nelle precedenti righe, c’era un’unica gara annuale affinché ogni schermitore potesse rispecchiare il suo valore (in verità per certi risultati a certi tornei la categoria poteva anche essere attribuita d’ufficio); oggi invece gli atleti, pur dovendosi accollare una nutrita serie di trasferte per cercare di cumulare il maggior numero di punti possibile, ha il vantaggio di poter tastare le sue prestazioni di competizione in competizione.
La Coppa del Mondo, che porta felicemente il suo circo in tutti i continenti, viene assegnata non in base ad una singola gara, ma a colui che dimostra maggior costanza di rendimento nel tempo; quindi, sotto questo punto di vista, premia indubbiamente il più forte schermitore dell’anno.
In ranking ha indubbiamente anche un altro notevole vantaggio per la composizione dei gironi all’italiana del primo turno o per gli accoppiamenti di eliminazione diretta nelle competizioni che utilizzano esclusivamente questa formula di gara.
Prima le teste di serie dei singoli gironi e comunque le varie posizioni nel cartellone generale erano sommariamente determinate dalle categorie di appartenenza o della conoscenza personale che si aveva dell’atleta, quindi non si poteva che utilizzare che un metodo abbastanza approssimativo (l’unica eccezione era per le gare a squadre dei campionati del mondo e dei Giochi Olimpici, dove per queste prove veniva stilata una classifica di merito in base alla sommatoria delle prestazioni degli atleti nelle rispettive gare individuali).
Con il ranking è diventato invece tutto estremamente oggettivo in quanto ogni partecipante è portatore di un punteggio personale, che crea automaticamente la griglia di partenza della gara.
Con il nuovo metodo di classificazione la platea degli atleti, prima indiscriminata e variegata, si è ora sempre più precisata e definita.
Gli atleti di un certo livello tecnico limitano ovviamente la loro partecipazione alle gare limitrofe alla propria città, mentre quelli di caratura maggiore devono necessariamente seguire pedissequamente le tappe del circuito; idem rispetto alle diverse disponibilità economiche: chi non si può accollare certe spese di trasferta viaggia il meno possibile, chi invece gode di maggiori disponibilità si può permettere il lusso di andare in ogni dove.
Gli studenti si suddividono in due gruppi in funzione del tempo dedicato all’attività sportiva: coloro che studiano e praticano la scherma non dico per solo diletto ma quasi e invece coloro che puntano legittimamente per le proprie capacità ad entrare tra i cosiddetti atleti di Stato. Per questi ultimi è stato ideato e sta sempre più prendendo piede il cosiddetto Liceo–Sportivo, che appunto si pone il fine di coniugare nel migliore dei modi i doveri dello studente con quelli dello sportivo.
I lavoratori sono i più taglieggiati dal sistema del ranking: in effetti, a parte determinati e limitati tipi di professione, risulta non semplice il coordinamento lavoro-sport; lo fanno ormai da anni con molto onore e amore i Master, che hanno ovviamente un uguale sistema di organizzazione di gare. Nessun problema invece per i surricordati atleti di Stato, che di professione fanno appunto gli schermitori.
Comunque nessun rimpianto per l’epoca delle categorie: prima di gare ce n’erano veramente pochissime e lo schermitore viveva soprattutto in sala e di sala; oggi, se uno volesse, probabilmente potrebbe guerreggiare ogni fine settimana!
Poi, a conclusione dell’argomento, non possiamo non tener conto che il ranking si è anche imposto anche a seguito anche del proliferare delle competizioni sportive; in effetti è noto a tutti il proficuo meccanismo tramite il quale i vari club cercano di autofinanziarsi attraverso l’organizzazione di una manifestazione sportiva.
Beh! In verità sotto questo profilo lo schermitore ha perso qualcosa: prima alle pur poche gare partecipava a titolo gratuito e anzi talvolta tornava a casa con medagliette di partecipazione, buste con cartoline e altri ammennicoli vari; oggi invece paga una quota di iscrizione e le premiazioni sono purtroppo ridotte veramente all’osso.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e ringraziamenti
Grazie per aver acceso le mie fantasie di ragazzino
Grazie per aver riempito i pomeriggi della mia vita di studente
Grazie per aver migliorato le prestazioni del mio corpo e della mia mente
Grazie per avermi fatto conoscere i miei maestri
Grazie per avermi dato la possibilità di conoscere tantissime persone
Grazie per avermi fatto trovare in sala dei veri e sinceri amici
Grazie per avermi fatto conoscere la fatica fisica
Grazie per avermi fatto capire e potenziare la concentrazione mentale
Grazie per le schermitrici carine che ho incontrato
Grazie per le gioie delle mie vittorie e per le delusioni delle mie sconfitte
Grazie perché hai rappresentato per me un valore costante, ad oggi, per sessant’anni
Grazie per i luoghi del mondo che mi hai fatto conoscere per i tanti tornei che ho
disputato
Grazie del primo viaggio in aereo che ho fatto per una gara a Parigi
Grazie del sorriso del maestro che mi accoglieva dopo una gara qualsiasi fosse stato il
risultato
Grazie delle sue pacche sulle spalle
Grazie di cosa ho provato quando ho portato a casa il mio primo fioretto
Grazie per avermi dato il coraggio di dire a casa che una certa sera avevo rotto tre lame di
spada
Grazie degli scherzi che ho subito e fatto nello spogliatoio
Grazie per la complessità della tua tecnica
Grazie per i tuoi principi tattici e strategici
Grazie per quando vedevo nella mia cassetta della posta il giornalino della Federazione
Grazie per l’onore che ho avuto quando sono stato invitato a disputare assalti accademici
Grazie per la tensione che avevo quando si contavano le stoccate per il passaggio di turno
Grazie per avermi dato la possibilità di diventare presidente di giuria con tanto di giacca e
distintivo
Grazie per avermi dato la possibilità di diventare dirigente sportivo e servire il mio club
Grazie per avermi dato la possibilità di diventare maestro
Grazie per avermi dato la possibilità di diventare tecnico delle armi tra piccole viti e molle
dei rulli
Grazie per avermi fatto sentire solo sotto la maschera
Grazie per aver sentito da fuori della maschera i consigli e gli incitamenti dei miei
compagni
Grazie per la prontezza di riflessi che mi è stata molto utile anche nella vita di tutti i giorni
Grazie per l’agilità che mi ha facilitato ogni problema motorio
Grazie della fierezza che mi hai dato per appartenere al tuo mondo
Grazie per gli infiniti ricordi che mi confortano nella mia terza età
Grazie per il coraggio che mi hai infuso e che mi ha fatto affrontare più preparato la mia
vita
Grazie del colpo d’occhio a cui mi hai abituato che mi ha permesso di limitare danni
Grazie del legame che sento per tante persone solo perché sono schermitori come me
Grazie per avermi fatto conoscere personalmente tanti campioni del passato
Grazie per quando mia madre mi dava una lettera della Federazione e ci batteva il cuore
Grazie per la panoplia che ho potuto fissare al muro del mio studio
Grazie perché posso parlare di te ai miei piccoli nipoti dicendo loro: za – za
Grazie perché hai contribuito non poco al mio senso dell’onore
Grazie per le amicizie di schermitori che ancora oggi conservo
Grazie per il senso di eleganza e di portamento che hai cercato di infondermi
Grazie per il senso di lealtà che hai cercato di impormi
Grazie per avermi fatto conoscere la filosofia del touché e di tutto ciò che vi sta dietro
Grazie perché sei riuscita ad insegnarmi a lottare sino all’ultima stoccata
Grazie perché mi hai imposto di rispettare l’arbitro
Grazie perché mi hai fatto capire cosa c’è dietro i colori della bandiera di un club o del
mio Paese
Grazie per avermi insegnato a reagire in una spiacevole situazione
Grazie di avermi imposto di salutare il mio avversario prima e dopo il match
Grazie perché mi hai fatto capire cosa vuol dire dare tutto se stesso
Grazie perché mi hai dato la possibilità di esprimere la mia personalità con un mio tipo di
scherma
Grazie perché talvolta era bello essere la testa di serie dei gironi all’italiana
Grazie perché era bello mettere l’ultima stoccata e vincere una gara
Grazie perché era bello mettere una stoccata ed essere certi di aver passato il turno
eliminatorio
Grazie di avermi dato la possibilità di far felice soprattutto mia madre
Grazie di avermi qualche volta fatto sentire le frustatine del maestro sulle gambe
Grazie del “joli” con cui un mio avversario commentò la stoccata che appena gli avevo
messo
Grazie per medaglie, coppe, trofei, attestati e ammennicoli vari che mi ricordano il
lontano passato
Grazie per le accese sfide che talvolta facevo, non in gara, ma anche in sala
Grazie per le strette di mano, gli abbracci, le pacche sulle spalle che mi testimoniavano
affetto
Grazie per la libertà che hai concesso ai miei tempi, quando ci si allenava solo tre volte a
settimana
Grazie per la stima che mi concedevano i miei professori quando sapevano che ero anche
un atleta
Grazie alle prime trasferte fatte in macchina che mi hanno regalato un senso di
indipendenza
Grazie per la bella accoglienza che mi hanno riservato i tanti club per cui ho tirato,
cambiando città
Grazie per avermi dato il coraggio di impugnare non un’arma, ma una penna e aver scritto
su di te
Grazie per il coraggio di aprire alla mia età un sito di scherma e diventare un internauta
Grazie per il grande piacere che provo sedendomi alla TV per vedere sui social bellissimi
match
Grazie per le serate trascorse in pizzeria durante le trasferte per le gare
Grazie per la bellezza delle geometrie dei tuoi colpi più complessi
Grazie per la pazienza che mi hai abituato a coltivare nell’attesa del giusto tempo di un
mio attacco
Grazie per l’affascinante complessità della finta in tempo, il tuo colpo più tecnico
Grazie per la capacità di adattamento alle situazioni che mi hai indotto a sviluppare nel
match
Grazie per la velocità e la coordinazione motoria che mi hai donato
Grazie per l’applauso che talvolta ha suscitato un mio colpo vincente sul beniamino locale
Grazie perché ho verificato che il detto dei maestri chi semina può di caso raccogliere è
verissimo
Grazie per aver imparato a perdere
Grazie per aver imparato a vincere esultando con una certa moderazione
Grazie perché mi hai insegnato l’importanza dell’attenzione durante tutti gli scandagli che
ho fatto
Grazie perché mi hai insegnato a non umiliare quando il maestro mi diceva di non vincere
a zero
Grazie perché quando guardo un film di cappa e spada mi sento coinvolto
Grazie perché mi hai fatto capire l’importanza della logica quando ricercavo la contraria
opportuna
Grazie perché mi hai insegnato a sostenere lo sguardo dell’avversario durante il saluto con
l’arma
Grazie perché mi hai fatto scoprire il valore dell’unità di intenti durante le gare a squadre
Grazie perché mi hai fatto sentire il senso di appartenenza alla mia sala
Grazie perché mi hai sviluppato il senso del relativismo quando dovevo verificare l’esito di
un colpo
Grazie perché mi hai ingenerato l’eterno dubbio se la scherma sia più arte o più scienza
Grazie perché mi hai indotto a non sottovalutare o sopravvalutare nessun avversario
Grazie perché ho sperimentato l’altruismo del mio avversario che mi ha prestato la sua
arma in gara
Grazie perché la scherma ha un’infinita storia non solo sportiva ma anche nel mondo reale
Grazie perché mentre stavo cascando il mio avversario si è fermato prima dell’alt
dell’arbitro
Grazie perché il primo maestro non si scorda mai
Grazie perché mi hai dato sicurezza in me stesso tutte le volte che sono salito in pedana
Grazie perché ho ancora l’attrezzatura in ordine e mi dico: forse domani torno in sala
Grazie perché posso far vedere ai miei nipotini l’album delle mie imprese
Grazie perché con la frecciata mi hai insegnato a sfidare la gravità
Grazie perché tramite l’attacco mi hai insegnato ad osare
Grazie perché mi hai insegnato a competere lealmente
Grazie della felicità che mi hai procurato
Grazie per tutte le altre piacevoli cose che purtroppo la mia mente ha ormai dimenticato
Scherma, grazie di cuore di tutto
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
La Scherma e la Sala di scherma
Cosa mi manca della mia vita di schermitore? Tante cose, amici miei, ma una soprattutto: il frequentare una sala di scherma.
Dato per scontato che non si può (in genere) tirare in casa propria o ai giardini pubblici, la sala di scherma è il solo luogo dove possiamo fare quello che più ci piace, cioè tirare puntate, menar fendenti o arrestare al braccio, secondo i propri gusti. Il luogo deputato al nostro divertimento, gare a parte, è esclusivamente quello.
Piccola o grande che sia, funzionale o meno, blasonata o no la sala è quindi il nostro posto al sole e ce lo teniamo ben stretto, comunque sia. Talvolta le caotiche cattedrali molto frequentate non sono meglio delle “Porziuncole” di memoria francescana: essere in tanti spesso è dispersivo, invece essere in pochi unisce (questa, comunque, è un’idea molto consolante).
Il senso che volevo dare alle mie parole è che poco conta dove faccio scherma, l’importante è farla.
Ovviamente non stiamo parlando di muri, pedane, docce e affini: la sala non sono gli oggetti, ma i soggetti: il o i maestri (se ce ne sono più di uno, col tempo puoi anche sceglierli personalmente), i dirigenti (almeno quelli che si fanno vedere), i custodi (che hanno sempre qualche rimprovero pronto) e, buon ultima (ma prima) la squadra. Si! Proprio la squadra.
Dicono che la scherma sia uno sport individuale e dobbiamo annuire quando pensiamo al fatto che non ci passiamo palloni di nessun genere o, correndo, testimoni, né voghiamo sulla stessa barca o facciamo i gregari sulla bicicletta; tuttavia, a ben pensare, la squadra più numerosa che ci sia al mondo è …la sala di scherma: principianti e veterani, campioni e meno campioni, donne e uomini, quasi poppanti e vecchietti arzilli, Stachanov della pedana e mezzi imboscati, tutti sono comunque compagni di sala. Magari le frequentazioni sono abbastanza indotte, ma talvolta e non raramente, il maestro fa giustamente tirare l’allievo più bravo con quello meno bravo con l’intento di stimolarlo, il vecchietto arzillo cerca il giovinetto che può ancora spennare, i ragazzi e le ragazze di una certa età si cercano per motivi che possono anche esulare dalla scherma, Stachanov, siatene certi, tira con tutti; il solo che vive appartato è il mezzo imboscato, ma comunque è proprio quello che vuole.
Scherzi a parte, la vera ricchezza di una sala sono le persone che, incontrandosi, la fanno vivere; ci saranno motivazioni diverse, carature differenti, approcci di natura non univoca, ma il minimo comune multiplo della scherma è un ottimo collante sociale.
Tutti si vogliono bene (purtroppo non è sempre vero, ma è la viva speranza), tutti sono attaccati ai colori sociali (almeno sino a quando, talvolta per tentar di far carriera, non si mutano), tutti sono affezionati ad uno dei maestri (anche troppo, quando ahimé se ne va e fonda un’altra sala), tutti combattono per il campanile della propria città (i guai nascono quando di campanili schermistici ce ne sono due nella stessa città).
Ma in fin dei conti è bene che sia così: la sala non è come Camelot nel regno di Avalon, la sala è un luogo di incontro di persone reali e non ideali. Poi sta a ciascuno competere con se stesso per riuscire ad essere un “cavaliere”.
La sala è anche un terreno dove, annaffiate da copioso sudore fisico e mentale, molti seminano le proprie speranze di affermazione; così facendo, tra l’altro i giovani imparano letteralmente a lottare, dote da non disdegnare nel nostro mondo sociale sempre più competitivo.
Quindi viva la sala di scherma e fortunati coloro che (pur nella loro memoria) continuano a frequentarla.
M° Stefano Gardenti
Firenze, aprile 2018
Scherma e scacchi
Sin da giovane ho amato le similitudini letterarie: innanzitutto mi conquistava la fantasia dell’autore con le sue fervide sinapsi, in secondo luogo apprezzavo il suo tentativo di far comprendere a fondo ciò che aveva a cuore di comunicare al lettore. Omero, Virgilio e Dante ce ne hanno regalate a dozzine; io, ovviamente molto umilmente, vorrei porvene una, appunto quella in titolo: scherma e gioco degli scacchi.
L’impresa, anche a me che l’ho ideata, pare alquanto ardua, ma non mi voglio certo sottrarre da buon schermitore a questa sfida; anzi, più difficile è la prova, maggiore sarà, se di caso, la soddisfazione finale, anche in caso di sconfitta. Semmai perdonatemi pazientemente qualche forzatura.
Innanzitutto sia lo schermitore che lo scacchista sono in competizione: entrambi si trovano di fronte un avversario e la finalità è quella di batterlo. E, a parte eccezioni come possono essere i gironi all’italiana, la formula più utilizzata nei tornei di entrambe le federazioni è quella dell’eliminazione diretta: o io o tu, tanto per dirla in breve.
Passiamo ora al terreno di scontro: una pedana per la scherma, una scacchiera appunto per gli scacchi. La prima, come ben sappiamo, è un lungo rettangolo suddiviso in sei spazi dalla linea di mezzeria, dalle linee di messa in guardia e da quelle del limite posteriore; la seconda invece è caratterizzata da un reticolo di quadrati, sessantaquattro per la precisione. Come lo schermitore è limitato nei suoi movimenti, soprattutto quelli laterali, così anche i vari pezzi hanno ciascuno una propria limitata possibilità di spostamento; quindi il concetto di spazialità è fondamentale in entrambe le attività.
Se poi parliamo di tecnica.
Lo schermitore ha a sua disposizione il copioso ventaglio dei colpi teorizzati dai vari trattati: varie tipologie di azioni offensive, varie tipologie di azioni difensive, azioni ausiliarie, uscite in tempo ecc. ecc. Ma anche lo scacchista non scherza: ha ben sei pezzi caratterizzati da proprie facoltà di spostamento, alcune comuni a tutti e altre specifiche; inoltre lo spostamento può essere effettuato in una o più caselle; da non sottovalutare poi il combinato disposto che può essere generato dal fatto che alcuni pezzi sono doppi, precisamente la torre – l’alfiere ed il cavallo, e ciascuno di loro naviga su un diverso colore del terreno di gioco. Quindi, in conclusione, sulla pedana e sulla scacchiera entrambi i contendenti hanno una notevole abbondanza di strumenti tecnici di cui avvalersi nello scontro. A questo proposito, a mio parere, tirare una botta dritta o muovere una torre, oppure un alfiere se più vi piace, per andare a mangiare un pezzo sono due attività completamente diverse, ma concettualmente rispondono allo stesso tipo di esigenza situazionale; come del resto effettuare una parata col ferro per difendere un proprio bersaglio è molto simile a spostare sulla scacchiera un pezzo a difesa di un altro.
Stesse conclusioni per quanto attiene la tattica.
Lo schermitore e lo scacchista hanno entrambi la necessità di conoscere le caratteristiche dell’avversario per poter poi impostare più proficuamente le loro azioni: c’è lo scandaglio nella scherma, ma c’è anche negli scacchi. Entrambi hanno la necessità di dissimulare per quanto possibile la propria determinazione d’attacco e quindi entrambi utilizzano la metodologia del traccheggio. Entrambi possono scatenare il proprio attacco oppure di converso devono affrettarsi a difendersi; un attacco può essere parato e seguito poi dalla rappresaglia della risposta sia sulla pedana che sulla scacchiera. Ci può anche essere un periodo di stallo in cui i contendenti non prendono significative iniziative di sorta, ma restano in attesa degli eventi futuri. Anche le finte sono all’ordine del giorno e perpetrano lo stesso interessato scopo di distogliere l’attenzione dell’avversario per poi colpirlo su un altro bersaglio o per mangiargli un pezzo, non c’è alcuna differenza concettuale. Se l’antagonista è in affanno è proprio il momento più opportuno per continuare ad aggredirlo con altre stoccate o sottraendogli altri pezzi.
La strategia da ulteriori conferme.
Parliamo in questo ottica del tempo: sia lo schermitore che lo scacchista hanno un limite temporale massimo regolamentare per concludere il match-partita; ciò vuol dire che chi è in vantaggio di punteggio o di valore di pezzi, se ne è capace, può attuare delle tattiche dilazionatorie del tempo che possono portarlo direttamente alla vittoria.
Ma poi è soprattutto da un punto di vista mentale che la scherma e il gioco degli scacchi convergono: abbiamo già detto della simile sfida tra personalità, tra preparazione tecnica e capacità tattico – strategica. Ora dobbiamo specificare la medesima, praticamente uguale RAM (random access memory): studio del necessario – attività mirata – verifica critica del risultato. Se mi passate l’espressione, i cervelli dello schermitore e dello scacchista sono preposti a risolvere, pur in ambienti materialmente molto diversi e utilizzando strumenti alquanto differenti, simili problematiche al fine di perseguire uno stesso risultato, la vittoria nei confronti dell’antagonista. Stesse conclusioni circa la coloritura della prestazione dal punto di vista emozionale: per conseguire il massimo risultato è necessario il pieno autocontrollo al fine di sfruttare le proprie possibilità e le occasioni favorevoli che si possono presentare nel corso delle fasi del match.
So già per mio conto che in queste mie dissertazioni mi sono notevolmente arrampicato sugli specchi; la speranza comunque è quella di aver collaborato attivamente al gemellaggio scherma – scacchi!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel dicembre del 2020
Scherma e schermitore
La scherma non è un mondo a sé stante: gli schermitori sono uomini e donne e da tali si muovono tra affondi, cavazioni e controtempi.
Sappiamo tutti (ahimè!) che l’uomo non è perfetto, anzi: il campionario delle sue scempiaggini riempie i libri di storia e purtroppo sembra che essa insegni molto poco a pochissimi. “Homo homini lupus”, sentenziò il commediografo latino Plauto, poi ripreso con maggior fortuna dal celebre filosofo Thomas Hobbes.
Ma allora, grandissimo dubbio, chi impugna un’arma bianca diventa ancora più “lupus”? Gli si accendono pericolosi istinti ancestrali, poi per di più guidati da un evoluto cerebro di homo sapiens sapiens?
Allora schederanno tutti gli schermitori e faranno le gare a Sing Sing o ad Alcatraz?!
Ma no! Dai!
E’ esattamente il contrario.
Cosa vuoi dire allora; che il prossimo Premio Nobel della pace lo assegneranno ad uno schermitore e le gare le andremo a fare in un convento di Francescani?!
Beh! Forse questo è sicuramente eccessivo.
E allora?
Allora ricordati che la scherma è una Disciplina, sì con la D maiuscola; se vai sul Dizionario, una Disciplina è definita, tra le altre interpretazioni, anche come dominio dei propri istinti e impulsi, ottenuto con sforzo e sacrificio attraverso una sottomissione volontaria.
Ora, aggiustato il tiro (mi raccomando, di arco, perché sono contrario alle armi da fuoco!) forse ci siamo.
Della definizione poc’anzi citata vorrei sottolineare “attraverso una sottomissione volontaria”; qui non si tratta di obbligo scolastico e neanche di appartenenza ad uno Stato: nel mondo della scherma ci si entra con i nostri piedi perché ci vogliamo entrare.
Sarà demodé dire certe cose, ma me ne importa il giusto! Entriamo nel mondo cavalleresco: uno ha un’arma in mano, ma non per questo non deve comportarsi come si deve, anzi deve rispettare in tutto e per tutto il suo avversario; intanto la cosa è reciproca. La prevaricazione è il fine ultimo, ma essa viene cercata e perseguita con stile.
E lo stile è fatto da norme, regole e regoline che vanno rispettate e, se non ci pensi tu, c’è l’arbitro a ricordartele in modo severo (leggasi cartellini di tutti i colori).
Ecco il punto: noi abbiamo la fortuna di avere un rigidissimo corpus iuris e “gentiluomini” dobbiamo esserlo per forza. Non si può far né questo, né quello; invece devi per forza fare questo e quello …roba da Illuminismo.
Vediamo un po’.
Non si può fare un gioco violento (e ci mancherebbe altro!), non si può utilizzare il braccio non armato (ci pensate invece se potessimo impugnare oltre la nostra arma anche un bel pugnale, elettrificato anche lui!), non si può uscire dalla pedana (e dove vorresti andare?!), non ci si può girare davanti all’avversario (infatti non è educato dare le spalle!), non si può chiudere l’avversario (non è giusto, perché gli spadisti lo possono fare!), non ci si può togliere la maschera (ma mi manca il respiro!); insomma no, no e no!
Invece: si deve dare sempre la mano all’avversario, ci si deve fermare all’alt dell’arbitro (ma come! Gli stavo per mettere una bella rimessa!), una volta saliti sulla pedana non ci si può allontanare senza chiedere il permesso (come a scuola per andare in bagno!), si deve permettere di ispezionare il nostro materiale (come vi permettete di mettere in dubbio la mia onestà sportiva!), si deve controfirmare il cartellone (ma come siete formali!), si deve rispettare la misura nella rimessa in guardia (ma restano solo due secondi alla fine dell’assalto, sono in svantaggio e devo letteralmente saltare addosso al mio avversario!); insomma devi, devi e devi.
Con tutte queste induzioni, positive e negative, devi essere sportivo per forza; con le buone o con le cattive.
D’altra parte, ragazzi, non dobbiamo mai scordare che quello che noi oggi facciamo per gioco, ieri l’altro lo facevano per davvero ed erano, letteralmente, dolori.
Ripeto: noi schermitori dobbiamo essere corretti anche perché non abbiamo solo edulcorato le punte delle nostre armi con pallini e ricciolo, ma abbiamo anche reso lo scontro cortese, cioè sottoposto a regole che oggi chiamiamo sportive.
Ecco perché, se uno schermitore non è in grado di difendersi, l’arbitro deve dare subito l’alt: non importa se ha perso l’equilibrio e sta cadendo oppure gli è sfuggito il manico dalla mano; oppure, se viene verificato che un’arma non era in grado di segnalare il colpo, l’eventuale stoccata dell’altro contendente viene annullata. Lo scontro deve essere leale.
Il Regolamento deve essersi ispirato ai duelli dei film di cappa e spada, dove quando ad uno dei due duellanti cade la spada, l’altro si china, la raccoglie e poi gliela porge per continuare a menar fendenti e puntate; questo almeno lo fa sempre il buono di turno.
Il cattivo, sempre quello di turno, non fa mai questi atti cavallereschi; ecco perché il Regolamento ha inventato i cartellini multicolor.
Per questi motivi nella scherma vige il noto concetto giuridico “dura lex, sed lex”.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’aprile del 2019
Scherma e sito passionescherma.it
A onor del vero, sin da giovane, sono stato un appassionato evangelizzatore della nostra Disciplina: tale gioia e fierezza mi ha dato l’essere schermitore sin dai miei primi affondi sulla pedana, che ho sentito quanto prima l’esigenza di portare a tutti gli altri la cosiddetta buona novella.
Non c’è stata manifestazione di propaganda a portata di spada, alla quale non abbia partecipato per testimoniare i fasti della scherma.
Iniziai addirittura da giovanissimo con gli assalti accademici, ai quali mi convocavano i miei maestri di allora: inaugurazioni di palazzetti sportivi, ricorrenze in esclusivi ambienti societari oppure in occasione di feste paesane; l’habitat non era importante, importante era sentirsi alfiere della nostra disciplina. Io e i miei compagni ce la mettevamo tutta: in sala, con l’aiuto del maestro, costruivamo alcuni fraseggi con le lame non tanto con lo scopo di colpirci, quanto piuttosto per meravigliare il pubblico non competente; quindi sonore battute sui ferri, frequenti frecciate aeree e qualche urletto sparso qua e là: gli scroscianti applausi ce li meritavamo davvero!
Poi fu l’epoca degli stand alle varie manifestazioni pubbliche: soliti assalti, ma anche e soprattutto coinvolgimento diretto del pubblico con maschere e fioretti di plastica. Gettavamo i nostri ami sportivi e, a giudicare dai nuovi iscritti per il club, eravamo diventati piuttosto esperti.
Pensammo in seguito alle scuole: fummo in questo gli antesignani della pubblicità-mercato, in quanto andavamo noi direttamente dai futuri probabili compagni di sala. Vendevamo il prodotto Scherma, ma sicuramente a buon prezzo, con tanto di sconti ed incentivi.
Diventato uomo e addirittura maestro di scherma, a un certo punto ho sentito la necessità di fermare sulla carta queste mie multiformi esperienze e dalla mia penna è uscita “La divulgazione della scherma tramite manifestazioni e corsi scolastici”; parlo di circa una ventina d’anni addietro, per cui lo scritto per la sua novità fu molto apprezzato sia a livello della Federazione che dell’Associazione Italiana Maestri di scherma; per tornare all’esordio di questo articolo, un piccolo vangelo per cercare di trasmettere con cognizione di causa la passione per la nostra disciplina.
A questo punto credevo di aver dato tutto quello che potevo dare alla scherma; ma sbagliavo e non avrei mai creduto di quanto.
La mia generazione si avvale oggi dell’informatica e di tutto ciò che essa comporta, ma, lo potrà confermare la stragrande maggioranza dei miei coetanei, sono state lacrime e sangue!
Poi, piano piano, ho cominciato a scrivere le mie pubblicazioni non più sulla ticchettante macchina da trascrivere, bensì sulla tastiera con il suo prezioso tasto canc; ho cominciato a montare le mie fotografie ormai diventate digitali su divertenti presentazioni con testo e musica; ho imparato a scaricare anche da pirata qualche film. Insomma, dopo la zappa, ho cominciato ad utilizzare il versatilissimo attrezzo computer.
Un giorno ho anche cominciato a navigare sui social e ho visto che altri schermitori, tra cui colleghi maestri, avevano aperto dei loro siti personali dove facevano confluire il loro materiale.
Avevo all’incirca 65 anni e mi dissi: lascia perdere; poi la caparbietà e soprattutto il gusto della sfida, tratti della personalità che sicuramente devo in gran parte all’essere schermitore, mi hanno convinto e ho gettato, dopo Cesare, anch’io i miei dadi.
Dopo una settimana di improperi da neofita del blog, mi sono assicurato gli insegnamenti di un web-master, Marco, che tra l’altro si è rivelato non solo un abile tecnico, ma anche un vero amico.
La creatura informatica, neanche a dirlo, si chiama passione scherma con il doveroso seguito di “.it”.
Il modello che mi sono prefigurato di seguire è stato quello di cercare di creare una vera e propria sala di scherma virtuale, quindi non un luogo solo per i miei colleghi professionisti delle armi, bensì per tutti.
Ecco una parte dedicata alla tecnica, alla tattica e alla strategia schermistica: ho pubblicato i tanti miei scritti che esaminano la scherma da diverse ottiche; su questo tema ho inserito anche tantissimi video, immagini e disegni, che fossero di ausilio alla comprensione della materia.
Ecco assicurata una numerosa partecipazione di colleghi ed esperti che hanno messo generosamente a disposizione le loro esperienze nei settori di competenza: colleghi maestri di scherma tradizionale italiani e stranieri, maestri di scherma storica, medici sportivi, psicologi, fotografi, scrittori e quant’altro.
Ecco una parte dedicata al Regolamento Tecnico e a quello dei Materiali, arbitraggio compreso.
Ecco una parte dedicata alla storia, che ha il preciso intento di far capire meglio chi siamo oggi tramite i vecchi trattati, le vecchie immagini e video delle epoche precedenti; attraverso volti di maestri e di atleti che ci hanno preceduto.
Ecco una vastissima raccolta di immagini e video, che, suddivisi in una grande gamma di gallerie, forniscono la testimonianza dei multiformi aspetti della nostra disciplina.
Ecco una estesa serie di giochi schermistici inventati di sana pianta oppure adattati alla nostra disciplina al fine di utilizzare il ludo come prezioso strumento di intrattenimento e di formazione: dalla tombola schermistica, ai rebus e ai quiz vari.
Ecco, in ossequio alla cultura che è tratto peculiare della sala di scherma, rubriche di arte, poesia, musica, riflessione e morale; con una buona dose di coraggio ho anche creato la rubrica Pensieri e parole, dove scimmiotto L’Esprit des lois (de l’escrime) di Charles Louis de Secondat, conte de la Brède e di Montesquieu!
Che dire?! Si spazia anche dai suoni delle armi di appositi file-audio …alle torte a tema schermistico; dalla pubblicità alla moda che utilizzano il nostro mondo; dai (ahimé!) duelli veri al fair play; dai cugini prossimi del pentathlon al kendo; dai duelli dei film di cappa e spada a quelli teatrali; dagli eroi mitici ai moschettieri e ai pirati; dagli elmi antichi alle katane; …insieme a tantissimo altro materiale.
Il malcelato fine ultimo che mi sono riproposto tramite il sito è quello di offrire allo schermitore, ad ogni schermitore, quello che personalmente mi è stato purtroppo ignoto per tanti anni: la scherma non è fatta solo di affondi, parate e uscite in tempo, la scherma è un vastissimo universo da esplorare e ciò che vedi e apprendi in questa attività di conoscenza va sicuramente a consolidare il rapporto che ognuno di noi ha con la nostra disciplina. La scherma non è solo e soltanto agonismo sulla pedana e sudore nella preparazione, scherma vuol dire anche passione e amore per il suo universo.
A ogni livello puoi approfondire il tuo sapere, comprendendo le motivazioni che stanno alla base della tecnica, ricercando, con l’aiuto del maestro di sala, di rispondere agli altri perché che possono insorgere da questa attività di consapevole ricerca.
Ti puoi documentare su moltissime cose, curiosità comprese, grazie all’imponente archivio che trovi a tua disposizione sul sito.
Ti puoi semplicemente intrattenere e divertire con una tra le discipline più belle e complete create dall’uomo.
Insomma, questa è la viva speranza, sei nella tua sala virtuale; sala però senza colori sociali particolari, sala in cui idealmente trovi schermitori appassionati di tutto il mondo; l’unica sala esistente in cui puoi disputare un assalto comodamente seduto in poltrona …basta andare alla rubrica “Gara virtuale”.
W la scherma
ps Con un po’ di orgoglio: ad oggi, dopo circa quattro anni di esistenza, son ben 2.300.000 le visualizzazioni del sito.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel gennaio del 2021
Scherma e suoni
Chi lo avrebbe mai detto?!
Ormai è un po’ di tempo (tanto!) che sono lontano dalle pedane: mi manca soprattutto il competere, il viaggiare con ogni mezzo come facevamo ai nostri tempi per raggiungere il luogo di gara, mi manca l’abbracciare gli amici sparsi per l’Italia e un po’ per il mondo e incontrare lo sguardo di quelli un po’ meno amici, mi mancano la stanchezza – l’esaltazione o il “giramento” di fine gara, i benevoli cicchetti del maestro al ritorno in sala o le sue pacche sulle spalle in segno di complimento, ma, non ci crederete (!), mi mancano, tra le tante altre cose, anche i suoni; sì, i suoni.
Ma quelli che ti frastornano e ti stancano la testa soprattutto durante i primi turni di qualificazione dove è un tutto un andare e venire da ogni parte? Quei rumori dai quali, appena puoi, ti allontani, andando fuori dal palazzetto a prendere una boccata d’aria per far riposare la testa in attesa del prossimo turno di gara?
Ma dai! Non è possibile!
Eppure vi do la mia parola di schermitore, mi mancano!
Sarà o non sarà colpa di Proust e delle sue famose sensazioni, ma tutte le volte che mi capita di rimettere piede in una gara quello che mi colpisce di più sono i suoni; chiamateli pure rumori, voi che continuate a guerreggiare sulle pedane, piccole o grandi che siano.
Qui, nella tranquillità del mio studio, davanti alla tastiera del computer che mi consente di parlarvi, voglio fare con voi un esperimento: voglio cercare di isolare dal quell’indistinto e stancante garbuglio di decibel i singoli suoni che lo compongono, suoni che non sono casuali, ma si ricollegano a stati d’animo ed emozioni dei partecipanti, degli accompagnatori e del pubblico (che poi sono quasi sempre la stessa cosa!). Questa cosa l’ho vista fare in qualche film giallo o di spionaggio, dove con un equalizzatore o qualcosa del genere riuscivano sempre ad individuare un particolare sonoro che poi risolveva il caso brillantemente.
Io l’equalizzatore non ce l’ho, ma ho i miei ricordi, forse non come quelli di Massimo d’Azeglio, ma poco ci manca.
In effetti, immersi nel noto frastuono, basta lavorare sui nostri timpani e fare un’opera di paziente selezione.
Credetemi, è più facile di quello che sembra: i suoni infatti non sono costanti, costante è solo l’ammucchiata di rumore indistinto; soprattutto poi non hanno la stessa intensità e volume.
Ecco che per prima cosa possiamo isolare, e facilmente, il grido di vittoria dei colleghi che sono riusciti a piazzare una stoccata vincente oppure di quelli che utilizzano i decibel per convincere l’arbitro nel fioretto e nella sciabola.
E qui largo spazio alla sonorità: urla cavernose con stile Achille o altro eroe omerico minore, prestazioni da tenore tipo di Nessun dorma di pucciniana memoria, alti lai tipo indiani d’America; e tantissime altre tipologie personalizzate di esultanza acustica. Anche le donne non si sottraggono ai decibel: la tonalità delle loro voce è apprezzata soprattutto come urlo di fiera amazzone o cantante urlatrice degli anni ’60. Prendiamoli per quelli che sono: scarico di tensione, esaltazione, spettacolo, guerra psicologica con l’avversario, sicuramente anche gioia.
A quello dei protagonisti si aggiunge, appena discosto temporalmente, quello dei sostenitori (quando ci sono), tipo coro wagneriano della Cavalcata delle Valchirie; è una piccola tifoseria di basso cabotaggio, ma per spirito di corpo si fa sentire, soprattutto quando loro hanno già effettuato tutti i loro assalti e/o la loro gara non è ancora iniziata (qualcosa devono pur fare per distrarsi un po’).
A latere si sono poi i cultori dell’incoraggiamento; dai, forza, vai, alé, coraggio (quando le stoccate di svantaggio cominciano a pesare); oppure: resisti, manca poco, stai calmo (e invece spesso lo ecciti). Tutto un vocabolario di parole ovviamente corte, cortissime …tanto, se non c’è l’alt dell’arbitro, il più delle volte la tua concentrazione non te le fa nemmeno percepire.
Categoria a parte è quella dei suggeritori, che, per ovvi motivi, non possono urlare i loro preziosissimi consigli tecnici, in quanto li percepirebbe anche l’avversario e ne farebbe gelose tesoro. Quindi soprattutto gesti da mimo francese (dicono che siano i più bravi) e proprio davanti al loro accolito e ovviamente di spalle al nemico. Sarcasticamente un allievo, mutuandolo dagli autobus, potrebbe esporre il cartello “non disturbare il tiratore”. Comunque il suggeritore, laddove il suo accolito, prenda la stoccata senza rispettare i suoi input, spesso trascende e passa dal coro a bocche chiuse ad alti lai censori, spesso offensivi e psicologicamente devastanti per il suo protetto (protetto, ma non certamente da lui!). E’ raro, ma qualche volta c’è anche la replica del vessato. E così anche queste urlate, brevi ma intense, vanno a mescolarsi nella cacofonia generale.
Applausi purtroppo assenti nei gironi eliminatori: roba da finale e comunque non da tutte le finali. Eppure è il suono più schioppettante e allegro, soprattutto quando se lo merita colui per il quale tifi.
Dopo aver passato in rassegna i protagonisti, i loro tecnici e i loro accoliti, continuiamo ora il nostro excursus della scomposizione sonora.
Ogni tanto c’è l’altoparlante dell’organizzazione che spesso diventa “basso parlante”, nel senso che si riesce a comprendere il senso della comunicazione, ma non chiaramente i particolari importanti, tipo se ti hanno chiamato o era un cognome simile, o a quale pedana ti devi presentare. Vai a protestare e spesso, magari coperto dal solito frastuono, rifanno il solito comunicato incomprensibile; comunque, va detto, questo non capita fortunatamente a tutte le gare.
Questi i suoni o, se preferite, i rumori da produzione vocale; passiamo ora ad altre categorie.
Come fare a non parlare subito della segnalazione acustica delle macchinette per la registrazione delle stoccate!
Quelle vecchie, diciamo di qualche decennio fa, producevano quasi un impercettibile clic, roba da fischietto di ultrasuoni solo per cani: il più delle volte la gente si sbracciava per avvertire l’arbitro, che magari si era allontanato seguendo i duellanti sino ad un estremo della pedana, che c’era stata una stoccata.
Devo però dire che quest’impostazione era dovuta al precedente storico: una volta siamo andati in una sala diciamo un po’ indietro nelle attrezzature tecniche e abbiamo visto una specie di catafalco in puro acciaio; alla prima prova delle armi abbiamo subito un trauma acustico non indifferente: la segnalazione sonora era molto simile ad un concerto per martello pneumatico, trapano e frullatore! Ecco perché c’è stata l’epoca del bisbiglio segnaletico.
Oggi il suono è diverso, addirittura si può tarare: roba da intenditore. Però c’è qualcosa di sibilante che ti trapana il cervello e quando di questi aggeggi ne entrano in funzione sette od otto sono dolori di timpano. Sembra che a Gerico non vogliano organizzare gare di scherma!
Poi, non essendo come ho appena detto suoni uniformi, talvolta, invece che danneggiare i timpani, ne vengono fuori delle occasionali scalette non male e qualche cantautore potrebbe prendere appunti per le sue melodie.
Un’altra categoria di suoni non vocali, ahimè, ormai non si può più ascoltare durante le competizioni; invero oggi i numerosissimi gironi ed eliminazioni dirette vengono effettuati su pedane al limite del Regolamento, strette ed in pratica poste direttamente al terreno. Prima non era così, forse la lega italiana contro la tallonite era riuscita ad imporre pedane rialzate e poggianti su strutture di legno.
Fatto sta che in tal modo la deambulazione veloce dei due assaltanti, i loro balzi e affondi producevano rimbombi e cupi suoni; non vi dico poi se veniva usato il cosiddetto passo avanti affondo a balestra …roba da film Tamburi lontani con Gary Cooper. E comunque il rumore ti dava la sensazione anche da fuori di un attacco veramente dirompente, mentre il passo patinato, se veramente lo era, non veniva minimamente percepito.
Sempre a questo proposito c’era l’avversario che aveva il vezzo di arretrare sbattendo la pianta del piede avanti a terra, producendo un simpatico tump; “ascoltalo, ti dà il tempo giusto per il tuo attacco”, mi disse un giorno il maestro. Da allora capii che durante un match tutto poteva essere utile, anche un suono dell’avversario poteva ritorcersi contro di lui.
Passiamo ora a suoni molto particolari, legati a questa o quella specialità, suoni, questi sì, che ti accarezzano e ti allietano i timpani; li sentono solo i protagonisti sulla pedana, l’arbitro e i pochi che si trovano abbastanza vicini allo scontro; roba da intenditori!
Cominciamo dalla spada, per il semplice fatto che spesso nelle esposizioni è sempre lasciata inopinatamente all’ultimo posto.
Ai miei tempi la situazione di cui voglio parlarvi era puramente casuale, oggi invece, con la possibilità dei colpi di fuetto resa possibile dalla maggiore flessibilità delle lame, direi che è molto più frequente: parlo di quando la punta impatta con modalità batacchio l’ampia coccia dello spadista; si sente quello splendido e alquanto perdurante sdeng, che fa tanto canzone “Le campane fan din, don, dan ….Il pubblico talvolta sussurra e i contendenti si esaltano nelle loro parti di uomini armati combattenti; questa almeno era la mia personale sensazione.
Nella sciabola, a parte talvolta il sibilare della velocissima lama all’impatto dell’aria prodotto in occasione del molinello e soprattutto del traversone, ricordo il pap e talvolta il pop dovuto all’impatto impreciso del ferro sul bersaglio; impreciso perché lo stesso rumore denunciava il fatto che il colpo non era valido in quanto aveva raggiunto il bersaglio non con il prescritto taglio o controtaglio, bensì con la parte laterale della lama; la stoccata veniva denigratamente definita in gergo schermistico come piattonata.
Sempre nella sciabola, quando ancora non era stata introdotta la segnalazione automatica dei colpi e ci si doveva quindi affidare alle diottrie dei giurati, c’era un altro suono caratteristico o meglio serie di suoni.
L’arbitro, dopo l’alt, doveva ricostruire l’azione e qui già cominciavano talvolta dei gridolini di vivo disappunto da chi si sentiva danneggiato dal tipo di ricostruzione.
Poi era la volta dei giurati che dovevano, a voce tendenzialmente alta, sentenziare con tocca – non tocca – tocca ma in bersaglio non valido – mi astengo (in questo caso spesso lo sussurravano, denunciando quasi una specie di senso di colpa); anche in questo caso spesso, anzi spessissimo, gli sciabolatori dissentivano alquanto rumorosamente, ma anche molto comprensibilmente!
Poi in certe gare le pedane erano abbastanza vicine e il Presidente di giuria (sì prima si chiamava pomposamente così!) doveva fare uno sforzo per non confondere i giudizi espressi dai suoi assessori con quelli delle piste vicine; comunque c’era una mimica a soccorrere, anche se non era una mimica ufficiale.
Buon ultimo il fioretto: qui lasciamo volentieri il trambusto delle gare e avvolgiamoci invece a quello abbastanza simile, ma familiare, della propria sala. Tutte le stoccate, dico tutte le stoccate (all’epoca i colpi di fuetto ancora non c’erano), il maestro le suggellava con l’abbraccio del suo ferro, producendo così quel sssss (ascoltasi come S impura) che ancora non ho capito se fosse piacevole o meno, tanto si era concentrati nella lezione per far bella figura col maestro. Comunque, da insegnante, mi sono vendicato: “serve per insegnarvi meglio la stretta in tempo, cari miei” e sorridevo.
Ecco, siamo agli sgoccioli dei suoni schermistici, fastidiosi o piacevoli che siano; vi ho anche offerto delle spero calzanti onomatopeie, stile il gre – gre di ranelle di pascoliana memoria.
Eppure manca qualcosa!
Certo! Ecco!
Manca il crescendo (e decrescendo) rossiniano: alle gare si arriva e, se sei tra i primi, nel palazzetto regna il silenzio, quasi assoluto, diciamo sacrale.
Poi, mano a mano, arrivano gli altri: cresce il brusio, senti qualche “ciao” gridato a distanza, qualche battuta goliardica.
Impercettibilmente il rumore cresce: gruppetti cominciano a correre, altri tirano fuori dalle sacche le armi, salgono in pedana e cominciano a scambiarsi qualche stoccata di riscaldamento; ora il frastuono è alle stelle.
Rimbomba (quasi sempre) l’altoparlante e tutto magicamente all’improvviso tace; i cognomi vengono scanditi con la pedana di destinazione ed inizia un miniesodo di atleti, accompagnatori e sparuto pubblico personale.
Il primo “alé” gridato, giunto da una pedana, è il segnale che le ostilità sono aperte; poi il secondo, il terzo …è scoppiata la battaglia!
In seguito un girone finisce, ne finisce un altro e un altro ancora; i suoni si smorzano sempre più; poi si ricomincia con lo stesso modulo.
Solo la finale si differenzia: i suoni sono specifici e non si confondono più tra di loro: parla lo speaker o il presidente di giuria, c’è il silenzio assoluto che consente di sentire i contatti tra le due lame e i veloci passi sulla pedana, c’è l’esultanza urlata di uno dei due contendenti che fa da preludio agli applausi e agli urli di esultanza dei suoi sostenitori che si mescolano ai gridi di esortazione degli altri che tifano contro; c’è l’urlo finale per la vittoria, stile Achille, talvolta veramente agghiacciante.
Ma lo sapete che a questo punto le mie povere orecchie fischiano!
Allora il nostro amico Marcel Proust, che abbiamo disturbato all’inizio di questo articolo, aveva proprio ragione e, grazie a lui, ho potuto salire sulla macchina del tempo e tornare ai miei vecchi tempi.
Beh! Ora credo che vi meritiate un po’ del mio silenzio! Sssssssssssssssss…..
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel febbraio del 2019
Scherma e trasferte
Vi ricordate il tormentone pubblicitario No Alpitur? …ahi, ahi!; e infatti al giramondo di turno ne capitavano di tutte.
Bene; il turismo dello schermitore, con rare anzi rarissime eccezioni, riesce ad essere peggio; il perché è presto spiegato.
Devo comunque subito precisare che scrivo questo articolo richiamando alla memoria le mie trasferte personali e questo ci porta, anche senza macchina del tempo di Wels, indietro di alcuni decenni. Ecco perché non mi affretto ad affermare che ogni riferimento a cose o persone è del tutto casuale!
Dal mio girovagare estrapolo d’ufficio le trasferte fatte all’estero, perché essendo queste ultime organizzate e soprattutto sovvenzionate dalla Federazione non mi sembrerebbe né carino, né educato avanzare critiche di alcun genere; del resto, dopo tanti anni, credo che sia andato tutto in prescrizione! Della mia prima trasferta non ricordo molto i dettagli; questo non solo perché sono passati tanti e tanti anni, ma soprattutto perché avevo 12 anni e a quell’età la mente non si sofferma certo sui particolari.
Partivo da Catania con altri tre amici di avventura, accompagnati nientepopodimeno dal nostro professore di Educazione Fisica, mentre il maestro ci avrebbe raggiunto il giorno dopo. Quindi, all’epoca senza alternative di sorta, salimmo sul treno Freccia del Sud (ma come sud? Non stavamo andando al nord?!) e dopo una decina di ore arrivammo nella capitale: infatti a Roma si disputava il Gran Premio Giovanissimi, la sua seconda edizione per essere precisi. Non ricordo i pasti, probabilmente un panino e via, ma ricordo la camera da letto: non era un albergo, perché altrimenti ci sarebbe stata la chiave con il numero; io dormivo insieme ad altri due in un letto matrimoniale e il quarto della spedizione in una brandina a parte; il gabinetto, con molta probabilità, era nel corridoio in fondo a destra.
Nonostante gli sforzi, questo è tutto ciò che mi resta in mente della mia prima trasferta e, se il giorno si vede dal mattino! Ora abitavo al nord e che fosse il ricco nord me ne rendo conto ora, dopo tanti anni: arrivarono altre trasferte e cominciai a frequentare gli alberghi e i ristoranti, magari quelli non di lusso, ma comunque bagno in camera e servito a tavola.
Di una di queste nuove trasferte conservo un vivido ricordo: si andava da Milano a Napoli, naturalmente in treno, ma questa volta viaggio in cuccetta. Ed ora una domanda retorica: cosa succede se metti sei schermitori di 14 anni in uno scompartimento con sei cuccette già montate per la notte e consegni loro sei cestini da viaggio per la cena? La lotta delle cosce di pollo, l’ovvia risposta. Ci mettemmo più di un’ora a ripulire tutto, ma ne era valsa la pena!
Ecco che tutto il Centro Addestramento Scherma di Milano va a Bergamo a guerreggiare con gli altri CAS dell’epoca: Roma, Napoli e Genova. Sistemazione di una ventina di ragazzini in una casa a due piani; risultato: materassi trascinati per le scale per fare le camerate come più piaceva a noi; crisi di nervi sacrosanta della proprietaria, tutti sugli attenti a sentire la ramanzina e tutto a posto verso mezzanotte. Gli anni intanto passano e le trasferte cominciano ad essere istanti di indipendenza: viaggi in macchine di piccola cilindrata con sacche da scherma di grossa taglia, naturalmente in quattro per risparmiare sulla benzina.
In una di queste occasioni arriviamo a Montecarlo, dove si corre il Gran Premio di formula 1 e si gioca al casinò; all’epoca sono genovese di adozione e di conseguenza il concetto di risparmio, di cui sopra ho fatto cenno, viene portato all’esasperazione. Entriamo in questo affitta – camere e vediamo uno strano via vai, strano per non dire che siamo entrati in un esplicito bordello. “Forse questa volta abbiamo esagerato”, fu l’esclamazione di chi aveva fatto la scelta super economica per telefono (all’epoca, per nostra sfortuna, non c’era ancora internet).
O quella volta, da matricola azzurra a Parigi, quando vediamo che il letto è dotato di vibromassaggio; incuriositi infiliamo un franco (l’euro non aveva ancora quasi dimezzato il valore della nostra lira!) e comincia un piccolo terremoto a fasi sussultorie alternate a quelle oscillatorie; dopo una buona mezz’ora di sobbalzi cominciamo a preoccuparci, nessuno di noi parla francese nonostante lo studiassimo a scuola da vari anni e meditiamo, se la cosa fosse continuata, di dormire per terra. Poi invece sentiamo un clic improvviso ed è la pace; dormiamo quindi tranquilli e ben massaggiati.
Insomma, come avete sentito, molte volte siamo andati la mattina a fare la gara forse non completamente riposati e distesi; ma, in fin dei conti cosa importa, eravamo giovani e la classifica non ne ha probabilmente risentito più di tanto; l’importante è avere questi ricordi, sui quali farci (e tentare di far fare), increspando di un nonnulla le labbra, qualche accenno di risatina.
M° Stefano Gardenti
a Firenze nell’aprile del 2019
Scherma: L’universo Scherma
Ci sono mondi piccoli, mondi di media grandezza, poi quelli grandi; ebbene la scherma è addirittura un universo! Se mettete in dubbio questa mia affermazione oppure non lo sapevate, allora siete i lettori perfetti di queste mie divagazioni.
Non l’ho saputo sin da subito, quando da dodicenne misi per la prima volta il mio piede in una sala di scherma, ma lo penso ora, esattamente dopo 56 anni che esploro il nostro mondo; e, non avendone ancora trovato la fine, sempre più mi sembra proprio un universo; Mogol con Battisti direbbe respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini.
Uno entra in sala e, ovviamente, la prima cosa che fa è quella di costruirsi un avvenire da schermitore. Oggi ti acchiappano e ti propinano, direi molto saggiamente, dosi massicce di attività psicomotoria e preparazione atletica: quindi salta con il piede destro, poi con il sinistro, poi con tutt’e due insieme – striscia – fai due capriole e così via. Poi, ancor prima di impugnare con felicità un’arma, che spesso è anche di plastica, giochi e rigiochi con i tuoi compagni; solo dopo un po’ ti mettono in mano con una certa frequenza un fioretto, ma i giochi continuano. Dopo metà corso hai acquisito un vera e propria cultura circense e i giochi li fai vedere anche ai tuoi amici che non fanno scherma e in casa a fratellini e sorelline; insomma sei un esperto di psicomotricità e affini.
Sempre restando nella parascherma, quando sei un po’ più cresciutello ti acchiappa il preparatore atletico: prima stretching – poi corri, corri e ricorri ancora – scatti – rimbalzi – poi tappetino per attività da marine. Ti fanno fare decine di esercizi e li ripeti talmente tante volte che alla fine puoi richiedere il diploma di professore di ginnastica ad honorem. Ai miei tempi, fortunatamente o sfortunatamente a seconda delle ottiche, queste cose non c’erano e, se c’erano, erano veramente all’acqua di rose.
Con la tecnica schermistica finalmente e felicemente entriamo nel nostro sancta sanctorum: bella e interessante la tecnica, in fin dei conti fondamentalmente siamo qui proprio per questo. Sì, ma avete mai soppesato un trattato di scherma pur in forma stringata? Quante pagine ci sono dalla iniziale prima posizione alla finta in tempo? Tante e poi tante. L’interessante è che la materia non è altro che una progressiva costruzione tra presupposti e relative contrarie, il tutto immerso in specifici spazi e puntuali intervalli di tempo. Affascinante, molto affascinante, ma veramente sconfinato come il deserto del Gobi o, se preferite, quello del Namib.
Basterebbero le coordinate della postura di guardia a scoraggiare il più coraggioso: piedi ad angolo retto – tallone del piede avanti sulla linea del lato destro di quello dietro – ampiezza della guardia un piede e mezzo e anche circa – gambe flesse, ma non troppo (riecco il circa!) – ginocchia sopra le proiezioni delle gambe – spalle alla stessa altezza – testa non incassata tra le spalle e diritta verso l’avversario – busto profilato di circa(!) 33 gradi rispetto la linea direttrice (anche questa! E chi ce l’ha un goniometro?!) – braccio armato flesso (Ma di quanto?!) – braccio dietro arcuato (ma come si fa a stare fissi così!). Gli occhi ovviamente devono stare aperti, per cui solo la posizione della lingua è a piacere!
Se questo non basta ecco altre posture e movimenti: il pugno può assumere nello spazio quattro pozioni fondamentali, ma poi ci sono anche quelle intermedie che sono tre, quindi in totale sono sette. Spostarsi sulla pedana è laboriosissimo: per andare avanti prima si muove il piede avanti che deve posare a terra il proprio calcagno, poi in simultanea l’intera pianta tocca terra assieme al piede dietro. L’affondo solo dopo il primo anno non è più una tortura e poi c’è il preoccupante ritorno in guardia.
Passiamo oltre: le azioni semplici di attacco sono quattro e questo può anche andar bene, anche se, essendo i bersagli classici quattro, le azioni diventano sedici; ma quando passiamo alle azioni doppi finta ci vuole un computer: quattro sono i tipi di azione, quattro sono le tipologie di parate dell’avversario e quattro sono i bersagli; quindi stiamo parlando di 64 diversi colpi, che aggiunte alle precedenti azioni semplici, diventano ben 80 azioni d’attacco! Le uscite in tempo sono circa cinque, facendo la media tra le tre specialità.
Poi ci sono i meccanismi di controtempo, di seconda intenzione e di finta in tempo a complicare il fraseggio schermistico che diventa sempre più lungo e farraginoso, forse più delle poesie del periodo ermetico. Perché tacere poi delle categorie aristoteliche delle azioni a propria scelta di tempo opposte a quelle in tempo. E abbiamo tralasciato: le azioni ausiliarie, le quattro tipologie di parate e chissà quale altra diavoleria tecnica.
Insomma i trattati sono più complessi dei celebri 13 libri che compongono Gli Elementi di Euclide.
C’è anche la tripartizione in fioretto, spada e sciabola: è vero che tantissime posture e colpi si sovrappongono in tutte e tre le specialità, ma ci sono anche delle ovvie profonde differenze non solo tecniche, ma anche tattiche: tre tipi di guardia, nello spostamento la sciabola è a sé stante, colpi di punta qui e colpi anche di lama là. Diciamo che le tre armi rappresentano senz’altro tre galassie dell’universo Scherma.
Aspettate poi: questa è la pura conoscenza teorica, poi c’è il fatto di saperla eseguire ed eseguire bene per battere la concorrenza dell’avversario; l’allenamento e le lezioni servono proprio a mettere a punto la preparazione tecnica. Noi, quando il maestro finiva la lezione con un nostro compagno, ci nascondevamo dietro le colonne che c’erano in sala!
Sì, anche qui: ma lo schermitore non può vivere solo di tecnica, perché altrimenti queste cose resterebbero avulse dalla realtà del combattimento; quindi ecco la tattica che disbriga le pratiche delle singole stoccate, seguita necessariamente dalla strategia che invece vede il match da punti di vista più generali ed escatologici, tipo il valutare il punteggio, quanto manca alla fine regolamentare del tempo, il grado di stanchezza e parametri del genere. E in queste materie ci sarebbe veramente da far notte!
Alt! Ecco poi le regole di combattimento: come ti vesti, lo stato di conformità delle tue armi, bersagli validi e non validi, priorità convenzionali oppure no, limiti della pedana, cartellini gialli – rossi e neri, relative piccole e grandi sanzioni; peggio del codice della strada e lo schermitore poi non può dire che non era a conoscenza delle regole, perché, come nel codice penale, ignorantia legis non excusat, cioè affari tuoi; e l’arbitro non può perdonare nulla.
Ecco ora gli insegnanti: tempo addietro c’erano i maestri, solo i maestri; ora ci sono gli istruttori, doverosamente suddivisi per le loro certificate conoscenze, in animatori, istruttori regionali e istruttori nazionali: i maestri invece sono addirittura contraddistinti da livelli. Prima per conseguire i titoli professionali le materie erano veramente pochine; oggi il maestro studia su tomi e tomi numerosissime altre cose. Prima le sale erano monarchie assolute, dove regnava incontrastato il maestro, vero Roi Soleil della situazione. Oggi le sale sono rette da una triarchia (un re in più della vecchia Sparta): maestro, preparatore atletico e presidente; presto passeremo ad un quadrumvirato, visto che gli psicologi premono alle porte e pare che siano molto efficaci. Quindi in sala si fa anche politica con tanto di presidente, primo ministro e assessori.
Ora una considerazione tecnica: gli insegnanti devono ricominciare tutto daccapo, soprattutto se provengono dall’agonismo: quando erano in pedana sparavano un affondo, ora, ovviamente, per farlo sparare all’allievo devono invece eseguire un invito; oppure in difesa non devono più parare, ma, in quanto lo devono far fare all’allievo, ora devono attaccare. Insomma devono ragionare e agire come una specie di specchio tecnico, al pari di quello che serve per leggere la scrittura di Leonardo da Vinci; non sei più un effetto, ma devi diventarne la causa. E, lasciatevelo dire da uno come me che l’ha vissuto: da principio non è affatto agevole; ci vuole parecchia fatica mentale e soprattutto molta pratica.
Ora tocca agli arbitri: un tempo erano presidenti di giuria perché erano appunto a capo di giurati, cartellonisti e cronometristi; oggi fanno tutto da soli con il telecomando in mano e alle gare più importanti hanno addirittura anche la televisione, vera occasione (se mi passate l’espressione) di potenziale sputtanamento. Prima ti passavano lo stemma del GSA e te lo facevi cucire dalla mamma sulla tua personale giacca blu, se ce l’avevi. Comunque norme di qui, norme di la, su e giù: il Regolamento (e questa naturalmente è una fortuna) oggi fa la concorrenza alle Pandette di Giustiniano! Le gare si sono moltiplicate a dismisura quindi si sono doverosamente ingrossate le fila degli arbitri: se esci un momento di casa ne incontri almeno uno per la strada.
Ed ecco, buoni ultimi, i dirigenti sportivi: prima erano alla buona, spessissimo padri di schermitori giovani o loro parenti stretti. Oggi ci sono super corsi di ogni genere per affrontare e regolamentare la vita societaria: i club sono diventati piccole imprese (anche loro!) e la loro fortuna è indissolubilmente legata alla capacità e alla intraprendenza dei suoi conduttori; con la cresta alle gare, se ci si sa fare, spuntano piccoli tesori. Poi, oggi come allora (anch’io in gioventù ho ricoperto questa carica in un paio di club), ci sono i consiglieri defilatissimi, sempre assenti, validi come belle statiche statuine; ma ci sono fortunatamente quelli che invece sono onnipresenti, onniscienti, provvisti anche del dono dell’ubiquità; spesso quasi dormono nelle segreterie su una brandina. Questa è la vita!
Dimenticavo: poi ci sono gli appassionati, quelli che si dedicano alla divulgazione e alla ricerca, una specie di scienziati della scherma. In effetti non c’è alcun dubbio che la nostra bella disciplina offra numerosissime occasioni di approfondimento: nel maneggio delle armi si ossequiano principi di fisica e di geometria e si possono fare anche delle utili considerazioni statistiche.
Io, all’ultima tappa della mia via di schermitore, sono tra questi appassionati e, se mi state leggendo, siete appunto sul sito passionescherma.it, dove ho fatto confluire tutta la mia conoscenza, la mia esperienza di pedana (sia come allievo, sia come maestro) e, soprattutto, la mia passione; per ora nuovi argomenti, nuove ottiche, nuove idee zampillano ancora veementemente dalla mia testa.
Intanto la nostra navicella spaziale, dopo aver percorso parsec su parsec, prosegue spedita nell’universo scherma, universo che come tale sembra non aver né limiti né confini.
Dovunque, ora e sempre, Scherma!
M° Stefano Gardenti
a Firenze nel novembre del 2019
Aggiunte
La guardia
“Stai in guardia”, si dice anche nel linguaggio quotidiano; ecco un esempio di come la scherma prevarichi il suo mondo e sia di riferimento anche ai non schermitori.
Ecco dunque spiegata l’essenza della posizione base che assumiamo in pedana: massima attenzione e massima efficienza durante lo scontro.
Le funzionalità che si addicono al caso sono: posizione garantista al massimo, postura sufficientemente comoda, massima capacità di spostamento rapido e potenzialità di raggiungere in velocità un bersaglio dell’avversario.
Il minimo comune multiplo di tutte queste esigenze tecniche è il profilarsi del corpo rispetto all’antagonista, posizionando ovviamente il piede sotto il braccio armato in direzione di quest’ultimo; l’assetto poi deve assicurare un perfetto equilibrio fisico attraverso l’uguale distribuzione del peso corporeo sulle due gambe.
Ne risulta una posizione garantista in quanto defiliamo i nostri bersagli, allontanando metà di essi dalla lama avversaria; aggiungeremo poi una congrua misura, ovvero distanza dall’avversario, ma questo è un fattore relazionale di cui tratteremo in altra sede. Importante sarà anche il posizionamento davanti a noi del braccio armato ad attivo baluardo difensivo.
Per quanto riguarda invece il secondo punto, ovvero la comodità, essa risulta il compromesso delle varie esigenze che abbiamo appena esposte: si tratta del resto di abitudine; il mio maestro ci rassicurò durante le prime lezioni, dicendoci che tra non molto saremmo stati così comodi in guardia, da poterci prendere un thè con i pasticcini e, a onor del vero, con l’andar del tempo ce ne rendemmo conto personalmente.
Per ciò che invece concerne lo spostamento veloce, al di là delle particolari tecniche che la teoria ha escogitato – passi in avanti e all’indietro patinati o saltati, balzi e passi incrociati – l’importante, oltre la perenne raccomandazione circa l’ottimale distribuzione del peso corporeo, attiene il giusto grado di flessione delle gambe e dell’uso elastico dei piedi, soprattutto di quello dietro.
Infine per ciò che riguarda il potersi scagliare il più rapidamente possibile verso l’avversario, stante le posture appena descritte, è la coordinazione motoria asincrona delle diverse parti del corpo: il moto deve essere in pratica uniformemente accelerato, partendo dalla distensione naturale del braccio armato e, senza soluzione di continuità, coinvolgimento della gamba avanti e del busto; il braccio dietro conferisce una leggera spinta e, strano a dirsi, è la gamba dietro che funge da propulsore raddrizzandosi velocemente.
La frecciata con le stesse modalità propulsive invece si risolve in un vero tuffo in avanti in modalità terra – aria, portando il colpo sul bersagli antagonista prima che la gamba dietro cerchi l’appoggio per non far rovinare a terra il corpo.
Con la frecciata, comunque vadano le cose, sorpassiamo il nostro avversario e ci portiamo a distanza di sicurezza, invece con l’affondo eventualmente andato a vuoto siamo alle prese con l’esigenza di ritornare quanto prima nella più tranquillizzante postura di guardia; in effetti ci siamo allungati e quindi abbiamo abbassato molto la nostra linea di offesa di fronte all’antagonista che quindi ci sovrasta fisicamente. Il rientro, a differenza della partenza, vedrà gambe e braccia ripiegarsi in modo sincrono, utilizzando il braccio non armato a mo di pertica degli equilibristi.
Quindi ritornati in guardia, potremmo riprendere quella fattiva attività di guerra di trincea in attesa di scatenare un nuovo attacco oppure di cercare di opporsi a quello dell’avversario; …quindi, mi raccomando, state in guardia!
M° Stefano Gardenti
Firenze 26-3-2024